Brodskij, esule da vent'anni Perché non torno in Russia

Brodskij, esule da vent'anni Perché non torno in Russia Incontro con il poeta: sradicamento, solitudine, creazione Brodskij, esule da vent'anni Perché non torno in Russia VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Continua a fumare. E non dovrebbe, con la serie di infarti e bypass che ha collezionato. Continua ad amare le belle donne: ma in questo caso non ci sono controindicazioni. La sua ultima moglie è una giovane italiana dalla bellezza insieme fragile e altera, con una massa dorata di capelli raccolti sulla nuca. Continua ad essere in esilio: da venti anni, da quando nel 1972, dopo processi, lavori forzati ed altre repressioni, il Kgb lo espulse dall'Urss. Ma lui, Iosif Brodskij, 52 anni, premio Nobel per la letteratura nell'87, non si considera un esiliato. Il pupillo di Anna Achmatova, riconosciuto come il più grande poeta vivente di lingua russa, l'aristocratico versificatore di Pietroburgo che i sovietici avevano spedito a pulire le stalle in Siberia, per ora non ha intenzione di tornare nel suo Paese. E' tornato in Italia invece. Ha lasciato la Svezia dove si era rifugiato per lavorare (ama le temperature basse: «Sono infilato nel freddo come un'oca nello spiedo» dice un suo verso) ed è venuto qui su invito della Fondazione Cini per l'apertura della Mostra «Il Simbolismo russo» dedicata ai pittori di inizio secolo raccolti intorno al nome di Diaghilev. Lo ha accolto una Venezia oppressa dal caldo di fine agosto e da masse di turisti. Molto lontana dalla città grigia e invernale che egli ama, dove torna spesso a rifugiarsi, e che ha descritto in «Fondamenta degli incurabili». La città, come ricorda con gentile perfidia nel libro, dove approdò con pochi soldi per la prima volta molti anni fa, accolto da una nobildonna veneziana, russista e comunista, che lo portò in una pensione che puzzava di pipì. Venezia citta d'acqua come Pietroburgo per lenire il dolore della lontananza? No. Non mi sento in esilio, mi sento all'estero. Un dramma personale non dura venti anni. Almeno in questo, sono un buon ebreo. Dio ha disperso il mio popolo e lo ha condannato ad errare sulla Terra. Ed io continuo a vagabondare secondo il dettato divino. Gli esiliati veri sono i boat people, i gastarbeiter in Germania, i messicani che attraversano la frontiera americana per venire a cercare lavoro negli Stati Uniti. La lontananza dalle radici, dal mondo dove è nato, dalla sua lingua, non influisce in alcun modo, negativo o positivo, sulla sua creatività? No. La sempre maggiore difficoltà che provo a comporre la attribuisco piuttosto al passare del tempo. Continuo a scrivere poesia in russo e prosa in inglese da vent'anni perché sono uno che si affida alla forza di inerzia. E la forza di inerzia conduce più lontano di qualsiasi macchina. Come poeta non si sente legato al mondo che la circonda? Un poeta è un essere solitario. Posso sentirmi più straniero nella mia città, e trovarmi in una città straniera può essere invece salutare. Scrivere non è una cosa legata a come si vive, dove si sta. La connessione fra la realtà e il lavoro non è necessaria. La poesia non deve per forza dipendere dall'esperienza. Si può sopravvivere ai bombardamenti di Hiroshima e non scrivere un verso. Ma una notte passata a vegliare può far na.scere una bellissima lirica. Una settimana fa ero in Svezia e scrivevo una poesia su un danzatore spagnolo. Curioso soggetto. Sì. In un certo senso mi sento un poeta fine Ottocento o primo Novecento. Ogni poeta di quell'epoca aveva scritto una poesia intitolata «Danzatore spagnolo» accanto a «Ritratto di donna», «Farfalla». Dovevo farla. E ride. Tornerà in Russia, a Pietroburgo? Non lo so ancora. Molte ragioni mi trattengono. Prima di tutto vorrebbe dire rivedere la mia prima moglie. Poi non ci si può immergere due volte nella stessa acqua. Mi dà fastidio l'idea di essere accolto con onori e adulazioni. Sarei qualcuno che ha fatto i soldi in mezzo a gente che tira drammaticamente la cinghia. La povertà è una cosa difficile da guardare in faccia, in ogni luogo. Non riesco a sentirmi turista, scattare fotografie, in Messico per esempio. Andare in Russia per due-tre giorni o una settimana e poi riprendere l'aereo e tornare qui non avrebbe senso. Lei una volta, ai tempi della perestrojka, ha descritto Gorbaciov come un arric¬ chito che riempie il salotto di casa con i ritratti di famiglia. Lo considera ancora cosi? Ho incontrato per la prima volta Gorbaciov nel maggio scorso a Washington, alla Biblioteca del Congresso dove mi trovavo per i miei studi. Lui era lì per un incontro con esperti di scienza della politica, storici, giornalisti. La stanza era stracolma di gen¬ te. E' entrato, si è seduto e ha incominciato a rispondere alle domande dei presenti. E all'improvviso ho sentito fare irruzione nella stanza «il fato». Non una persona, ma soltanto due enormi piedi che avanzavano a grandi passi. Nessuno se ne accorgeva, né si rendeva conto con chi