GREGOTTI whisky donne e Le Corbusier

GREGOTTI whisky donne e Le Corbusier la memoria. L'architetto racconta la grande avventura del '52: studente in missione a Londra GREGOTTI whisky donne e Le Corbusier tbtI ELL'ESTATE del 1952 [* stavo per laurearmi in a architettura a Milano; 1 lavoravo già in studio s ! l)pon Ernesto Rogers che mi aveva chiesto di organizzare la partecipazione italiana a un seminario del C.I.A.M. (Comité International de l'Architecturé Moderne) nei dintorni di Londra. Soddisfatto per il mio lavoro, l'architetto Rogers decise di mandare anche me in Inghilterra». Siamo nella sala conferenze dello studio Gregotti: luogo perfettamente asettico, muri bianchi, un grande tavolo quadrato bianco, sul quale sono appoggiate risme di carta bianca; Unico tratto di colore un pennarello Pentel rosso di forma un po' desueta. Gregotti indossa un vestito di lino bianco, con scarpe marroni, con molte probabilità di marca inglese. Bussano leggermente alla porta: una segretaria sorridente e quasi invisibile posa sul tavolo un vassoio con un bricco bianco, una tazza bianca e una zuccheriera bianca. E' il caffè. E Vittorio Gregotti racconta. Ricordo che partii in treno con l'architetto Franco Albini cori cui»poi divisi la stanza. Io avevo 24 anni, Albini una cinquantina, era un bellissimo uomo, elegante, gli piacevano le donne e le corteggiava quasi tutte, riurante il lungo e disagevole viaggio in treno ricordo che interrogavo Albini sulle donne b lui mi disse che una delle cose fondamentali per piacere alle donne era di essere sinceramente interessati. Per lui erano un'autentica passione. Con Albini vi fu subito solidarietà anche perché entrambi parlavamo male l'inglese. Quell'agosto del 1952 in Inghilterra è stato molto importante per il mio futuro. A quel seminario partecipavano tra gli altri Walter Gropius e Le Corbusier. Nel refettorio, c'erano dei tavoli dove si mangiava in sette o otto e chi sedeva a capotavola serviva gli altri. Fu una strana impressione per un ragazzo di 24 anni farsi servire a tavola da Gropius, un mito vivente, l'ex marito di Alma Malher. Le Corbusier, che poi rividi in altre circostanze quando cominciai a lavorare per la rivista Casabella, non era un uomo simpatico. Era molto svizzero, meticoloso e quando parlava non parlava all'interlocutore che aveva davanti ma al mondo. Era un piccolo borghese, un geniale orologiaio. Walter Gropius era diverso, un tedesco elegante, un po' come Thomas Mann. Fumava il sigaro, era un grande borghese». A quel seminario partecipò anche Alexander Calder: «L'ho conosciuto molto bene, diventammo amici e io andai a trovarlo negli Stati Uniti. Diventai anche amico di Joseph Ryckwert, che divenne poi un importante storico dell'architettura. Insomma era un grande privilegio, quasi un sogno per me, da poco uscito dalla guerra, essere ammesso in quel cenacolo ristretto, in quel gruppo esclusivo e sofisticato che rappresentava la grande architettura europea che tra le due guerre aveva inventato la modernità e cambiato le regole dell'architettura. Mi sembrava di entrare a far parte della storia». Ma cosa sognava? «Sognavo di diventare un grande architetto». Vittorio Gregotti, con occhi vivacissimi, sorridenti, parla con gusto di quell'estate in Inghilterra. Lo studio Gregotti è assai spettacolare. Un'antica fabbrica di mattoni a pochi passi da San Vittore. Gregotti ha riconvertito uno spazio molto ampio, che era il deposito dei mattoni, in uno studiolaboratorio su due piani dove lavora una settantina di persone di Paesi diversi. A lui è associato anche l'architetto Pierluigi Cerri che si occupa soprattutto di grafica. Il lavoro è un po' in tutta Europa, Spagna, Portogallo, Francia, Germania. Fu proprio a Londra nel '52 che Gregotti dice di aver capito la sua vocazione europea. «Mi sentivo europeo. L'America, che ho conosciuto nel 1958, mi ha sempre affascinato ma non potrei viverci o lavorarci. Certo non è facilissimo lavorare in Italia, le difficoltà sono molte. A Milano abbiamo vissuto un periodo di sviluppo e di grande energia negli Anni Sessanta ma adesso tutto è calato. Si è come bloccata la capacità di pensare al proprio futuro. Noi, rispetto ad altri Paesi europei, stiamo fermi. In Italia ci sono pochissimi concorsi». Com'era lei nel 1952? «Ero una vera spugna, non avevo ancora strategie. Guardavo Le Corbusier rovesciare tutto un concetto con un breve schizzo. Io avevo il mito dell'avanguardia tra le due guerre e Gropius mi faceva sognare. Ero arrivato all'architettura passando prima attraverso la musica. La nostra è una famiglia di industriali tessili, io ho trascorso i primi anni della mia vita a Novara. E' importante il fatto che sia cresciuto in una fabbrica, ero abituato al lavoro di gruppo. Presto mi accorsi di voler realizzare un'attività creativa, di gruppo. Avrei potuto diventare anche un regista. Ero un bravo studente liceale ma la facoltà di architettura fu invece per me una grande delusione, al disotto delle mie aspettative. I professori