TANDOJ sesso e morte nella Sicilia che brucia

TANDOJ sesso e morte nella Sicilia che brucia un luogo, una storia. Agrigento I960: da una catena di delitti, il primo «cadavere eccellente» TANDOJ sesso e morte nella Sicilia che brucia IAGRIGENTO L luogo, se con l'immaginazione gli si toghe un po' di cemento, è ancora —I uguale a come era quella sera di trentadue anni fa. Il viale della Vittoria parte dalla stazione ferroviaria, a sinistra allinea i palazzotti borghesi, il marciapiede con i pini. A destra termina invece in una scarpata al fondo della quale si stende la valle dei templi. Di li scapparono i due assassini. Erano le 19,45 del 30 marzo 1960 e una coppia percorreva a braccetto viale della Vittoria verso casa. Era buio. Due persone li seguirono e spararono sei colpi da breve distanza. L'uomo si accasciò colpito a morte e trascinò nella caduta la donna, che però rimase illesa. Uno studente liceale, che sostava con amici poco più in là, si trovò sulla traiettoria di un proiettile e morì all'istante. Così cominciò il giallo dell'estate 1960. L'uomo era il commissario di polizia Cataldo Tandoj, 44 anni, dirigente della Squadra Mobile di Agrigento, il primo «cadavere eccellente» della Sicilia recente. La donna era sua moglie Leila Motta, bellissima. Il ragazzo, che non c'entrava niente, si chiamava Nini D'Amanti e sua madre, per anni, in desolata solitudine, continuò a disfargli il letto la sera e a rifarglielo la mattina per sentirlo ancora vivo. «La pacifica quiete agrigentina questa sera è stata funestata da un duplice omicidio che non trova riscontri negli annali della nostra cronaca»: così era scritto nella prima nota giornalistica sul delitto. Non era vero, perché la quiete agrigentina era in quegli anni punteggiata di delitti quotidiani. Ma si poteva scrivere, perché nel resto d'Italia, a quei tempi, di Agrigento nessuno sapeva nulla. Né aveva interesse a sapere, come dimostrano due dimenticati episodi di quel 1960. Il primo riguardava un «convegno internazionale» promosso da un gruppo di intellettuali sulla situazione igienica di Palma di Montechiaro, uno dei paesi allora sconosciuti che circondano Agrigento. Vi parteciparono Danilo Dolci, Jean-Paul Sartre, René Dumont, Leonardo Sciascia, Paolo Sylos Labini, Giorgio Napolitano, ognuno appassionato a proporre, a far conoscere la realtà del sottosviluppo e a mobilitare coscienze e capitali. Sui giornali italiani, di quel convegno che fece sapere come a Palma la metà dei bambini moriva per i vermi, comparve poco o niente. Le Monde mandò a seguire i lavori l'inviato Claude Troeller, esperto di problemi del Terzo Mondo. Scrisse: «Sono stato in India, in Cina, in Libano, ma ciò che ho visto a Palma di Montechiaro i miei occhi non lo potranno dimenticare facilmente: l'Italia è una nazione civile, è una nazione importante. Come può permettere tutto ciò?». Il secondo episodio riguardò Indro Montanelli, già giornalista famoso. Intervistato dal Figaro Littéraire, se ne uscì con questa frase: «Ah, la Sicilia! Voi avete l'Algeria, noi abbiamo la Sicilia. Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai Siciliani la qualità di Italiani». In Sicilia si scatenò una rivolta. Montanelli venne denunciato al Procuratore della Repubblica di Milano, i monarchici proposero di togliergli la cittadinanza italiana, decine di Consigli comunali mandarono telegrammi di protesta. E gli edicolanti di tutta la Sicilia esposero grandi cartelli in cui annunciavano che «per le gravi ingiurie ignobilmente lanciate contro l'intero popolo siciliano sarà rifiutata la vendita dei giornali contenenti articoli di Indro Montanelli». I cartelli rimasero appesi per settimane. U commissario Cataldo Tandoj venne ucciso in mezzo a tutto ciò. Alla periferia d'Italia, tra Terzo Mondo e sicilianità offesa. Era capitato in mezzo alla violenza tenebrosa dei paesi agrigentini e lì stava la ragione del suo omicidio. Ma a questo risultato si sarebbe giunti solo molti anni dopo: quella sera di pacifica quiete agrigentina, regnò la paralisi. Il cadavere rimase per ore sul marciapiede, perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di spostarlo. L'autopsia non venne eseguita per rispetto verso la famiglia. E intanto si lavorava, una copiosa produzione di lettere anonime cominciava a occuparsi della vita privata del commissario portando alla ribalta i personaggi che sarebbero stati popolari per tutta l'estate, al pari dei vincitori delle Olimpiadi di Roma e dei «fatti» della rivolta