I NASI LUNGHI

I NASI LUNGHI I NASI LUNGHI Perché gli scrittori amano le bugie Da Omero a Collodi, in un saggio di Lavagetto "HI HT ar^° Lavagetto apre Ira /B 11 suo bellissimo liB /lu ^ro su^a ^u&a m / H letteratura - La ci■HI B I catrìce di Montai9/ I I 9ne (Einaudi, PP- :,/ I 316, L. 38.000) H I con una citazione ■ Il dal Processo di Ka<&. ■ KB fka, che potrebbe benissimo fungere da conclusione: «No» disse il sacerdote, «non si deve credere die tutto è vero, si deve credere soltanto che tutto è necessario». «Malinconica opinione», commentò R. «Così della menzogna si fa una norma universale». Nato come corso universitario di teoria della letteratura, il libro non ha nulla di quello specialismo accademico fine a se stesso che rende burocratica, quindi illeggibile, tanta produzione d'oggi, ma possiede anzi una nitida eleganza intellettuale e di scrittura. Il suo andamento è quello di un «giallo» narratologico, di una detective-story che si sviluppa su una serie di casi, tutti sorprendentemente collegati tra di loro, da Omero a Luciano e a Boccaccio, da Goldoni a Choderlos de Laclos, per arrivare a Rousseau, Collodi, James, Svevo, Freud e Proust; sullo sfondo, le ombre nobili e terribili di due che avevano già capito tutto per conto loro, Dostoevskij e Kafka, appunto. Il lettore parte col suo piccolo bagaglio di difese moralistiche (la verità è buona, corrobora il patto sociale; la menzogna rappresenta il degrado civile, il caos, il tradimento) ed è immediatamente costretto ad ammettere che il problema è molto più complicato, e le sue soluzioni ci costringono ad esplorare territori psicologici e comportamentali che forse avevamo rimosso per pigrizia o comodità. Lavagetto parte da una questione «tecnica», i vari modi in cui un autore può mettere in scena la bugia all'interno di un testo letterario, e del sistema di convenzioni che la governano. Quando un autore parla per il tramite dei suoi personaggi, è lui che decide di volta in volta quel che il lettore deve sapere, che ne regola l'incredulità e la credulità, che fornisce indizi o occulta le prove. Chi dice che il personaggio del bugiardo sta mentendo? Lo stesso narratore? Un altro personaggio? 0 dobbiamo scoprirlo da soli, utilizzando lapsus, confrontando dichiarazioni, vagliando prove di vario genere? E u bugiardo non sarà piuttosto lo stesso narratore, che ci vuol far credere quello che vuole lui, ma spesso finisce per tradirsi, per essere smascherato dalle indagini di un investigatore paziente e sottile come Lavagetto? Di fatto la letteratura dell'occidente si apre con un mentitore sublime, forse il più geniale di tutti, quell'Odisseo «che ama i racconti bugiardi», che riesce a sopravvivere grazie alla qualità delle sue accorte invenzioni, alla continua dissimulazione della sua vera identità. Ma c'è in lui qualcosa di più, quel piacere dell'affabulazione fine a se stessa che lo porta a ingannare senza alcun bisogno il suo stesso padre e ad iscriversi così nella inquietante categoria dei bugiardi metafisici, dei «gaudentes de ipsa fallacia» ipotizzata da Agostino. Quel che Odisseo afferma è il divino potere del Racconto, la Bugia salvifica che trasmette la vita, il potere del Demiurgo o del Burattinaio che crea e modifica la Storia con le sue invenzioni. Il Valmont di Laclos pretende di essere giudicato come drammaturgo e attore, ha bisogno di un pubblico, di un riconoscimento, così come il catalogo di Leporello, osserva Lavagetto, è indi¬ spensabile a don Giovanni, è la sua carta d'identità. Il Lelio bugiardo di Goldoni in fondo è un capocomico che si diverte a muovere i fili della trama, stabilendo una parentela strettissima tra bugia e seduzione, che è poi il connubio che domina i nostri anni di grossolane seduzioni di massa. Ai narratori piacciono insomma i bugiardi perché in fondo sono il loro alter ego. Ma gli ascoltatori, i lettori non sono da meno. Un bisogno di favola, di finzione fantastica sembra addirittura iscritto nel codice genetico dell'uomo: è il pubblico che crea, che esige il narratore, non viceversa. Nel Boccaccio della novella di Alatiel, l'effetto comico nasce dalla manipolazione della verità, cui il lettore ha il privilegio di assistere, schierandosi divertito da parte della falsa pulzella che passa di uomo in uomo prima di tornare al promesso sposo. Se il narratore-bugiardo può arrivare a una «verità» attraverso la qualità delle sue finzioni, inversamente è bene diffidare di chi ostenta la propria sincerità. Nella sua voluttà di confessarsi, di espiare in pubblico, Rousseau, che rimprovera a Montaigne di mettersi di profilo, di occultare sagacemente una qualche cica¬ trice che lo può deturpare, è un esibizionista che cerca di commuovere i suoi giudici, che cerca dei complici, ma inventa anche lui. Al pari degli eroi di Dostoevskij, prova un perverso piacere dalla tormentosa coscienza della sua bassezza. Bisogna attendere Kafka per sapere che confessione e bugia sono la stessa cosa, che si può comunicare solo quello che non si è, cioè la bugia. La menzogna, cioè la scrittura, cioè «un'autobiografia del possibile» come voleva Svevo, resta il solo strumento con cui tentare una difesa in un mondo ostile (c'è in Svevo addirittura una premonizione della bomba atomica). La menzogna, aggiunge Proust, è essenziale all'umanità, è una legge che governa la giungla tormentosa dei rapporti sociali. Esperto conoscitore dei lapsus, dei salti stilistici e lessicali che segnalano l'affiorare della bugia, Proust, grande semiologo frustrato dalla stessa ambiguità dei segni che scruta, arriva a conoscere la menzogna, non la verità. Torniamo così all'intuizione di Kafka. Quello che conta, alla fine, è la necessità, la qualità dell'invenzione, quel più di conoscenza e di consapevolezza che essa ci permette di raggiungere. Ernesto Ferrerò i K//.vr'e::i; n Pinocchio risto da Topor Sopra, Joyce e Proust, due «bugiardi letterari»

Luoghi citati: Choderlos De Laclos