Rivarol, genio reazionario

Rivarol, genio reazionario Dopo duecento anni, si riscopre il grande nemico della Rivoluzione francese. E i suoi aforismi ci fanno riflettere * Rivarol, genio reazionario «Andranno a Messa con Bonaparte» vi N un recente corsivo su IÌTuttolibri Ernesto FerI rero collegava anche il I ritorno di Rivarol alla -Mi voga editoriale delle raccolte di massime, aforismi e meno nobili battute che una leva di lettori frettolosi e ridanciani ha suscitato da qualche anno e promette di sostenere ancora a lungo. Rivarol sapeva conciliare profondità e frivolezza, ingegno e malizia, cultura e ironia; è un personaggio che, come qualcuno ha felicemente detto, ha coniato alcune decine di proverbi per uomini superiori. Certo, è possibile ed è pure auspicabile che questo campione della conversazione salottiera si giovi della breccia che hanno aperto in libreria i Giobbe burleschi, le formiche incollerite e gli sciocchezzai gemelli degli scolari campani e dei parlamentari d'ogni regione. Tanto più che, a suo modo, Rivarol è stato un precursore di quel pensiero-spettacolo che oggi domina incontrastato e, pur disponendo di platee infinitamente più esigue di quelle che garantisce la tv, ha preferito cimentarsi nell'invenzione estemporanea piuttosto che nella scrittura, lasciando spesso ad altri la cura di raccogliere e tramandare le perle della sua conversazione e dimenticando in un sacchetto che portava sempre con sé i pensieri e le battute che concepiva in solitudine e che si riprometteva in seguito di limare. Solo che era pigro e incontentabile, maneggiava la lingua francese come nessun altro (è autore di un celebre Discorso sull'universalità della lingua francese e di una traduzione dell'In/erno dantesco) ed era convinto che nella concisione si trovasse il culmine della perfezione. Per questo, anziché rimettere le mani in quel sacchetto, preferiva ironizzare sulla propria indolenza - «E' un gran vantaggio non aver fatto niente, ma non bisogna abu sarne» - o prendersela con la penna, «triste levatrice della mente, con quel suo lungo becco stridulo e affilato». Ma Rivarol non è soltanto un inventore di penetranti aforismi e un dissipatore dei tesori della propria intelligenza: è uno dei più brillanti e dei più coerenti pensatori della reazione e non è improbabile che il motivo di questa sua nuova resurrezione vada cercato proprio nel suo disincantato e irriducibile conservatorismo. Salito a Parigi dalla natia Linguadoca nel 1777 con una modesta rendita da abate e con un titolo nobiliare probabilmente abusivo, non aveva tardato a mettersi in luce per la cultura e lo spirito mordace. Nel breve periodo che gli era servito per imporsi come beniamino dei salotti aristocratici si era trasformato da linguista in politico - raro caso di «grammatico impegnato», dirà Jean Dutourd - e alla vigilia e allo scoppio della Rivoluzione aveva abbracciato il partito della monarchia e della reazione senza esitazioni e cautele. E anche senza illusioni. Credeva nelle idee, non negli uomini, trovava che quelli di destra erano gauches e quelli di sinistra poco droits, sapeva che i primi non avrebbero potuto evitare la sconfitta né i secondi fare buon uso della vittoria, ma stava dalla parte di un re che non gli piaceva («Un re cacciatore va bene solo per dei popoli nomadi») e di quei nobili che, magari scambiando «i loro ricordi per dei diritti», incarna¬ vano il vecchio regime. Aveva orrore di ogni cambiamento, giudicava la Dichiarazione dei diritti dell'uomo una «criminale prefazione a un libro impossibile» e pensava che la plebe, corpo sociale «guidato da istinti cannibaleschi e antropofaghi», fosse l'esatto contrario di ciò che deve costituire il «corpo politico» dello Stato. A questo oltranzismo univa però una stupefacente chiaroveggenza politica: nel Novanta, aveva già saputo sintetizzare in una formula lapidaria - «0 il re avrà un esercito o l'esercito avrà un re» - il nodo finale della Rivoluzione e al primo apparire di questo «re» ne aveva profetizzato la parabola fino a Waterloo: «Sarebbe divertente vedere un giorno i filosofi e gli apostati seguire a Messa Bonaparte, digrignando i denti, e i repubblicani inchinarglisi davanti. Proprio loro che avevano giurato di uccidere il primo che si fosse impadronito del potere! Sarebbe divertente che Bonaparte istituisse delle onorificenze e ne decorasse i re; che creasse dei principi e s'imparentasse con qualche antica dinastia... Guai a lui, però, se non restasse sempre vincitore!». Anche fuori dalla prediletta politica («La politica è tutto», amava dire) le sue facoltà divinatrici lasciano stupefatti: le imprese dei fratelli Montgol fier gli fanno intravedere le possibilità dell'astronautica e le «teste parlanti» di un certo abbé Mical quelle della registrazione dei suoni; gli basta leggere un abbozzo del Genio del Cristianesimo per preconizzare la grandezza di Chateaubriand; e su un tema arduo e inafferrabile come quello del tempo scrive delle parole che molti fisici e filosofi nostri contemporanei non esiterebbero a sottoscrivere: «Il grande errore degli uomini sta nel credere che il tempo passa. Il tempo è la riva che sembra muoversi mentre noi gli scorriamo dinanzi». Anziché oscurargli la vista con i fumi dell'odio, della rabbia o della paura la sua disincantata scelta del campo dei perdenti l'ha preservato dall'accecamento dell'euforia. Forse non è stato il Tacito della Rivoluzione, come si è compiaciuta di definirlo la storiografia di destra, ma ne è stato certo l'inascoltata Cassandra. Fino ad ora ogni suo ritorno è stato propiziato o da spiriti indipendenti come Rémy de Gourmont e Paul Léautaud che si sono lasciati conquistare dal pensatore controcorrente o da scrittori come Barbey d'Aurevilly e il già citato Dutourd che ne hanno voluto esaltare il fondamentale conservatorismo. Ernst Jùnger, che ha premesso un denso e calibrato studio introduttivo a una sua esemplare scelta di massime rivaroliane e l'editore italiano che, nel tradurre l'uno e l'altra, si è premurato di evidenziare questo connotato politico già nel titolo (Ernst Jùnger Massime di un conservatore, ed. Guanda) sembrano collocarsi in questa seconda schiera. E a buon diritto, perché tra moralismo e conservatorismo s'intrecciano dei legami profondi che a Rivarol naturalmente non erano sfuggiti. «Il genio, in politica, consiste non nel creare, ma nel conservare; non nel cambiare, ma nél'fissare e consiste infine nel supplire alle verità con delle massime», sosteneva. Giovanni Sogliole Seppe prevedere tutta la parabola W di Napoleone fino a Waterloo — — ***** W La testa di Luigi XVI Accanto: Rivarol. A sinistra: «Robespierre ghigliottina il boia dopo i francesi» La testa di Luigi XVI Accanto: Rivarol. A sinistra: «Robespierre ghigliottina il boia dopo i francesi»

Luoghi citati: Linguadoca, Parigi