popolare contro il governo Tambroni del luglio. La moglie del commissario, innanzitutto. A 36 anni, Leila Motta era una bellezza. Figlia del vicequestore del paese di Raffadali, durante la guerra era stata crocerossina e in un ospedale militare siciliano aveva conosciuto Tandoj, figlio di un colonnello, barese, compagno di scuola di Aldo Moro che nel 1960 era segretario nazionale della de. Leila Motta l'aveva incontrato in un letto d'ospedale, gravemente mutilato da ferite di guerra. L'aveva sposato e, dicevano i corvi, la coppia era risultata mal assortita. Troppo bella lei, troppo scialbo e più vecchio lui, e perdipiù mutilato. Ed ecco entrare in scena il professor Mario La Loggia, figura singolare. Psichiatra, fratello dell'ex presidente della Regione siciliana, famiglia democristiana potentissima. Era molto anomalo: un gaudente, un moderno. Sposato con Danika Pejorie, montenegrina, bella, elegante, spavalda e straniera, non sembrava inconsolabile dopo che la moglie era scappata da casa per trasferirsi nella villa patrizia del barone Giuseppe Agnello, proprietario di immensi feudi, po- chi anni prima rapito da ignoti banditi e salvato fortunosamente proprio dal commissario Cataldo Tandoj. E il corvo produce in continuazione lettere sulla relazione d'amore tra l'eccentrico psichiatra e la bellissima Leila. Fino a quando, il 18 maggio 1960, la svolta nelle indagini: Leila Motta e Mario La Loggia arrestati come mandanti dell'omicidio del commissario. Esecutori, due mezzadri al soldo della famiglia La Loggia. Movente: eliminare dalla scena lo scomodo commissario e permettere ai due «amanti diabolici» di continuare il proprio spasso. E allora sì che arrivarono i cronisti, da tutta Italia e da mezza Europa, alla scoperta della «dolce vita» di Agrigento. Dagli articoli di allora: «Trovate bustine di stupefacenti nell'auto di Tandoj. Morfina? Vizio contratto a seguito dei dolori per le ferite di guerra?». «Orge in casa del professor La Loggia». «Droga al circolo del tennis». «Un tubetto di sostanza a base di oppio nella casa dello psichiatra». «Un doppiofondo nella valigia del commissario». Le notizie uscirono a getto continuo per tutta l'estate. Per i quotidiani siciliani, il delitto Tandoj si rivelò una manna: le tirature erano superiori al tasso di alfabetismo, perché nessuno, anche se illetterato, voleva rinunciare a conoscere le storie e i vizi del potente incarcerato: Mario La Loggia era infatti potentissimo. Così contadini e pastori andavano all'edicola, prendevano il giornale e se lo facevano leggere la sera quando tornavano a casa. Decine di fotografie famose: Leila Motta con vestiti fasciami e scollati e un lungo bocchino alla sigaretta. Danika al tavolo del poker. Il trio La Loggia - Danika - Leila alle serate mondane. Gli ingredienti erano tutti presenti: sesso, denaro, politica, droga, sangue, mistero. Ne mancava uno, sospeso nell'aria, ma mai nominato: la mafia. Ma la mafia a quel tempo non esisteva e, se esisteva, non avrebbe mai ucciso un commissario di polizia, era una bestemmia sostenerlo. I rotocalchi non la vedevano, gli inviati di molti giornali che stazionarono per settimane ad Agrigento - c'erano, tra gli altri, Alfredo Todisco, Lietta Tornabuoni, Giovanni Russo, Mauro De Mauro - la sentivano, la palpavano, ma non trovavano agganci con l'istruttoria che i magistrati di Agrigento stavano conducendo, ostentando la massima sicurezza. Il professor La Loggia e Leila Motta restarono in carcere sette mesi e vennero liberati alla vigilia del Natale 1960. Prosciolti da ogni accusa, così come i due presunti esecutori. Arrivò un nuovo magistrato e le indagini presero un corso diverso, ma a questo punto l'interesse per la vicenda era caduto. Indiziati erano diventati anonimi contadini, di nessun interesse, in realtà - a leggere le carte - molto vicini alla mappa dell'Agrigento criminale dei nostri giorni. Si scoprì allora che quello di Tandoj era soltanto l'ultimo di una catena di delitti che aveva visto cadere il sindacalista della Cgil Accursio Miraglia, il sindaco di Favara, il vicesindaco di Licata, il vicesegretario regionale della de, un candidato democristiano alle elezioni regionali, accompagnati da un'altra lunga serie di morti sconosciuti, trovati pieni di mosche nelle trazzere della campagna. Scriveva, nel 1962, l'inviato della Stampa Alfredo Todisco: «La mafia, questa associazione invisibile, erige sui fatti di cui è protagonista una versione travestita che, grazie a false