MENNEA 200 e lode

MENNEA 200 e lode la memoria. La sfida segreta del campione : record, medaglie e due lauree MENNEA 200 e lode DAL NOSTRO INVIATO «Di me hanno detto tante cose, che sono antipatico, che sono presuntuoso, che ho un carattere difficile. Hanno scritto molto, hanno parlato molto, ma non hanno mai cercato di capire. La mia immagine non sono io: meno del trenta per cento di quello che la gente pensa di me è vero». Ha compiuto da poco i quarant'anni, Pietro Mennea, ma continua a correre controcorrente come neigiorni dei record. E' sempre diffidente, prima di lasciarsi andare alla memoria prende tempo, chiede conferme. «Non voglio parlare di sport - ripete nel suo studio di fiscalista nel verde della periferia romana, con l'afa che spegne il traffico caotico della Cassia -. Quella è una pagina che ho chiuso per sempre. Ora penso al lavoro, ai libri, alla vita». Insiste, il dottor Pietro Paolo Mennea, laureato in Legge e in Scienze politiche, graduate student ai master della Bocconi e della Luiss, le università private più prestigiose d'Italia. Ma «dentro» il ragazzo di Barletta non è cambiato: non può cambiare, un uomo come Mennea, anche se per parlare con lui non basta più andare al campo di atletica, ma bisogna superare il filtro delle segretarie. Chi è stato corridore resta corridore per sempre: il silenzio opprimente che precede lo sparo dello starter, il cervello che si svuota, concentrato solo sul ritmo dei piedi che rimbalzano sulla pista, gli occhi fissi sul traguardo che si avvicina, i pensieri che tornano a poco a poco, insieme alla consapevolezza che presto ci sarà un'altra gara e che tutto ricomincerà da capo. Non può riposare, il velocista: ha sempre qualche nuovo traguardo da raggiungere. «No, non sono cambiato», sorride Mennea. Dietro di lui, in mezzo ai codici tributari e alle enciclopedie giuridiche, brilla una fotografia dell'Olimpiade di Los Angeles. Il fisico si è fatto più pesante, i capelli sono più corti, quasi a spazzola, ma gli occhi e la voce sono quelli di allora, rapidi e sfuggenti: «L'atletica mi ha insegnato tutto - dice -. In pista ho imparato ad affrontare la vita, a essere meno impreparato. Perdere mi ha sempre dato fastidio, ma adesso è tutto più difficile. Allora c'erano otto corsie e ognuno andava per sé, contando solo sulle proprie forze. Ora è diverso, dipende tutto dagli altri: le tue capacità servono in modo relativo. Ma il mio modo di vivere è sempre quello: stesso impegno, stessa serietà, stessa dedizione. Non sono mai stato un fenomeno, come questi neri che sembrano volare o come i bambini prodigio che imparano tutto senza fatica. Ma io sapevo che dovevo fare quello che mi dicevano, che dovevo capire le cose che non capivo». Il tempo di un atleta è scandito dalle stagioni. L'autunno per i bilanci, l'inverno per la preparazione, la primavera per i progetti, l'estate per raccoghere i frutti. E sono tante le estati importanti di Pietro Mennea: quella del 1979 era quasi finita, e arrivò il record del mondo a Città del Messico; quella del 1980 era appena entrata nel vivo, e venne la medaglia d'oro di Mosca. Ogni estate ha i suoi momenti della verità e i suoi segreti: e se qualcuno nasconde le speranze o gU amori, Mennea nascondeva libri e dispense. «Il 10 luglio del 1980, diciannove giorni prima di partire per rOlimpiade, presi la mia prima laurea, in Scienze politiche. GU esami li avevo finiti a Natale, qualche mese dopo il Messico. Dovevo farcela prima dei Giochi, in Russia la mia mente doveva essere libera». L'avventura di quell'estate finì con una medaglia d'oro, una di bronzo nella staffetta e un 110 e lode alla prima sessione del quarto anno di corso. Un bel record, ma non poteva bastare: era soltanto la prima tappa di una storia infinita fatta di dirigenti egoisti, allenatori burberi, mezze bugie raccontate a chi non voleva credere che l'uomo più veloce del mondo potesse avere in testa qualcosa di diverso dalla gloria di una medaglia. «Nel 1975 mi ero diplomato all'Isef - ricorda Mennea -. Subito dopo la maturità da ragioniere, mi ero iscritto a Scienze poetiche. Ma ero giovane, e gli esami mi portavano via molto tempo. Erano gli anni delle prime sfide