MANOLO lo zingaro delle rocce

MANOLO lo zingaro delle rocce la memoria. L'asso dell'arrampicata libera ricorda le prime prove: la mia logica è andare controcorrente MANOLO lo zingaro delle rocce FIERA DI PRIMIERO DAL NOSTRO INVIATO A ridosso dei verdissimi boschi che circondano il versante meridionale delle Pale di San Martino, dominato dal pilastro del Sass Maor, cento metri sopra i tetti della dolce borgata di Fiera di Primiero, Maurizio Zanolla detto Manolo finisce di sistemare la nuova casa, costruita su un prato in pendenza che si raggiunge solo a piedi. Arrampicatore fortissimo, tra i pochi che in Europa sono in grado di superare difficoltà di decimo grado, ma schivo e isolato, uno zingaro della roccia, è diventato popolare da quando è il testimonial in spot e fotografie di una casa che fabbrica orologi sportivi e dopo la partecipazione alla trasmissione televisiva Piacere Raiuno, in cui ha scalato i monumenti di venti città italiane. Manolo ha 34 anni (è nato a Feltre il 16 febbraio 1958). Aspirante guida e istruttore nazionale, vive a Fiera da quando arrampica, con la sua compagna, che si chiama Bruna, e una figlia che ha compiuto sedici anni. La nuova casa è un fienile ristrutturato: un «tabià» che Manolo ha adattato da solo, pezzo per pezzo, disegnando il progettor trasportando i materiali, misurando, tagliando, inchiavardando travi e pareti di legno. Si è caricato sulle spalle i sacchi di venti camion di sabbia; ha imparato le tecniche della manualità artigiana, si è fatto la casa come se la facevano i vecchi montanari. Seduti davanti all'ingresso, con una bottiglia di Muller Thurgau, il sole che picchia, il brusio dei turisti lontano e fievole, ascoltiamo il racconto di un eroe dell'avventura. Com'era la sua famiglia? Una famiglia normale. Di condizioni modeste. Mio padre era un operaio, che ha sempre lavorato all'estero, prima in Svizzera, poi in Africa. Sono riuscito a vederlo solo da quando è in pensione. Mia madre faceva la casalinga e sbrigava qualche lavoro anche fuori di casa. Eravamo tre figli, io e due sorelle. Non ci mancava nulla, ma non potevamo sicuramente permetterci lussi. Io ho sempre voluto lavorare: a dodici anni facevo il cameriere. Lo stagionale, in Liguria. Quando e perché, ha cominciato ad arrampicare? Se non ricordo male, avevo diciassette anni. Era dunque l'estate del '75. Non so perché. Per gioco, credo. Mi piaceva la montagna, come ambiente, come mi piace anche adesso: non sarò mai solo un atleta del decimo grado; ma non sapevo nulla di alpinismo e di scalate. Vedevo la gente con le corde e non capivo perché lo facessero. Un amico mi portò in una vecchia cava, che era la palestra dei rocciatori feltrini. Una piccola palestra, con itinerari corti, su difficoltà classiche, dal terzo grado al quinto superiore. La prima volta salii subito tutti gli itinerari. Mi sembrava la cosa più naturale che potessi fare, era come se fossi sempre vissuto lì e non fossi mai sceso. Faceva qualche attività sportiva? Con la scuola, alle medie, avevo fatto ginnastica artistica. Ero andato ai Giochi della Gioventù. Nel corpo libero, il mio punteggio era stato tra i più alti a livello nazionale, forse il quarto. Ma non sono fatto per le competi- ziom: amo competere con me stesso. Anche adesso, mi piace correre a piedi, mi piace correre in bicicletta. Però non mi è mai piaciuto avere il numero sulla schiena. Perciò non ha mai partecipato alle gare di arrampicata? Quando hanno inventato le gare per fortuna avevo un tendine rotto, il tendine del mignolo. Ero praticamente bloccato e così ho potuto dire di no. Non ho niente contro le gare, che sia chiaro. Mi sembra giusto che ci siano le gare in tutti i campi, anche nell'arrampicata, visto che chi la pratica compie sacrifici enormi. E' giusto che ci sia una coppa del mondo. Ma è completamente al di fuori dei miei interessi. Non sono fatto per stare nello stadio. Che tipo di ragazzo era lei, in quell'estate a metà dei contestati Anni Settanta? Che cosa voleva, che cosa sognava? Di sicuro non mi riconoscevo nella normalità. Di più, non posso dire. Avevo fatto una scuola professionale. Irrequieto? Sì, ero irrequieto. Ribelle? Anche, perché no? Non verso la mia famiglia, ma verso un modo di vivere. Ma non avevo precise idee politiche. Cercavo delle risposte,, che non riuscivo a darmi. Mi sembrava che la maggior parte della gente, dove vivevo, non avesse coraggio, avesse i paraocchi. Io avevo soprattutto una grande voglia di conoscere il mondo. Con un amico ho fatto un viaggio in autostop: Jugoslavia, Turchia, Iran, Pakistan. Fino in Afghanistan. Non avevamo soldi. Dormivo sempre dove capitava. Aiutavo a fare il pane per guadagnarmelo. Torniamo all'arrampicata: Manolo come diventò Manolo? Con l'allenamento specifico, con una