mi sembravano di scarsa qualità». I suoi amici architetti sono Gae Aulenti e Aldo Rossi? «Ero compagno di scuola di Gae, solo più tardi abbiamo la- vorato insieme. Aldo Rossi invece è stato un mio studente e anche se non abbiamo sempre le stesse idee ho molto affetto e stima per lui. Allora però nel '52 ero l'unico giovane a partecipare a un convegno internazionale. Il nostro gruppo di architetti milanesi si costituì più tardi attorno alla rivista Casabella». Fu per lei una grande impressione andare in quegli anni in un Paese straniero? «Ero già stato a Parigi per otto mesi nel primo dopoguerra. Ero un provinciale che usciva dalla guerra e naturalmente vedere Jean-Paul Sartre al Café Flore, o le donne portare i pantaloni, o una certa libertà di costumi, mi affascinò moltissimo. Per non parlare dell'effetto che provocò su di me la bellezza di Parigi. Durante il convegno in Inghilterra ricordo che corteggiai la figlia di un architetto inglese, eravamo un po' timidi, non si parlava a quell'epoca di fare l'amore. Passeggiavamo nel parco, parlavamo molto. Le donne inglesi erano più libere, non dicevano "scusa devo andarmi a lavare le mani", dicevano "scusa devo andare a fare pipì", però per i costumi amorosi la Francia mi era parsa più libera dell'Inghilterra. A Londra andavo nei pubs, bevevo molta birra. Mi costò una certa fatica ma finii per abituarmi ad amare la birra scura, tiepida. In Italia non si vedevano per strada borghesi con la cravatta ubriachi. Gli italiani bevevano un po' di vino ai pasti, ma nessuno beveva whisky. Io conoscevo solo mio nonno, che era stato ingegnere in Africa, che beveva il whisky. Invece a Londra si vedevano ubriachi camminare per strada e la cosa mi stupiva moltissimo. Nei pubs e nella Londra laborista di quell'estate, avevo l'impressione che le classi sociali cercassero di annullarsi». Continua: «Si sentiva in quegli anni, di dopoguerra, una grande volontà di ricostruzione, di organizzare le cose altrimenti; vi era una forte energia, che invece oggi è svanita. Il cibo inglese mi piacque subito moltissimo, io non viaggio alla ricerca di spaghetti. Mi piacciono la carne, le patate, insomma i cibi fondamentali. A Londra, ancora oggi, prediligo i ristoranti inglesi agli ottimi indiani o cinesi. Fin da quell'anno vado quasi ogni estate in agosto a Londra, mi piace l'atmosfera e lì scrivo in tranquillità. Sono un uomo di città. L'unico momento di mare per me, è quando sto a Venezia, dove insegno progettazione architettonica all'università. Marina, la mia terza moglie, è veneziana e quindi andiamo lì almeno tre giorni la settimana. I nostri bagni li facciamo nella piscina dell'hotel Cipriani alla Giudecca». Gregotti parla volentieri, è una persona gioviale, sorridente. Durante la conversazione tiene in mano il pennarello rosso e disegna su fogli bianchi, appoggiati su un tavolo, dei rettangoli, delle frecce e poi delle figure arrotondate, simili a dei serpenti. Risponde una sola volta al telefono, con tono gentile. Lei dipinge? «No. Scrivo. Se ho un vizio è quello di essere un po' troppo intellettuale. Ho sempre avuto un grande interesse per l'avan¬ guardia e la modernità. Del resto, fu questo gusto a farmi aderire al Gruppo 63. Ho sempre pensato che scrivere, frequentare artisti, insegnare, facesse parte del fare architettura. Quello che voglio è appunto fare architettura». Ha dei rimpianti, è molto cambiato dal '52? Gregotti fa tremare la gamba, capisco che in fondo è nervoso. «Sì, sono cambiato, sono invecchiato ma in un modo che mi sembra giusto per me. Ho realizzato molte cose che vole vo realizzare, non posso la mentarmi. E' vero che sono sempre stato ansioso però ho acquisito con gli anni molta pazienza». Dalla gamba che si muove sotto il tavolo non si direbbe. «I progetti architettonici durano a lungo, sette o otto anni! Uno si distacca ed è lì che invece ci vuole molta pazienza e molta testardaggine». Cosa si è portato appresso dalla sua prima esperienza in glese? «Quando tornai mi laureai. La mia tesi era su Porta Tirine se a Milano, una delle prime ri costruzioni. L'esperienza in glese era stata utile». Gregotti si alza. «Le ho detto tante cose, le ho fatto quasi una confessione». E il piano regolatore di Tori no? «E' stato una grande esperienza. Adesso stiamo prepa rando in studio un altro progetto per un concorso, costrui re una città per 150 mila abi tanti sul Mar Nero». Vittorio Gregotti chiede ! una segretaria di darmi un suo libro, Dentro l'architettura pubblicato da Boringhieri. Poi mi accompagna al taxi, guarda i muri delle carceri di San Vittore davanti a noi: «Sono grossi guai!». Alain Elkann Le notti nei pub a bere birra scura e le ragazze da corteggiare In quell'agosto inglese io ero un ragazzo fra i miti viventi dell'architettura. E il grande Gropius mi serviva a tavola. GREGOTTI whisky donne e Le Corbusier Gregotti con Tomas Maldonado e Ettore Sottsass. A destra: Jean-Paul Sartre: «Mi-colpiva incontrarlo al Café Flore». Nella foto in alto: Le Corbusier