a Borzov, il russo che non sbagliava mai una gara. Le Olimpiadi di Monaco erano vicine, e così gli uomini della Federazione mi spinsero verso qualcosa di meno impegnativo. Scelsi l'Educazione fìsica perché per un atleta era quasi un dovere: ma alla fine non ero soddisfatto, anche se mi diedero 110 e lode. Così tornai a Scienze politiche, studiavo di nascosto, di sera, perché Vittori non se ne accorgesse. Mi ero iscritto a Bari senza dire niente a nessuno, così potevo dare gli esami raccontando a tutti che andavo a trovare i miei a Barletta». Carlo Vittori era l'allenatore degli azzurri. Un ascolano brusco ma pieno di carisma, il maestro di una generazione di velocisti italiani, e in tutti ha lasciato qualcosa di importante: l'idea che il lavoro paga, e che quando si ha un obiettivo da raggiungere vale sempre la pena di provarci. «Vittori non voleva che studiassi tanto - racconta Mennea -. E dal suo punto di vista era giusto così. Il tecnico è un educatore che deve tirare fuori tutto quello che hai, il suo lavoro è metterti nella condizione di dare il massimo. Non possono esserci mezze misure: o dai tutto, oppure non ottieni niente. E' la legge dell'atletica. La carriera dura poco, poi c'è il tempo per studiare, per fare il genitore, per fare l'amico. Vittori aveva ragione, ma io pensavo che non sarebbe stato giusto partire da zero, dopo». Viene da sorridere pensando a Mennea - il primatista del mondo, lo sportivo con la fama di scorbutico e, sì, anche un po' ignorante - che si fa largo tra gli studenti «normali», si siede davanti alla commissione, presenta il libretto, risponde alle domande. La faccia dei docenti doveva essere da candid camera. «In effetti erano un po' stupii h li ti», scherza lui. «Qualcuno dice che mi hanno aiutato perché ero Mennea, ma io dico che qualche volta mi hanno pure bocciato. Ricordo l'esame con il professor Volpe: Diritto costituzionale italiano e comparato, uno dei tanti, neppure il più difficile. Mi siedo e quello mi dice: per lei ho una domanda che non faccio da sette anni. Qualcosa sulla Repubblica di Weimar, mi pare. Dopo cinque minuti mi ha mandato via. Aveva ragione? Sì, diciamo che preferisco pensare che avesse ragione lui...». Forse aveva torto, il professor Volpe, o forse no. Probabilmente non se n'è mai reso conto, ma quel giorno è diventato uno dei pochi uomini in grado di rallentare la corsa di Mennea. «Ma non mi ha fermato. Mi sono laureato, poi mi sono iscritto a Giurisprudenza. Dopo l'Olimpiade di Seul, la quinta della mia carriera, ho discusso la tesi a Bari. Ormai non ero più un atleta, e me ne sono andato a Milano, alla Bocconi. Volevo diventare commercialista e lì c'era un corso che faceva al caso mio. Le lezioni erano dalle 18 alle 20, e io non sapevo cosa fare il resto della giornata. Così mi sono iscritto ai corsi di area, cose difficiUssime, da specialisti. Ricordo un iri i seminario sui titob esteri dove c'erano solo i direttori delle filiali della Banca d'Italia. C'erano loro e c'era Mennea. Stavo lì dalle 9 di mattina alle 8 e mezzo di sera. I docenti dicevano: ma cosa vuole questo? Non ce la farà mai. Io invece in sei mesi ho fatto un master dove gli altri ce ne mettono diciotto». Mennea parla rapido: «Hanno detto tante falsità, hanno scritto che vivevo solo per l'atletica, che non potevo concepire una vita fuori dalla pista. E io invece ho sempre pensato ad altro: ero nel pieno della carriera e andavo ad insegnare ginnastica in un istituto tecnico. Era il 1977. E' finita perché ho litigato con il preside: a Torino c'era un incontro Italia-Stati Uniti, tutti i migliori erano là, e io dovevo vincere. Volevo arrivare un giorno prima, per prepararmi meglio, ma era estate e c'erano gli scrutini. Gli chiesi se poteva anticipare la riunione della mia classe. Era soltanto una cortesia, ma lui me la fece pesare. Allora gli dissi di no, che non mi importava più, che quello che comandava era lui. Uno come me che chiede un piacere a un preside... Partii per Torino un giorno più tardi, ma dopo non ho più insegnato». Non ha rimpianti, il campione scomodo, neppure per gli aspetti più spigolosi di un carattere fuori dairordinario. «Io sono solo uno che va per la