Mainolfi sogna mondi arcaici
Mainolfi sogna mondi arcaici Grande antologica a Rimini Mainolfi sogna mondi arcaici ERIMIMI E trenta sale della Galleria d'Arte Contemporanea ospitano fino al 10 settembre una grande antologica di Luigi Mainolfi, nato a Rotondi in quel di Avellino nel 1948 e attivo a Torino, con oltre settanta opere dell'ultimo venticinquennio. Com'è ottima consuetudine di queste mostre riminesi, essa è accompagnata dall'edizione di ima rigorosa monografia Essegi di Flaminio Gualdoni e Luca Beatrice, curatori anche della mostra. E' tanto più commendevole in questo caso la consuetudine, perché la monografia può così documentare fotograficamente la prima fase «comportamentale», dell'artista lungo gli Anni 70. Ad essa si agganciano le prime presenze in mostra, fra modellazione plastica e azione distruttiva creatrice di situazioni, disseminazioni ambientali: i calchi in gesso frantumati degli ultimi Anni 70. L'ombra di concettualità che ancora permane, con qualche eco fra Paolini e Gastini, risvolta - siamo alla soglia degli Anni 80 - con brusca imponenza ed evidente gioia e godimento liberatorio, elementare, del maneggio primigenio del colore, della terra, dell'acqua, del fuoco, nella colossale Campana del 1979, tre metri d'altezza, e nelle terrecotte policrome delle Elefantesse, delle grandi sezioni di terreni boscosi che memorizzano le native Forche Caudine. La Campana è «abitabile» (vi si entra da una rottura della base) e «leggibile», con i graffiti esterni ed interni di un codice-sigillo magico e senza tempo. E' dunque l'origine di concezioni e di temi che corrono lungo tutto il successivo quindicennio: quello dell'evocazione visiva di suoni titanici, e quello di una ritualità e di miti archetipici, magici. Ciò che subito, quando questo tipo di opere fu presentato da Tucci Russo nel 1981, colpì e affascinò pubblico e critica fu il fatto che si integravano nell'opera nuova di Mainolfi motivi antropologici profondi e grandiosi sui linguaggi elementari e primigenii, una versione creativa del rapporto attualissimo fra opere e ambiente espositivo e soprattutto l'evidenza antiintellettuale della manualità, del dibattito a mani nude con la materia fittile. Rarissima, quasi inesistente, è infatti la pietra, se non come frammento-isola non elaborato emergente dall'acqua lustrale nel cuore dei bronzi, Polipodi o Soli. L'unica materia minerale accettabile, perché malleabile ai sogni e alle fantasie di luoghi-senza luogo, di tempi-senza tempo, è il tufo, il materiale ideale per le necropoli, le comunità trogloditiche: e i Tufi, con le loro città-alveare o città-formicaio costituiscono in effetti il versante in scala ridotta dell'immaginario arcaico di Mainolfi, altre volte proiettato sul titanico. Sempre più, nel percorso di sala in sala, colpiscono i segni fantastici e sempre nuovi di una personalità eccezionale nel suo essere peritissima nell'elementare e semplice, diretta nella volontà demiurgica del creatore di mondi assai più che di forme plastiche. Tanto più colpisce, alla fine, la proposta di dare suoni, anch'essi elementari, a questi mondi, con i legni, i ferri, i bronzi di Campane e campanacci, Nacchere, Sonagli. In mezzo ai frantumi e al polverone disperante della caduta dei miti collettivi, Mainolfi crede ancora ai valori primari, e dà a loro forma. Marco Rosei Un'opera di Luigi Mainolfi esposta a Rimini: «Arcipelago», bronzo (1985)
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