Fuggita dal lager per bambini «Così i serbi ci torturavano»

Fuggita dal lager per bambini «Così i serbi ci torturavano» Jugoslavia: drammatica testimonianza di una ragazza musulmana oggi su Tg4 Fuggita dal lager per bambini «Così i serbi ci torturavano» IL mio nome è Adica, ho 17 anni, vengo da Brcko. ■ Il primo maggio è cominciata la guerra. Hanno I fatto saltare il ponte sulla Sava, l'unico passaggio tra la mia città e la Croazia. Mio padre è stato ucciso da un cecchino quattro giorni dopo. «Io, mia madre e mio fratello siamo tornati a Brcko. Abbiamo sentito dalla strada un ordine lanciato da un altoparlante: dovevamo abbandonare le case, altrimenti ci avrebbero fatto saltare in aria, noi e le case. Siamo usciti: erano serbi. Ci hanno fatto salire su una Golf bianca e ci hanno portati nel centro di Brcko. C'era molto sangue dappertutto, avevano ucciso tutte le donne che lavoravano all'ospedale. Nella piazza centrale c'era una donna impiccata a una colonna con l'orologio. Sulla piazza cadevano delle granate, e le schegge continuavano a straziare il corpo della donna impiccata. «Mia madre è stata portata in una caserma. Io e mio fratello siamo stati portati vicino al fiume (Adica spiegherà poi, con l'aiuto di un disegno, che la sede di un circolo canottieri era stata trasformata in un centro di detenzione per i bambini e i ragazzi, alloggiati in due diverse baracche, prima adibite a deposito per le canoe; ndr). Così io non ho saputo più niente di mia madre. Il lager (l'espressione usata da Adica, nella sua lingua serbocroata, è "logor", cioè la dizione slava del termine tedesco; ndr) era diviso in tre sezioni. Una era quella dei bambini fino a 10-12 anni. Io ero in questo gruppo: eravamo in quaranta. Io avevo detto di avere 10 anni, e mi hanno creduto. «La sezione delle donne era in una caserma dell'armata federale, mia mamma era lì. I primi sette giorni ci hanno lasciati senza cibo, poi hanno portato un sacchetto con 15 uova e un pezzo di pane: ci hanno detto che sarebbe dovuto bastare per un mese. Noi aspettavamo che ci dessero da mangiare, e invece niente. Dicevano che le galline non facevano più uova perché non avevano da mangiare e che allora avrebbero macellato le nostre madri e le avrebbero date in pasto alle galline. Un giorno hanno portato via un gruppo di madri. Per fortuna mia madre non era in quel gruppo. Sono passati davanti alla sezione dei bambini, e i bambini riconoscevano le madri e piangevano. Anche le madri si sono messe a piangere. Poi le hanno fatte salire sui camion frigoriferi e le hanno portate via. Il giorno dopo ci hanno portato delle uova e hanno detto: "Di questo dovete ringraziare le vostre madri, che si sono sacrificate per voi". «Un'altra sezione era riservata alle donne più anziane: sono rinchiuse in un capannone della fabbrica tessile Interplet. Dietro la fabbrica ci sono dei campi. Le donne anziane vengono obbligate a lavorare in questi campi. Quando non ce la fanno più o si ammalano, le uccidono e le buttano in grandi fosse, dietro la fabbrica. Quando una fossa è piena, la coprono di terra e cominciano con un'altra fossa. «Una volta delle donne anziane erano fuggite, le hanno prese con una ruspa, le hanno raccolte con la pala, spezzandogli le gambe. Altre donne che non ce la facevano più a lavorare nei campi le hanno schiacciate con i carri armati. Le donne anziane sono quelle che stanno peggio perché delle donne anziane non sanno che farsene. «Nella fabbrica lavorano altre donne, che si sono presentate spontaneamente. La radio ha ordinato alle donne di presentarsi per lavorare in questa fabbrica, e promettevano che a quelle che si fossero presentate da sole non sarebbe successo nulla. Invece sono costrette a lavorare nude, e i cetnici approfittano di loro. In città c'è un caffè che si chiama Westfalia. Lì c'è un postribolo dove ci sono ragazze di diciannove, vent'anni costrette a soddisfare i miliziani. Dunque: c'è la fabbrica Interplet e, dietro, le fosse comuni, poi c'è il postribolo dove tengono prigioniere delle ragazze, c'è il porticciolo per i bambini e i ragazzi, e la caserma per le donne e gli uomini: questi sono tutti i lager che io conosco. «Poi c'è il lager di Kinoradi, dove erano rinchiusi assieme musulmani e croati. Si praticavano torture, nei confronti di tutti. Io conoscevo le persone che lo facevano: Urosevic Dragan, Sasha Veselic, Monica Simonovic - lei è quella che spezza le bottiglie e incide la pelle dei prigionieri con il vetro - Romana, Diana, Sanja, Simonovic Ve¬ ra: questi sono i responsabili delle torture nel lager. Erano gente di Arkan e Seselj (sono, rispettivamente, un capo di una banda irregolare serba e il leader del partito radicale, forte di una sua formazione armata; risiedono in Serbia; ndr), venivano di sera, prendevano uomini e donne, e sparivano, non si sapeva più niente di loro. «E' successo che abbiano tagliato le dita e anche la mano a qualcuno per portargli via un anello. Prima che ci lasciassimo, mia madre mi aveva detto di dare subito via gli anelli per evitare qualsiasi complicazione. «Arrivavano gli uomini di Seselj e buttavano a terra delle pallottole. Poi ordinavano di raccoglierle. La gente raccoglieva le pallottole e loro le sparavano addosso a quello che le aveva raccolte: raccoglievi le pallottole con