sua strada. Il mio mondo è dove vado io. Quando correvo non mi hanno mai visto com'ero veramente. Oggi i miei clienti del Nord mi riconoscono dalla voce al telefono. "Ma lei è proprio quel Mennea?", chiedono. E quando li incontro di persona mi sento dire: "La credevo più piccolo". E io sono alto un metro e 80: neppure nel fisico mi hanno descritto bene, e quello era sotto gli occhi di tutti. Figuriamoci nel carattere, che ho sempre nascosto. Io non ero un atleta facile da gestire, io pensavo, io ragionavo, io non dicevo sempre di sì, non ero come gli altri. Se non andavo alla Domenica Sportiva perché la mattina dopo dovevo studiare avevo un cattivo carattere. Se oggi non vado al programma di Frajese a rac- contare per la millesima volta il mio record del mondo o la mia vittoria all'Olimpiade ho un cattivo carattere. Nessuno ha capito che io correvo per dimostrare che valevo qualcosa, non per andarlo a raccontare in giro. Hanno detto che nell'88 ho ripreso a gareggiare perché le mie attività erano fallite. Lo hanno detto a me, che per mestiere cerco di sanare le aziende degli altri. Se avessi fatto come tutti, se fossi andato in tv dopo ogni invito, se avessi accettato tutto, allora avrei avuto un buon carattere...». Mennea scuote la testa. E' arrabbiato, come quando si mormorava che fosse finito dopo l'eliminazione sui 100 metri ai Giochi di Mosca, e lui replicò appena cinque giorni dopo con la medaglia d'oro dei 200. «Vuole la verità? La gente ha dei limiti, è invidiosa, tende a isolare chi si impegna. Una volta il mio idolo era Tommie Smith, il vecchio primatista mondiale dei 200, quello che ho battuto io. Adesso ho altri modelli: gente come il giudice Di Pietro, gente che lavora bene, che si impegna, che va per conto suo. Nel lavoro non puoi essere il numero uno. Non nel mio, almeno. Il cliritto è vasto, però puoi imparare. Ci sono tanti allenatori, tanti Vittori da cui posso imparare. Devo imparare il più possibile, devo fare molte cose: ho la professione da seguire, sto preparando gli esami da procuratore, l'insegnamento». Da qualche anno, l'uomo più veloce del mondo è diventato professore. «Finita la Bocconi racconta -, ho frequentato un master tributario alla Luiss. Poi mi hanno chiamato per tenere un corso di Matematica Finanziaria. GU studenti non riuscivano a crederci: Mennea che parlava di numeri... C'era anche il figUo di De Mita. Adesso ho una cattedra all'Isef di Cagliari. No, non Atletica: Istituzioni di diritto pubblico. E studio. Studio di notte. Studio la mattina presto. Studio mentre mangio. Studio sempre». Si alza, Mennea, e tira fuori un libretto universitario. «Ecco, mi sono iscritto a Lettere - dice -. Ho già dato otto esami. Mi piace la storia antica, mi affascina. Ricordo una scena di tanti anni fa: mi avevano invitato in televisione con Antonio Spinosa, lo storico. Lui aveva appena pubblicato una biografìa di Cesare e aveva cominciato a parlarne. Io sono intervenuto, ho detto la mia. E lui era stupito, non riusciva a capire che Mennea potesse sapere di Cesare. Io sono nato a dieci chilometri da Canne, dove Annibale sconfisse i romani, ci andavo in gita da piccolo. Ma la storia antica l'ho scoperta a New York, in una di queste librerie enormi che hanno solo gU americani. Ci ho trovato Platone, Seneca, Plutarco, Tucidide. Se in un mondo così moderno e così ricco come l'America si leggono ancora gU antichi vuol dire che questi non moriranno mai, che avranno sempre qualcosa da dirci. Tiberio, ad esempio, aveva capito che l'Impero romano non poteva più espandersi. Oggi i poUtici non capiscono mai quando devono fermarsi. Vanno avanti a testa bassa, fino al disastro». E Mennea? «Mennea non è un politico, non sa mentire. E non si ferma. Non può. Ha ancora troppe cose da fare». Guido Ti berga Pietro Mennea con le medaglie d'argento e d'oro vinte nel "74 agli «Europei» di Roma Nella foto sopra: l'atleta con l'allenatore Carlo Vittori A sinistra: Pietro Mennea nei duecento metri delle Olimpiadi di Los Angeles nel 1984 L'ex primatista Smith. A sinistra: Mennea e Borzov Studiavo di nascosto, la sera perché nessuno lo sapesse. Dicono che sono presuntuoso ma non mi hanno mai capito :>;::*;:i;::-;;^