Leni 90 anni con rabbia

Leni, 90 anni con rabbia La Riefenstahl si confessa e accusa: troppi vigliacchi in giro Leni, 90 anni con rabbia «Amavo il cinema, non Hitler» MONACO DAL NOSTRO INVIATO Adesso che a novant'anni torna a «guardare indietro». Leni Riefenstahl sceglie di attaccare. Il ritorno al «suo» passato, per lei che fu la regista prediletta da Adolf Hitler e firmò documentari esaltati o detestati ma simbolo dei tempi, è soprattutto una provocazione: «La maggior parte dei tedeschi, dopo la guerra, si sono scoperti all'improvviso combattenti per la libertà. Ci sono moltissimi vigliacchi che hanno pensato soltanto a far carriera. Io l'ho sempre detto, di aver creduto a Hitler. Gente del partito ha avuto posti importanti, più tardi. Io non ho avuto niente». Eppure, lei è diventata una leggenda. Forse perché il suo legame con il Fuhrer e il Terzo Reich è sempre stato «al limite» e la Riefenstahl non ha mai davvero «passato la barriera», come invece assicurano i nemici. O perché la sua macchina da presa ha mostrato la prima sconfitta pubblica di Hitler, esaltando la plasticità di Jesse Owens e della razza nera: Olympia, il documentario sui Giochi di Berlino del 1936, smentisce la superiorità dei muscoli ariani e mostra il Fuhrer che se ne va «per non stringere la mano a un negro». Leni Riefenstahl, oggi, è una donna minuta ma di vigore estremo che nega la vecchiaia quasi con dispetto, negli abiti vistosi e nella capigliatura esageratamente bionda. Abita una casa difficile a trovarsi, nei boschi poco a Sud di Monaco: con i trofei di allora, fra i segni della sua vita «prima», ma senza dar l'impressione di soccombere ai fasti della giovinezza, ai ricordi; Nell'interrato che è anche archivio, luogo di memoria e di lavoro, ci sono le pellicole che interpretò da attrice e quelle che diresse da regista, Olympia e II trionfo della volontà, il film sul congresso nazista del 1934. Ci sono le locandine originali di Blatte Licht del '32, con lei bellissima e aggressiva, un viso folgorante che affascinò Hitler e lo convinse ad affidarle l'apoteosi del partito a Norimberga, due anni dopo; ci sono le fotografie dell'esordio in palcoscenico nel 1923, ballerina solista in Traumbluete di Max Reinhardt e quelle fra i ghiacci per S.O.SEisberg con Knud Rasmussen e il regista Arnold Fanck che guidò la spedizione in Groenlandia. Ci sono i giornali che parlano di lei, decine di raccoglitori in ogni lingua. Ma soprattutto c'è l'impronta della sua vita adesso, migliaia di fotografie africane e subacquee scattate negli ultimi dieci anni e raccolte in volumi di successo: quelle fra i nuba e le più recenti, frutto delle immersioni alle Maldive, a 89 anni. Sta per tornare nell'Oceano Indiano per immergersi di nuovo, per fare altre foto, per «avere una conferma». E pensa già al libro che le raccoglierà, alle mostre, al lavoro che l'aspetta qui dove sarà lei a sviluppare, scegliere, ordinare. «Leni Riefenstahl è questo ormai», dice sfogliando i volumi più recenti: e a domandarle perché è toccato a lei quel ruolo di «regista del regime» che l'ha segnata, risponde che «adesso conosciamo la fine della storia» e «possiamo giudicare senza fatica». Racconta che non fu il partito a chiamarla. Fu Hitler di persona a chiederle un documentario, già per il congresso del 1933: «Allora, però, l'opposizione di Gòbbels e di quanti nel partito mi consideravano un'estranea mi bloccò. C'erano registi che avevano lottato per anni insieme al Fuhrer prima che lui arrivasse al potere. Era un disonore per loro, che all'improvviso "Lui" scegliesse un'attrice neppure iscritta all'organizzazione femminile del partito. Mi riuscì soltanto un brevissimo filmato: non ero preparata, avevo solo due operatori, i quadri del partito mi fecero moltissime difficoltà». L'anno dopo «ci provò Walter Ruttmann, ma voleva fare soprattutto un film sulla storia del nazionalsocialismo», e non riuscì a raccogliere sufficiente materiale: «A metà agosto, al mio ritorno dalla Spagna, una lettera di Hess mi ricordò che toccava a me, che il Fuhrer voleva me e soltanto me. Parlai con Hitler, gli ricordai le difficoltà dell'anno prima: lui mi chiese di regalargli sei giorni appena». Nacque così l'impegno che, a 32 anni, avrebbe cambiato-per sempre l'esistenza di un'attrice già affermata ma senza esperienze di regia: «Tutto il bene e tutto il male» cominciano con queste concessioni che molti hanno considerato