EVTUSHENKO Gol e golpe, che romanzo

EVTUSHENKO Gol e golpe, che romanzo la memoria. Come da un ricordo di calcio sovietico può nascere un libro «russo» EVTUSHENKO Gol e golpe, che romanzo MOSCA DAL NOSTRO INVIATO «Era una squadra formidabile. Parlo della nazionale degli anni dell'immediato dopoguerra. Erano i nostri idoli, anche se la tv era ancora di là da venire. Ma li conobbi da vicino solo più tardi, quand'ero già adulto e poeta, e famoso forse come loro. Anzi, quando loro erano già vecchi - per il calcio s'intende e i giovani pensavano ad altri idoli, degli stadi e no, e sognavano di diventare presto liberi. E non soltanto di correre sui campi verdi del pallone. Krusciov era già caduto, ma la speranza rimaneva, e Breznev era ancora un enigma. Vecchi, ma col football nel cuore, e nelle gambe ancora - se non l'energia - tanta tecnica, e nel cervello tanta astuzia. Allora sbarcare il lunario era non meno difficile di oggi. Così i vecchi campioni avevano messo su una specie di compagnia di giro. Un "dream team" ante litteram che sfidava le formazioni locali e si spostava da un paese all'altro come un piccolo circo di funamboli». Evghenij Evtushenko, fresco di Olimpiadi barcellonesi, rievoca, con un filo di commozione, quella partita, vista per caso dai bordi di un Campetto dalle tribune di legno. «S'invecchia, sai. E non è per niente bello». Ma riprende il filo. «Un ricordo così lontano e così piccolo. Sapevo che c'era, da qualche parte, nella mia testa. Ma non pensavo che sarei andato a ripescarlo. E che mi avrebbe aiutato a scrivere un romanzo. Per giunta un romanzo sul golpe di agosto.... Ma no, forse il romanzo non è sul golpe di agosto. Forse è un'altra cosa, che ancora non so che cosa. Forse è stato una specie di colpo di nostalgia. Per la mia giovinezza forse. O forse per quella incredibile, straordinaria pulizia morale che, nonostante tutto, molti uomini semplici erano riusciti a conservare. Adesso che tutto cambia, non sempre per il meglio, certe volte ho l'impressione che noi sovietici stiamo perdendo più cose di quante non dovremmo. E in cambio acquistiamo merci di dubbia qualità. E' un'altra prova che ancora non abbiamo capito cos'è il mercato...». Evtushenko s'interrompe un attimo e mi guarda fisso con un sorriso non troppo divertito. «Ti sei accorto che ho detto "noi sovietici"? Non era intenzionale, era automatico. Sono un bugiardo. I sovietici non esistono più. Io non posso essere un sovietico. Eppure non posso neanche non esserlo. Dovrei fare un corso di rieducazione per ricordarmi ogni volta di essere diventato solo un russo. Ma se dici queste cose in pubblico rischi subito l'accusa di imperialismo. Forse è per questo che ho scelto per protagonista del mio romanzo uno di quei signori di mezz'età in calzoncini bianchi che correvano sul prato. E in quei calzoncini di cotone, allora lunghi e larghi come quelli di oggi, ma senza tutto questo lusso, mi ci sono messo anch'io. La mia vita, la mia voglia di non morire. Per questo l'ho titolato Non morire prima della morte: perché penso che c'è sempre qualcosa da fare prima di darsi per vinti e chiudere bottega». E Evghenij Aleksandrovic si getta nella rievocazione di quel momento, senza neanche darmi il tempo di chiedere precisazioni, di fare domande. «Certo che non li pagavano. Allora sarebbe stato inammissibile. Lo sport di Stato era la personificazione della purezza, del disinteresse. I nostri anda- vano in giro per il mondo aureolati dal dilettantismo. Il lanciatore di giavellotto era essenzialmente un fresatore della fabbrica di mietitrebbiatrici. Il pugile era prima di tutto un autista di gru. La centometrista col record mondiale era inevitabilmente una operaia della fabbrica tessile "Lenin" di Ivanovo. Più passava il tempo e meno era vero. Ma c'era stato un tempo in cui era "più vero". E penso che fosse un tempo bello da ricordare». Dunque a quei giocatori «d'annata» non spettavano emolumenti. Ma gli davano qualche gallina, qualche chilo di pomodori da portare a casa alle mogli, bottiglie di buon vino da bere in