Il regista con Lolita di Simonetta Robiony

Il regista con Lolita Il regista con Lolita «Ora racconto le perversioni delle belle famiglie americane» VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Lolita Davidovich sembra Milva dopo l'incontro con Corgnati ma prima di quello con Strehler: una qualche raffinatezza nel tailleur rigorosamente neutro ma ancora troppe perle al braccio in una mutile vanità. Lanciata come una bomba sessuale da «Blaze» a fianco di Paul Newman, confermata da Percy Adlon, quello di «Bagdad cafè» che l'ha scelta per il suo nuovo film «Younger and younger» con Donald Sutherland, è la protagonista dell'ultimo incubo di Brian De Palma, «Raising Cain», ovvero «Allevare Caino» mal tradotto in «Doppia personalità». Jugoslava di origine, canadese di nascita ma professionalmente cresciuta a Chicago, nient'affatto sensuale, anzi, fortemente imbarazzata per il ruolo di diva che s'è trovata a interpretare in questa prima giornata di festival, nasconde con risate stridule la pochezza delle sue frasi. «Sì, faccio l'attrice per puro caso: non sapevo cos'altro fare da grande». «No, fino ad oggi non mi sono mai identificata in nessun ruolo». «Sì, l'aiuto maggiore l'ho avuto dal mio agente a Chicago». «No, dai registi non si impara niente: quel che so l'ho imparato osservando me stessa». Ancora più piatto l'allampanato John Lithgow, nonostante tre film con De Palma e un ruolo, questo, che lo vede alle prese con un caso psichiatrico di personalità multiple che è il massimo per un attore. «Recitare», dichiara, «è un gioco perverso e qui lo è stato come non mai perché avevo a che fare con un soggetto oscuro, eccitante, misterioso». In mezzo a questi due suoi attori ufficialmente e per contratto felici di aver lavorato con lui, De Palma appare il solo capace di nutrire alcune perplessità e molti fastidi per come questo suo primo film prodotto dalla nuova moglie Gale Anne Hurd è stato accolto in America. «Abbiamo girato dietro casa, cercando di fare una cosa a costi contenuti che ci permettesse di non allontanarci da dove viviamo. Mia moglie era incinta, poi è nato il bambino e ci siamo occupati di lui. Abbiamo fatto tutto con gran velocità per non spendere troppo, dopo un lungo lavoro di prove teatrali. Ma in America i film devono per forza incassare almeno 50 milioni di dollari se no, non interessano a nessuno. E poi devono piacere ai critici televisivi, quelli che dicono bello o brutto senza articolare giudizi, altrimenti la gente non ci va. Siamo in una grossa crisi». Faccia qualunque, vestito qualunque, barba e pancia qualunque, ma una mano passata spesso sulla fronte come a cercar pensieri che sfuggono e una acutezza nel rivendicare i propri spazi di libertà creativa, fanno intuire che De Palma può essere ancora quello di «Carrie», di «Vestito per uccidere», de «Gli intoccabili», La depressione generale, di cui pure parla a lungo, giura che non lo tocca. «Il Paese sotto elezioni invoca valori familiari e io giro un film sulle perversioni familiari. A molti non piace, qualcuno lo trova divertente, mi basta. Non spero che l'America cambi, neanche di fronte a questo terremoto economico. Ma finché troverò modo di dar corpo a certe mie divagazioni non sarò disperato». «Doppia personalità», dice, gli è venuta in mente vedendo un amico psichiatra che s'era preso tre anni di aspettativa per studiare il suo bambino e scriverci sopra un libro. Il prossimo film, «Carlito's way», con Al Pacino, lo fa per esaminare il rapporto tra un avvocato corrotto e un gangster portoricano. I suoi film raccontano quello che sogna? Non sogno. Forse raccontano quello che potrei sognare. Perché ha voluto lavorare con sua moglie? Chi fa cinema incontra gente di cinema, s'innamora, si sposa, lavora insieme. E' la vita. Qual è l'accusa che più l'infastidisce? Che sono antifemminista perché nei miei film le donne finiscono spesso male. E' una accusa stupida. E poi? Che le mie storie sono incredibili. Il cinema è finzione. E poi quel che sembra incredibile a volte è autentico. Anche a me, da ragazzo, proprio come succede nel film, è capitato di andare in una prigione controllata da un poliziotto che s'era addormentato. Fu arrestato per reati politici al tempo del Vietnam? No. Ero ubriaco. C'è qualcosa che detesta? La televisione. Ha abituato la gente a semplificare ogni vicenda proprio quando la società s'è fatta più complessa. E l'America, che ha sempre esportato cultura popolare con la televisione sta contagiando anche l'Europa. Poi ci ripensa. Osserva i taccuini e le penne che corrono veloci sui fogli, ride. «Forse però con l'Europa siamo ancora in tempo. Voi scrivete, in America usano tutti il registratore». Simonetta Robiony