aveva a che fare. Gorbaciov era semplicemente uno strumento del fato. Il destino ha strumenti inconsapevoli per ogni cosa, anche per i rivolgimenti politici e Gorbaciov lo è stato. Dal suo aspetto non si direbbe, ma lo tradiscono i suoi occhi marroni, la cui intensità non si accorda con il resto del corpo. E' una curiosa incongruenza. Eltsin invece quali sentimenti le ispira? Non nutro nessun sentimento particolare nei riguardi di Eltsin. Io sono come i cani, reagisco alle facce, ai comportamenti delle persone. Ha la faccia di un bambino umiliato, è uno che non dimentica le offese, che si vendica. E' un buon politico? Probabilmente sì. Ma non credo che durerà molto. I leaders cambieranno spesso ora in Russia. Nessuno durerà molto. Abbiamo avuto capi inamovibili per troppi anni. Non voglio fare il profeta, potrei anche sbagliarmi, ma non credo che Eltsin resterà al potere più di due o tre anni ancora. A lui si avvicenderà presto qualcun altro, speriamo con sistemi costituzionali. E' una figura di transizione. No, non mi piace la sua faccia, mi ricorda quella di un membro della nomenklatura. E nella nomenklatura hanno tutti la faccia come il muro in una toilette. Nei decenni passati si dipingeva un popolo russo senza libertà, ma appassionato di poesia. Oggi in Russia si può stampare e leggere quel che si vuole ma intanto a Pietroburgo nasce una associazione in difesa della poesia: lamenta la scomparsa dell'editoria che pubblica versi. Il popolo russo non ama più la poesia? I lettori ci sono ancora. Il problema è finanziario. Prima si stampavano libri senza pensare al guadagno immediato della vendita. Oggi gli editori si preoccupano di stampare libri che siano subito redditizi. La poesia non rende ricchi. Un poeta oggi non ha di fronte a sé un brillante futuro economico, anche se è un conformista. In «Fondamenta degli incu¬ rabili» lei racconta di un suo impermeabile finito sulle spalle del miglior ballerino del mondo, chi è? Baryshnikov, naturalmente. E le anonime muse, le belle italiane che popolano il libro, possiamo identificarle? L'amante dagli «occhi senape e miele» per esempio? E' una romana, una splendida ragazza, una slavista specializzata in Pushkin, non posso dirle altro. E la nobildonna che la accoglie alla stazione? Be , quella lo sanno tutti chi è. Che cosa l'ha colpita di più delle cose che ha visto a San Giorgio alla mostra sui pittori di Diagilev? Lo straordinario spirito di eleganza che caratterizza tutta l'arte di quel periodo definito il «Secolo d'argento». Quei pittori, erano pronti a sacrificare ogni cosa in nome dell'eleganza formale, senza tuttavia tralasciare la profondità. Mi viene in mente un episodio. Uno scrittore minore di quel periodo, Jury Jurkun, morto in un lager alla fine degli Anni Trenta. Aveva una moglie, un'attrice, che aveva seguito la sua attività, conservato amorevolmente gli scritti, i disegni realizzati in tanti anni di lavoro. Finita la guerra, la donna torna a Leningrado e trova che tutto quel materiale, l'essenza della sua relazione affettiva con Jurkun, il sangue della loro vita coniugale, era stato bruciato dalla persona a cui lo aveva affidato. Lei allora scrive una lettera al marito nel lager, ignorando che è già morto, e gli annuncia: «Spero che tu sia ancora in vita, ma non credo che ci incontreremo più. Ho deciso di porre termine ai miei giorni, perché tutti i nostri disegni e scritti sono stati distrutti». La conservazione di un disegno, di un quadro, di un ricordo di quel mondo di cultura ed eleganza scomparso all'inizio degli Anni 20, è stata la missione di generazioni e generazioni di intellettuali russi. Molti amici che le erano vicini in passato non ci sono più. Gennady Smakov, emigrato come lei, al quale ha dedicato alcune poesie e che cita in «Fondamenta degli incurabili». Gianni Buttafava, che ha tradotto in italiano i suoi versi e ha contribuito a farla conoscere da noi. Che cosa prova di fronte a queste scomparse? Sono solo. Per molto tempo, dopo la morte di Buttafava non sono riuscito a tornare a Roma. E' come una conversazione interrotta. Con la scomparsa di Gianni non ho più un traduttore italiano. E' come restare senza una parte di se stessi. Lei è cittadino americano e andrà a votare, presumo, vuole dire per chi? Non me la sento di votare per Bush. Clinton mi è antipatico. Se Ross Perot non esce del tutto di scena, mi sembra un valido candidato. Sergio Trombetta Sono ebreo e Dio ha condannato il mio popolo a errare sulla Terra Mi dà fastidio l'idea di essere accolto con onori e adulazioni Sarei spettatore di altrui miseria olitudine, creazione vent'anni in Russia Lo scrittore russo Iosif Brodskij: esiliato, ha preso la cittadinanza americana. A sinistra: Brodskij con un amico a Norinskaja Gorbaciov e Eltsin. Dice il poeta: «Vedremo ancora mutamenti» Lo scrittore russo Iosif Brodskij: esiliato, ha preso la cittadinanza americana. A sinistra: Brodskij con un amico a Norinskaja Gorbaciov e Eltsin. Dice il poeta: «Vedremo ancora mutamenti»