compagnia, con brindisi rumorosi a sottolineare ogni sorso. Divertivano e si divertivano, anche finendo le partite col fiato un po' troppo grosso e col cuore in tumulto. E il pubblico non mancava mai. «Li trovai era la seconda metà degli Anni 60 - in una cittadina di Moldavia (allora si chiamava ancora così, ed era una Repubblica dell'Unione Sovietica; dunque giocavano in casa), vicino a Kishiniov. L'ultima partita della tournée. Mi pare fosse nella cittadina di Progress». Avevano vinto tutti gl'incontri precedenti, spesso mettendo alla berlina gli assi locali, che avevano vent'anni di meno. Il pallone era duro come la pietra e la cucitura, qualche volta, lasciava uscire il cannolo di gomma gialla che serviva per gonfiare la camera d'aria. Se, colpendo di testa, capitavi sulle corde, non ti restava che sfregarti la fronte per calmare il dolore e maledire la sorte. «Ma a Progress il centravanti locale era il primo segretario della gioventù comunista, il Komsomol. E a qualcuno - ricordo che fu proprio il portiere, il grande Aleksei Khomich - venne in mente che, forse, si sarebbe dovuto lasciargli segnare almeno un gol. Insomma far vincere la squadra di Progress, che non ricordo con esattezza, ma doveva chiamarsi per forza Dinamo. Così, per cortesia. Non per piaggeria, non per servilismo verso il potere. Anzi, per un certo senso di magnanima grandezza». Fa caldo a Mosca, come in quell'agosto lontano di Progress. Evtushenko si toglie la giacca spiegazzata a quadri verdi e azzurri, che sembra scelta apposta per far girare la gente per strada e per farle dire: «Vedi, quello è proprio Evtushenko». Cerca di ricordare la formazione delle vecchie «stelle», ma gli viene in mente solo un nome, Eduard Strelzov, la mezzala di punta. Il nome del protagonista proprio non vuole venire fuori. Ricorda soltanto che lo chiamavano «zio Kolia», Nicola. Mediano sinistro, trenta presenze in nazionale. Quando Khomich, negli spogliatoi, aveva lanciato l'idea di farsi battere alla chetichella, zio Kolia era rimasto zitto e immusonito. Gli organizzatori locali avevano messo in palio una cassa di vodka. Anzi gliel'avevano già data. E le bottiglie stavano lì, al centro dello spogliatoio, già conquistate ancora prima di dare il primo calcio al pallone, forse mandate proprio dal giovanotto del Komsomol. Ma a zio Kolia doveva sembrare immorale portarsele via senza combattere. E aveva protestato. Così erano entrati in campo senza aver deciso, un po' svogliati e di malumore, per la prima volta. Sugli spalti il tifo era diviso in due: metà per i «rossi» della Dinamo, l'altra metà per quella nazionale «sovietica» dei tempi andati, che si muoveva sul terreno a marce basse, con l'eleganza della nobiltà decaduta. Il giovane centravanti del Komsomol correva come un dannato. Ma zio Kolia gli si era appiccicato addosso, sbuffando e sudando, come un francobollo. E i minuti passavano senza che succedesse niente. A centro campo i signori attempati deliziavano il pubblico con finezze antologiche, passaggi millimetrici, finte spettacolari, colpi di tacco, tunnel che avrebbero incantato Schiaffino e Rivera, Amarildo e Puskas. Ma Strelzov e compagni del quintetto avanzato - chissà perché - diventavano improvvisamente abulici al momento di tirare in porta. Anche quando il giovane portiere della Dinamo era inequivocabilmente fuori posto. E si perdevano in interminabili passaggi sul limite dell'area, l'ultimo dei quali si spegneva regolarmente sui piedi del sorpreso difensore avversario. Sull'altro fronte, le rare volte che ci capitava la palla, c'era il roccioso e imbronciato zio Kolia a vigilare. Sarebbe finita pari, salomonicamente - rievoca Evtushenko girando tra le dita la Marlboro che non accenderà mai - se, ad un tratto, il giovane del Komsomol non si fosse trovato, per un rimpallo favorevole, in condizione ideale per segnare il gol che il «perfido» Khomich gli aveva idealmente promesso. Ma neppure Khomich, in quel momento, se la sentì di far entrare quel pallone oltraggioso nella rete piena di smagliature del campo comunale di