un tradimento, un'onta incancellabile. Da allora, nel dopoguerra, Leni Riefenstahl ha vinto una cinquantina di processi: contro chi ha sostenuto la sua complicità con il nazismo e con Hitler, chi l'ha accusata di essere stata la sua amante o di aver assistito alla fucilazione di prigionieri ebrei in Polonia, di aver utilizzato per un film decine di zingari rinchiusi in un campo di concentramento a Salisburgo. Da allora, si rimprovera di «non essere stata fra quel 2 per cento dei tedeschi che erano nella resistenza» e di «aver distrutto la mia vita per questo». Da allora spiega la «sua» verità, che cosa furono per lei il nazismo, il partito, il Fuhrer. Sfogliando le raccolte delle foto che la mostrano impegnata alle riprese, racconta di quando Gòbbels, che «di fronte a Hitler era come un bambino delle elementari», la minacciò dopo un confronto con il Fuhrer: «Se non fosse una donna la butterei giù dalle scale - mi urlò - perché mi ha messo in difficoltà con lui, di fronte alla mia gente». Racconta di quando, nel '54, incontrò De Sica a Roma, e con Zavattini pensò a un film, I diavoli rossi, che non si fece mai «perché tutto saltò all'ultimo per le proteste che la mia presenza aveva sollevato fra i coproduttori austriaci». Si esalta per «l'idea rivoluzionaria» che le venne durante le riprese del Trionfo: «Avevo a disposizione soltanto dei soldati che marciavano e poi i discorsi di Hitler, e i cinematografi erano pieni delle parate di regime, documentari noiosi e tutti uguali, statici». L'«idea», con un bilancio di 270 mila Reichmark messi a disposizione dalla società di produzione Ufa di Berlino, furono i pattini a rotelle: «Li misi agli operatori che correndo fra i soldati resero mobilissimo un film che altrimenti sarebbe stato ucciso dalla staticità delle riprese». Lei salì su un'impalcatura mobile, una specie di ascensore tirato accanto alle bandiere dello sfondo e messo a punto con l'aiuto di Albert Speer, e la si vede ancora - nelle foto d'epoca - in uno spolverino bianco e la cinepresa in mano, davanti alle truppe schierate sul Luitpoldhain. Per i primi venti minuti, come in Olympia, nessun commento, neanche una parola, e un effetto visivo che le è valso premi e medaglie in tutta Europa. Ma insieme all'ammirazione c'erano soprattutto insidie, l'infamia di propagandista del regime, l'accusa di celebrare l'immagine nazista. A quasi sessantanni di distanza si difende urlando che «non c'era niente di particolare in un congresso di partito, l'unica particolarità è il modo in cui ho girato io il film». E cita «d'entusiasmo che la gente aveva per Hitler, allora», quando «il 90 per cento dei tedeschi amava il suo Fuhrer». Davanti alla vetrata aperta sul bosco e il temporale, Leni Riefenstahl sfoglia di nuovo l'album delle foto di quei giorni, quando «tutto cominciò». «Avevo un'impressione positiva del Fuhrer come persona - racconta - perché quando è arrivato ha spazzato via la disoccupazione e la disperazione della gente, la miseria, l'emergenza, ho creduto che le sue idee razziste fossero un mezzo di propaganda e basta, perché molti tedeschi erano antisemiti; quando ho saputo non ho voluto credere che fosse vero, e ho pensato che non ci sarebbe stata una tragedia come invece ci fu. Solo quando ho capito che era proprio vero, ho odiato Hitler, l'ho trovato orribile; prima no, ed è spiacevole aver scritto che il Fuhrer non voleva il massacro di donne e bambini a Varsavia, come ho fatto io nelle Memorie». «Lo so che certe cose la gente non le vuole nemmeno sentire conclude - ma io che ho vissuto quegli anni ho raccontato anche qualche aspetto positivo di Hitler: per far capire come milioni di tedeschi hanno creduto in lui. Adesso dicono: "Leni è nazista come è sempre stata". Ma io ho solo cercato di spiegare come si viveva allora e come mai i tedeschi ci sono cascati. Anche se dopo quel che è stato, forse, bisognerebbe soltanto tacere». Emanuele Novazio Capelli biondi, abiti attillati, e immersioni subacquee alle Maldive con la macchina da presa: per la regista Vetà non conta Leni Riefenstahl con Adolf Hitler e qui a fianco dietro la macchina da presa negli anni di «Olympia» e del «Trionfo della volontà», il film sul congresso del partito nazista propcusa La regista nel '38 a Parigi e, sopra, in un'immagine del '28, quando era attrice e ballerina, con Anne Maj Wang e Marlene Dietrich (a sinistra) Sotto, una fotografia recente