Clic: preti e suore sorridete c'è il reporter maledetto

Clic: preti e suore sorridete c'è il reporter maledetto Losanna: show della foto italiana. Berengo Gardin: «Contano testa, occhi e cuore, non la macchina» iVJJUlum, UVIia IWIU JLldi.JLClll.Cl. LIU O VJ CUL UHI. ^Vj' Clic: preti e suore sorridete c'è il reporter maledetto DMILANO A ieri, fino a metà ottobre, il Musée de l'Elysée di Losanna (l'istituzione I europea più importante in campo fotografico) ospita i nostri maggiori fotografi, dai grandi reporter ai virtuosi della pubblicità, dai realisti ai neoespressionisti. Qualche nome? Berengo Gardin e Basilico, Jodice, Cagnoni, Dondero, Scianna, Ghirri, Guidi, Rock, Fontana, Cito, Giansanti, Catalano. Reportage sociale e di guerra; paesaggio urbano e territorio; nudo erotico e architetture metalliche della civiltà industriale; moda, ritratto e immagine simbolica: le varie tendenze sono tutte ben rappresentate. C'è chi predilige la ricercatezza formale immortalando oggetti di consumo e celebrità, e chi preferisce catturare in giro per il mondo immagini che fanno riflettere o che addirittura arrivano allo spettatore come pugni nello stomaco. Difficile però individuare scuole e gruppi. Il panorama della fotografia italiana, a dispetto dei nostri detrattori, rivela soprattutto delle forti individualità. Quanto poi alla tentazione del concettuale e dell'astratto, sempre più diffusi in altri Paesi, non sembra aver molto attecchito. Da noi, i risultati migliori seguita ad aggiudicarseli la foto-documento e il reportage, specialità in cui eccelle il nostro fotografo più apprezzato a livello internazionale, Gianni Berengo Gardin, al quale il museo svizzero ha dedicato lo scorso anno una personale di 300 foto. Da molti considerato «il Cartier-Bresson italiano», Berengo Gardin ha proposto per il premio il nostro Roberto Kock, imo dei giovani e più stimati fotografi della celeberrima agenzia Magnum, quella di Frank Kapa e di Cartier-Bresson, per intenderci. Anziché nella cosiddetta fotografia d'arte - patinata o graffiata, comunque tecnicamente costruita sino allo spasimo - noi italiani saremmo dunque più dotati nel reportage? C'è chi si ostina a ritenerlo un tantino inferio- re. Ma il reportage, quando provoca emozione e prolungamento proprio come fosse una poesia o un racconto, non diventa espressione artistica? Perfino un estimatore della foto d'arte come Michel Tournier ha ammesso: «Il reportage diventa artistico quando parte da un'attualità banale che il fotografo trasfigura con una sorta di magia perché quello che riproduce è il mondo che ha dentro di sé». A Berengo Gardin, le definizioni non interessano granché. «Adesso va molto di moda la fotografia-opera d'arte da mettere in salotto come bene d'investimento - dice -. Ma per me la fotografia è un'altra cosa. E' documento, è racconto che deve approdare alla pagina di un giornale o di un libro... Oggi tutti s'improvvisano fotografi, pensano che basti schiacciare un pulsante, ma CartierBresson dice giustamente che le foto non si fanno con la macchina. Si fanno con la testa, con gli occhi e con il cuore...». Siamo nella mansarda della sua casa che si apre su un bel terrazzo fiorito da cui si vede la cupola di Sant'Ambrogio, e ripercorrere le tappe della sua carriera sfogliando qualcuno dei suoi 150 volumi fotografici serve a capire il ruolo che il reportage ha avuto nel nostro Paese e nello stesso tempo ricostruire un pezzo della nostra storia più recente. «Quando ho cominciato, nei primi Anni Cinquanta, usavo dei grandi formati perché allora contava più il valore formale che il contenuto - spiega -. Scimmiottavo la pittura, guardavo al paesaggio cercando di realizzare la bella foto. Poi, un mio zio americano, grande amico di Frank Kapa, m'inviò dei libri, e per me fu una rivelazione: l'apparecchio per il piccolo formato sostituiva il pennello per fare il quadro, diventando la penna che mi permetteva di esprimermi... In Italia, eravamo non cinquanta, ma cent'anni indietro. La fotografia era la bella cartolina. Così ho cominciato a fare i reportage, quello che chiamavamo il racconto per immagini e per il Touring Club sono andato in giro a documentare l'Italia e l'Europa. A me interessa l'uomo, il suo ambiente, la sua cultura». L'inizio è stato casuale. «Abitavo a Venezia - prosegue