Progress. Non bastarono i muscoli non più scattanti, non bastò il primo accenno di pancetta che arrotondava, sul davanti, la maglia, a impedire un volo prodigioso del vecchio portiere della nazionale. Da palo a palo, allungandosi e smanacciando, le dita tese in uno spasimo che lui stesso avrebbe faticato a spiegarsi, Aleksei Khomich si esibì nella più strepitosa, nella più angelica delle parate della sua camera ormai finita. La palla, deviata in extremis, sorvolò la traversa, mentre il portiere - Evtushenko si alza in piedi, disegnando con le braccia e col corpo, come una moviola al rallentatore, la parabola del volo - cadeva a terra sollevando una nuvola di poi- vere. Ma non finì pari. Zio Kolia vide e capì. Era stato un giocatore possente e rimaneva uno splendido atleta, ancora capace di far palpitare i cuori femminili delle operaie della manifattura. Il suo collo taurino, da contadino, s'incassò nelle spalle e la mascella s'irrigidì nella smorfia che i tifosi conoscevano dalle cattive fotografie dei cattivi giornali dell'epoca. Aspettò il primo passaggio e partì, come una furia selvaggia, verso l'area avversaria. Il tifo sugli spalti s'era azzittito d'un tratto, come se tutti avessero capito che qualcosa doveva accadere. Qualcosa di più grande e importante della stessa partita. Zio Kolia, il vendicatore, il giustiziere, andava a conquistare le bottiglie di vodka che aspettavano nello spogliatoio. Nessuno potè fermarlo, nessuno osò. Palla al piede, agile come ai suoi tempi migliori, percorse tutto il campo, dribblando due, tre, cinque avversari, giunse sul limite dell'area, attese l'uscita del portiere e lo freddò con un fendente così potente che il pallone rimase piantato tra la rete e il sostegno metallico, a mezz'aria. Evghenij Evtushenko tace deliziato dalla sua stessa rievocazione. «Ti piace l'idea? Ho scelto lui come protagonista. Certo non volevo raccontare una par*w^f u ti*-3 di calcio di trent'anni fa. Non è questo il punto. Cercavo un simbolo, epico a suo modo, ma non altisonante, non retorico. E' una storia d'amore, che comincia negli anni della partita, tra un giocatore e un'alpinista. E finisce - con i protagonisti già vecchi proprio nei giorni del golpe di agosto, quando l'uno e l'altra si ritrovano sulle barricate, dopo essersi perduti di vista, ma senza essersi mai dimenticati. Sono persone semplici, normali, che non distingueresti mai in mezzo a una folla. Ma nel romanzo c'è tutta un'epoca. Ci sono Gorbaciov e Eltsin, che ho interpretato a modo mio, cercando di entrare nella loro infanzia, nelle loro radici, nei loro complessi, nelle contraddizioni umane che li spiegano e li rendono, a loro modo, esemplari. Ci sono le mie quattro mogli, cui ho dedicato un intero capitolo. Ci sono io, Evtushenko, nel bene e nel male. Tra l'altro voglio dirti un segreto. Sto cercando di scrivere le parole dell'inno nazionale russo. La musica c'è, è quella di Glinka, dall'Ivan Susanin, ma le parole non le abbiamo ancora. Nessuno sa cosa metterci. E quando lo suonano siamo tutti come dei pesci: muoviamo la bocca ma non ne esce nessun suono. Ecco, il mio "Non morire prima della morte" nasce con lo stesso intento: articolare qualche suono, qualche parola, da questo momento della nostra vita che appare desolatamente muto. Ritrovare noi stessi. Ma è tanto difficile». Giuliette Chiesa Sorpresa: oltre a «Non morire prima della morte» il grande poeta sta anche cercando di scrivere le parole del nuovo inno nazionale Evghenij Evtushenko a 28 anni e (sopra) in una immagine recente. «Adesso che tutto cambia ho l'impressione che stiamo perdendo più cose di quanto dovremmo e in cambio acquistiamo merci di dubbia qualità: > è la prova che non abbiamo ancora capito cos'è il mercato» Nelle foto piccole: Breznev e la seconda moglie a Peredelkino AcoS A sinistra: Nikita Krusciov in atteggiamento cameratesco con i lavoratori di un kolkoz: si assaggiano i prodotti del luogo Sotto: un'immagine di Gorbaciov e Eltsin ca tessile Più passaa vero. Ma in cui era *w^f u

Luoghi citati: Moldavia, Mosca, Unione Sovietica