Malaparte e Montanelli il duello non finisce mai di Mario BaudinoGaetano Afeltra

Malaparte e Montanelli il duello non finisce mai Una lettera al «Giornale» rilancia la rivalità fra i due, esplosa negli Anni Trenta Malaparte e Montanelli il duello non finisce mai EN antico avversario di Indro Montanelli fa capolino, con discrezione, sulle pagine del Giornale. Sceglie la rubrica delle lettere, e per mano di un lettore si offre a un processo postumo. E' Curzio Malaparte, di cui ci viene raccontata una scelta antologia di «carognate» messe in opera contro Montanelli dagli Anni 30. Fonte, la biografia di Giordano Bruno Guerri, Varci.talia.no, ristampata da Leonardo. La furiosa antipatia nata nello scrittore all'apice del successo verso il giovane Montanelli che stava bruciando le tappe è proverbiale: una saga giornalistica e politica durata fino alla morte di Malaparte, nel '57, condita di umori toscani, benedetta dall'atavica rivalità fra Prato (dov'è nato Malaparte) e Fucecchio, patria di Montanelli. Durante la guerra Malaparte scrisse al direttore del Corriere che il giovane inviato in Albania gli sembrava «un po' stanco» e andava forse rimpiazzato (da lui). E con tutta probabilità riuscì a «soffiargli» i servizi sull'assedio di Leningrado, nel '42. «Montanelli - è sempre una citazione da Guerri - ricambiava in pieno i sentimenti dell'altro, né la morte di Malaparte lo ha reso più tenero». E' vero, direttore? La risposta è felpata: «Guerri è nel giusto dicendo che fra me e Malaparte non correva buon sangue - scrive Montanelli -. Ma 10 mi rifiuto di fare polemiche coi morti». Cita solo il «più veniale» fra i «motivi della nostra antipatia, che furono molti»: la pretesa di Malaparte a presentarsi come «l'interprete e il campione della toscanità. In realtà, di toscano non aveva nulla. Non 11 sangue, visto che è figlio di un tedesco (Suckert) e di una lombarda. Ma soprattutto non aveva lo stile letterario, che nei veri toscani è asciutto, ridotto all'essenziale, parco di aggettivi e refrattario ai fronzoli». Ma su Malaparte, Montanelli una scarica di aggettivi non riesce proprio a negarsela: il suo stile, incalza, è «enfatico, sovraccarico di colori, truculento, insomma barocco come quello del suo modello d'Annunzio». Espellere l'autore di Maledetti toscani dalla «toscanità» cui teneva tanto suona come una condanna senza appello. Soprattutto se pronunciata da un «maledetto toscano» come il grande Indro: che non ammette di aver sparato con l'artiglieria pesante: «Si può essere buoni scrittori e galantuomini senza essere toscani. Per lui la toscanità era una civetteria» ci dice, rincarando la dose. «Il mio è un giudizio letterario, di quelli che non sono mai cattivi». In altre occasioni era stato più esplicito. In un'intervista con Mughini, parlando della sua esperienza come invia¬ to di guerra in Polonia, si concesse un perfido inciso: «Poi venne Curzio Malaparte, e raccontò come al solito bugie inenarrabili». Il rivale non era stato mai da meno: nel '54 si era rifiutato di pagare lo scultore Arturo Dazzi, che lo aveva raffigurato in una statua, perché, come scrisse all'Europeo, «mi trovai in presenza del ritratto di un negro allo stato di natura... Il bello è che la statua assomigliava non a me, ma a Indro Montanelli». Montanelli se ne ricorda bene. «Ma quelle erano le cose divertenti di Malaparte - dice ora -: io gli risposi che se la statua somigliava a un negro doveva essere allora quella di Barzini. La verità è che non voleva pagarla. Era un avaraccio» si diverte il direttore del Giornale. E la saga della grande inimicizia va avanti. Per capirla, bisogna ricorrere a Gaetano Afeltra, che conosceva bene Malaparte ed è «amico fraterno» di Montanelli. «Quando in via Solferino spuntò Montanelli, che era molto più giovane di lui, Malaparte intuì il pericolo che correva e avvertì l'insidia alla sua onnipotenza di grande inviato». Erano gli anni della guerra in Etiopia. «E quando Ojetti, nel '36, recensì sul Corriere il libro di Montanelli Ventesimo battaglione Eritrea, scrisse che l'autore si rivelava come il Kipling italiano: quelle parole fecero sussultare Malaparte, che impazzì di gelosia. Finiva il suo superbo primato». Per Afeltra l'odio di Malaparte è «un caso di legitti- ma difesa in un uomo che viveva solo di amore per la gloria. Ma, povero Malaparte, questa era la sua debolezza. Credeva solo a se stesso, e gli bastava. A Dio, forse, credette solo in punto di morte fra Togliatti e il padre gesuita Felice Cappello: chissà che non sia stata quella l'ultima bugia, ingannando sia l'uno che l'altro». Montanelli non sembra perdonare, ma la tesi della legittima difesa è suggestiva. La conferma anche il biografo. «Malaparte - ci spiega Giordano Bruno Guerri era già famoso a 20 anni. Quando compare Montanelli, lui intuisce la versatilità dell'altro. E quando Montanelli1 • conosce il successo dall'Etiopia, lui è al confino». Da Parigi aveva scritto durissime lettere contro Italo Balbo, il grande amico degli Anni 20, accusandolo di complottare contro Mussolini. E il quadrumviro volle la sua testa. Era un confino dorato, a Forte dei Marmi, ma voleva dire l'impossibilità di scrivere e firmare. Basta a spiegare la saga? Forse sì. «Credo che Malaparte abbia veramente tentato d'allora in poi di frenare la carriera di Montanelli. Ma l'accusa di d'Annunzianesimo mi pare ingiusta» conclude Guerri. Ora, la lettera al Giornale ha dato una prova di tempismo: a fine ottobre uscirà da Rizzoli Dentro la storia, il libro di Montanelli con le corrispondenze dalla Finlandia nel '39 e dall'Ungheria nel '56. Quelle che facevano impazzire «l'Arcitaliano»: e il fantasma di Malaparte, non perdonato, potrà chiedere ai lettori le attenuanti generiche per'aver agito, allora, in stato di necessità. Mario Baudino L'autore di «Kaputt» era geloso: ma per Afeltra si trattava forse di «legittima difesa» rj* Indro Montanelli in divisadurante la guerra d'Etiopia e, in alto, Giordano Bruno Guerri . \ V U Curzio Malaparte in Africa Orientale e, qui accanto, Gaetano Afeltra