Berengo - e venivo a Milano cercando di vendere qualche foto. Un giorno, mentre in un bar mostravo alcune foto a un amico, sento qualcuno che da sopra le spalle guarda e mi dice: "Perché domani non passa al mio giornale?". Era Leo Longanesi, che allora dirigeva Il Borghese. Mi comprò qualche foto, ma, dopo un po' di mesi, lui stesso m'indirizzò a II Mondo di Pannunzio. E' stata la gavetta, un esercizio durato quasi quattordici anni. Allora, i giornali pubblicavano soprattutto foto di re e regine, soubrettes e attori di cinema. Pannunzio ha inaugurato un'illustrazione di tutt'altro genere. Gli interessava il banale quotidiano, la vera Italia che non si vedeva nei giornali la voleva concentrata in un'immagine singola, mai in un servizio. La foto poteva riguardare l'articolo, ma anche rappresentare l'esatto contrario. C'era poi una grafica bellissima, niente pubblicità e quelle foto a tuttapagina avevano un'intensità straordinaria. Ci diceva: "Andate e portatemi dei pezzetti d'Italia, delle scene di vita di provincia"». L'unico disaccordo tra i fotografi e Pannunzio nasceva dal fatto che non voleva pubblicare i loro nomi. «Ancora oggi - dice Berengo - bisogna far delle lotte. la Repubblica, per esempio, non indica mai il nome del fotografo, mentre La Stampa, che è un giornale intelligente, capisce che firmando la foto la valorizza». Ma Pannunzio, dopo tante lotte, cedette. «A quell'epoca, tutti i grandi giornalisti e scrittori collaboravano al suo giornale - racconta ancora Berengo Gardin -. Ricordo anche di avere incontrato Spadolini che, come me, portava i suoi lavori nella redazione romana di via Vittoria Colonna... Allora una delle caratteristiche delle mie foto era l'anticlericalismo che d'altronde era una delle linee di forza de II Mondo. Io facevo degli accostamenti, riprendevo delle cerimonie religiose o militari con un sorriso un po' ironico, dissacrante. Erano tempi in cui una foto di questo tipo poteva far sequestrare il giornale. Accadde a Roma, quando nel 1958, non mi ricordo più su quale nu- mero, apparve una mia foto che ritraeva un prete grasso e ridanciano mentre sullo sfondo di piazza San Pietro leggeva il Vittorioso. Oggi la notizia fa ridere, ma allora ci fu anche un processo, perché diffondere l'immagine di un rappresentante del clero con l'aria poco spirituale, che per di più legge il giornale dei ragazzini, poteva apparire un attentato alla dignità del sacerdozio... In quegli anni, con Sceiba ministro dell'Interno, era pure reato baciarsi per strada, anzi, perfino in automobile! In giro per l'Italia trovavi sia il manifesto per l'anniversario della morte di Benito Mussolini o le scritte "Viva la Pubblica Sicurezza" che, viceversa, soprattutto nelle campagne, frasi come: "Via la Polizia italiana", "Abbasso i carabinieri". Oppure vedevi il carabiniere, il prete o la vecchia signora che guardava male la donna che fumava per la strada o portava una scollatura, uno spacco di gonna ritenuti sconvenienti». Ai panorami di Venezia, dove Berengo Gardin è nato nel 1930, sono dunque seguiti, oltre al bellissimo reportage su Suzzare, vent'anni dopo quello celeberrimo di Strand, scene di vita quotidiana popolate di uomini e donne, giovani e vecchi, di ogni condizione sociale. Ritratti in strada, nei bar e negli interni di botteghe e case ci mostrano via via un'Italia che cambia, ringiovanisce, corre verso il benessere voltando le spalle a tutto ciò che sa di antico e di tradizione. Ma tra i suoi reportage più significativi c'è anche quello sui manicomi, un lavoro con Carla Cerati, partito da Gorizia per illustrare il libro di Franco Basaglia Morire di classe, pubblicato da Einaudi. Che si tratti di Italia, di India, di Cina, di Paesi nordici o di un paesino della Toscana come Sorano, a Berengo Gardin, in quarant'anni di attività, ha seguitato a interessare l'uomo, la sua cultura, la sua fatica quotidiana, la sua solitudine. Paola Decina Lombardi «Prima si fotografavano solo regine. Con Pannunzio ci fu la rivoluzione. Disse, portatemi pezzetti d'Italia. Così nacque lo stile di casa nostra» Una foto del 1970 scattata a Milano nel quartiere dei Navigli: è il ritratto del mezzogiorno italiano di una famiglia di emigrati che non si può permettere vacanze Due foto di Berengo Gardin (a fianco): prete & suora nel vento e la ferrovia