cui saresti stato ucciso. C'erano delle uccisioni di massa, quotidiane. Ogni sera venivano uccise otto persone. Era una vendetta per i serbi morti. Anch'io sono stata scelta per essere fucilata. Ma queste persone di Brcko, che mi conoscevano, dicevano: "No, lei, no. Domani, la fuciliamo domani". «Il primo giorno, quando sono arrivata al lager, mi hanno tracciato con la punta del coltello un simbolo serbo sulle braccia. Chi mi ha fatto il marchio è Sasha Vesovic, comandante del lager. Mi ha fatto anche una stella e una mezzaluna, il simbolo di noi musulmani. Hanno buttato via i nostri documenti, ci hanno detto che avremmo ricevuto dei documenti serbi, che non saremmo più stati musulmani. «Nel frattempo per quello che io sapevo, la vita a Brcko continuava normalmente: la gente lavorava, viveva normalmente, bastava non essere musulmani. So che entravano nelle nostre case e prendevano quello che volevano, come fosse un mercato: arrivavano con i camion e portavano via le nostre cose. «Sono scappata dal lager approfittando di un grande attacco a Brcko. I nostri sono arrivati fino a Kolobar, hanno liberato il lager di Kinoradi. I serbi temevano che liberassero tutta Brcko. Allora io e mio fratello, la mia amica Maia e suo fratello - loro sono di Zagabria, erano stati sorpresi dalla guerra mentre erano in visita a una zia - abbiamo rotto una finestra e siamo scappati dal lager. Ci siamo buttati nel fiume e abbiamo nuotato. Ci hanno visto e hanno gridato "scappano! scappano!" e ci hanno sparato quelli che erano appostati sul minareto della mo- schea. Ma noi ci siamo nascosti dietro alcune piccole barche e nuotavamo. Siamo arrivati fino a un piccolo porto sull'altra riva. I soldati croati ci hanno puntato le armi contro, pensavano fossimo serbi. Abbiamo urlato che eravamo bambini e allora ci hanno aiutato. Ci hanno portato in un ospedale». Fin qui il racconto di Adica. In seguito è stata ricoverata in un ospedale di Zagabria, dove racconta di esser stata visitata da uno psicologo. La sua amica Maia e il fratello si sono ricongiunti con la famiglia, a Zagabria. Il fratello di Adica, Davor, è salito su un camion diretto verso la Bosnia. Ha salutato la sorella dicendole che si sarebbe vergognato se non fosse tornato a combattere per liberare Brcko. Adica non ha avuto più notizie di Davor, che è ancora un bambino. Non ha più notizie della madre, che è rinchiusa nel lager di Brcko. Adica porta alla caviglia un sottile filo rosa. E' il ricordo della sua amica Isabela. Una notte le guardie sono venute a prenderla. Adica ha tentato invano di impedirlo, seguendola e trattenendola per i capelli. Il filo rosa è quanto le è restato in mano dell'elastico che stringeva i capelli di Isabela. Adica ha frequentato per tre anni un corso di programmatrice per computers. Le mancava il quarto e ultimo anno di corso, ma il suo sogno sarebbe stato quello di fare la parrucchiera, come la madre. Il padre era autista di pullman. Lavorava spesso sulla linea tra la ex Jugoslavia e la Germania. Qualche volta aveva portato la figlia con sé. La famiglia Omic era una famiglia felice: il più bel ricordo di Adica sono le vacanze della scorsa estate, trascorse a Rovigno, in Istria. Nella Slovenia quello che restava della vecchia Repubblica federativa aveva già cominciato a distruggersi con violenza, e la guerra si affacciava in Croazia. Ma per la famiglia Omic tutto sembrava in qualche modo lontano e impossibile. Adesso Adica Omic è ospite del campo Veli Joze, a Savudrija, a pochi chilometri da Rovigno. Tutto quello che ha è un documento attestante la sua condizione di profuga. Pochi, tra gli ospiti del campo, conoscono la sua terribile storia. La direzione del campo cerca di proteggere la sua voglia di vivere, ma anche la sua condizione rara di testimone in grado di raccontare circostanze, di fare nomi e cognomi, di descrivere come è organizzato un campo di prigionia per bambini. Non sono molti quelli riusciti a fuggire dalla prigionia di un campo che mai nessun organismo internazionale ha potuto visitare. Adica racconta che ogni detenuto viene marchiato con una sigaretta e che un segno equivale a un mese. Sulla sua pelle ci sono cicatrici di una bruciatura più grossa e visibile e di una bruciatura più piccola: è rimasta per un mese e mezzo in un lager della Bosnia. Toni Capuozzo Donne portate in fabbrica e messe a lavorare nude A partire da oggi il Tg4 trasmetterà una drammatica testimonianza sulle violenze serbe nella Jugoslavia martoriata: si tratta del racconto di Adica Omic, musulmana di 17 anni, fuggita dal campo di prigionia di Brcko, in Bosnia, dove si ritiene siano rinchiusi circa 600 tra anziani, donne e uomini musulmani (oltre a gruppi di prigionieri croati). Secondo il suo racconto, nel campo è in funzione una sezione riservata ai bambini sino a 12 anni di età, separati dai genitori. Nessun funzionario della Croce Rossa ha mai potuto visitare il lager di Brcko di cui si conosceva finora l'esistenza solo attraverso testimonianze indirette. Il racconto di Adica è stato raccolto dall'italiano Toni Capuozzo: ne pubblichiamo una sintesi. Adica Omic, 17 anni, musulmana di Brcko. Presa dai serbi, è stata rinchiusa in un lager per bambini. Per sette giorni senza cibo, è fuggita durante una battaglia. In aito, un lager in jugoslavia