testimonianze, paure, complicità misteriose, si sostituisce alla verità. Per usare una espressione di Orwell, la mafia riscrive la cronaca». La verità giudiziaria arrivò otto anni dopo il delitto, dalla corte d'Assise di Lecce. Otto ergastoli per gli omicidi di Tandoj e gli autori di altri cinque omicidi. Braccianti, mezzadri dei paesi intorno a Agrigento, capeggiati da un giudice conciliatore, il professor De Carlo di Raffadali. Tandoj non era stato ucciso per passioni d'amore, ma perché si temeva potesse rivelare, trasferito a Roma, segreti di mafia ben custoditi. Segreti che conosceva, perché a essi si era mescolato. Aveva fatto da mediatore in vendite di terreni, trattando con il capo mafia Genco Russo; si era fatto prestare denaro («cinquantamila lire») da un mafioso di Siculiana, di nome Gerlando Caruar.a. Un cognome che sarebbe diventato, trent'anni dopo, molto importante: la famiglia Caruana di Siculiana, secondo le ultime conoscenze mafiologiche, risulta essere diventata la più potente organizzazione internazionale di traffico di droga. Così finì la storia del primo commissario di polizia ucciso in Sicilia. Dei ventidue imputati, otto vennero condannati all'ergastolo, ma in realtà, gli altri avendo preso in tempo la via del Canada, in carcere rimase una sola persona, Giuseppe Galvano. Cinque anni fa, dopo 27 anni di detenzione, ebbe la pena sospesa, perché paralizzato e in grado di respirare solo con l'ossigeno. Fu trasportato a Raffadali, a morire presso parenti. Dimenticati dal tempo, i due supposti «amanti diabolici» di trentadue anni fa, sono rimasti nelle loro case e quando si incontrano lui la saluta con un rispettoso inchino. Il professor Mario La Loggia, in pensione, lo si può incontrare a passeggio per via Atenea e il suo nome lo si può leggere alla base del masso che fa da tomba alle ceneri di Pi randello. Lo fece sistemare lui nel 1962, allora presidente del l'Azienda del Turismo, e ci si può immaginare una certa soddisfazione nell'unire il suo cognome all'autore dello strapotere delle apparenze. Oggi, in qualità di presidente dell'Associazione Auto d'Epoca, fa sfilare periodicamente per la città le fantastiche decapotabili di una volta. Leila Motta prese prima il diploma magistrale, poi si laureò in lingue all'Istituto Orientale di Napoli ed è da tanti anni ormai la professoressa di francese al liceo di Agrigento. Dalla casa di viale della Vittoria scende verso i templi e lì si siede a correggere i compiti. Alle ultime elezioni politiche è stata candidata per la lista dei Verdi Sole che ride. Della vecchia storia parla pacatamente con totale distacco. «Non vollero dire che era stata la mafia, mentre era chiaro. Un giorno viaggiavo in treno e un signore mi riconobbe. Mi disse: sa perché le è capitato tutto quello che le è capitato? Perché lei era una bella donna e aveva un nome esotico. Credo che avesse ragione». Anche Danika, la stravagante straniera, ogni tanto si fa vedere a Agrigento. Per il resto, non c'è più nulla del clima di allora. La città è oppressa dal cemento di speculazione. Dai rubinetti non scorre l'acqua. Se fosse stato ucciso adesso, il commissario Tandoj, la sua storia rimarrebbe sui giornali per non più di due giorni. Perché da queste parti, ormai i morti di mafia si fatica a contarli. Marescialli dei carabinieri, presidenti di squadre di calcio, avvocati, giudici ragazzini, sindaci, ex sindaci, candidati, assessori, passanti, capimafia attempati, ragazzi, imprenditori, mediatori, pastori, spacciatori, latitanti, pentiti, camionisti, bidelli... Morti accolte con assuefazione e lontananza, senza che nessuno più si affatichi a inventare raffinati castelli di falsità verosimili. Enrico Deaglio L'ex «diabolica»: «Non vollero dire che era stata la mafia, anche se era chiaro» Sipario di orge, droga, politica, denaro: un solo ingrediente restò innominato Un commissario ucciso per strada, la moglie bellissima e uno psichiatra gaudente arrestati dopo le rivelazioni piccanti di un corvo Leonardo Sciascia. A lato Danika Pejorie, ex moglie dello psichiatra Mario La Loggia. Nella foto grande Leila Motta, a sinistra con il presunto amante A lato Aldo Moro: a Bari era stato compagno di scuola di Tandoj. Sotto Indro Montanelli dirigente della Mobile, implicato in traffici mafiosi Sipario di orge, droga, politica, denaro: un solo ingrediente restò innominato Cataldo Tandoj, dirigente della Mobile, implicato in traffici mafiosi Leila gioca a carte: secondo alcuni, una prova della sua «dolce vita»