preparazione metodica? Una volta non c'era questa mentalità. Si andava e basta. Fare delle trazioni era come barare al gioco. Non passava neanche per l'anticamera del cervello. Difatli sono arrivato a ventiquattro anni senza aver mai fatto una trazione. L'unico allenamento era arrampicare. Che forse non è nemmeno un'idea sbagliata. Adesso mi alleno, ma non ho braccia particolarmente forti rispetto al mio peso. Non riesco a fare la trazione su un braccio solo. Ciò che mi permette di superare le difficoltà non è la forza ma la tecnica, soprattutto la velocità di concatenazione dei movimenti. Come saliva, con che stile? A quell'epoca, era ancora diffusa, almeno nell'ambiente italiano, la mentalità dell'arrampicata con mezzi artificiali, servendosi delle staffe, le scalette di corda, e usando i chiodi anche per la progressione non solo per la protezione. Per me era naturale, fin dalle prime prove, non tirarmi sui chiodi e non usare le staffe. Ricordo che i miei compagni di allora mi consideravano un matto. Non sapevo niente delle discussioni tra gli alpinisti. Non avevo letto libri di montagna. L'arrampicata libera non era per me una scelta ideologica: era il mio modo di arrampicare. Di fronte al passaggio difficile, con tutte le mie forze tentavo sempre di salire senza attaccarmi ai chiodi. Ad arrampicare così penso di essere stato tra i primi, almeno in Europa. Mettevo anche poche protezioni. Le vie classiche le ho sempre ripetute con il minor numero di chiodi possibile. Se i primi salitori ne avevano usati cento io cercavo di usarne dieci. In questo modo ho rafforzato al massimo la capacità psicologica di af¬ frontare il rischio. Ho raggiunto limiti che oggi avrei timore di ripetere. Quando incominci a essere abbastanza lontano dai chiodi, su difficoltà veramente alte, con chiodi neppure buoni, allora è rischioso, troppo rischioso. Infatti, più tardi ho cambiato mentalità, altrimenti prima o poi sarei saltato giù. Ma è stato un passo avanti decisivo. In questo stile, c'era il gusto di violare le regole dell'ambiente alpinistico? Andare controcorrente è sempre stata una mia logica. In me c'è sempre stata una punta di anarchia. L'ambiente alpinistico io lo ignoravo. Allora si arrampicava in scarponi e io andavo con le scarpe da ginnastica. Si portavano zaini pesanti e io andavo senza niente, uscendo dalla parete due ore prima degli altri. Ero contrario anche ai rifugi. Con gli amici si dormiva sempre sui sassi. Eravamo drastici. Per noi avrebbero potuto buttar giù tutto: rifugi, bivacchi, funivie, seggiovie. Voleva fargliela vedere? No. Tanto è vero che non davo mai notizie di me. Non andavo a dire: ho aperto questa via, ho ripetuto quest'altra. Non volevo snobbare. All'inizio non facevo neanche le relazioni. Delle mie vie, qualcuna non la conosce ancora nessuno. Oggi l'ambiente sembra cambiato. Ne è un esempio l'ingresso delle donne, il successo di una Catherine Destivelle. E' stato dopo. Le donne in montagna erano ima rarità. Sono arrivate con l'arrampicata sportiva: in realtà hanno un vantaggiosissimo rapporto peso-potenza, con meno forza ma più leggerezza. Quando ha capito che arrampicare era la cosa che voleva fare per sempre? Io non ho mai pensato che arrampicare è la cosa che voglio fare per tutta la vita. Potrei anche non arrampicare più. E' ima cosa che mi piace fare, ma avrei voluto che restasse più lontana, che non diventasse mai un obbligo. Ma, dopo l'inizio folgorante, qual è stata la stagione più intensa? Credo dopo il servizio militare. Ero negli alpini, mi hanno congedato a fine agosto. Mi sembrava che il tempo fosse scappato via e volevo recuperarlo a tutti i costi. In un mese ho concentrato un numero incredibile di salite, arrampicando in modo esasperato, vivendo da una cima all'altra, in Marmolada, in Civetta, sulle Pale, alle Lavaredo. Credo di aver fatto più di venti vie nuove in un mese. E cominciavo ad accorgermi che i compagni di prima non riuscivano più a starmi dietro. Lei ha detto: avrei voluto che l'arrampicata restasse più lontana. Quando è diventata anche un lavoro? Io ho sempre lavorato. Da cameriere stagionale a muratore a operaio. Poi mi sono organizza- to meglio e per diversi anni ho fatto lavori di bonifica montana. Quindi sono arrivati gli sponsor. All'inizio rifiutavo. In seguito ho capito che tanto valeva scendere a qualche piccolo compromesso. C'era la possibilità di vivere con un po' più di soldi. Tutto qua. Con gli sponsor è arrivata anche la televisione. Con la televisione la popolarità. Che effetto le fa? La televisione è impressionante. Quando partecipavo a Piacere Raiuno la gente mi riconosceva, mi fermava negli autogrill: Ma lei è quello che scala i monumenti! Scalare i monumenti era facile? Era difficilissimo. Eravamo in inverno, anche con dieci gradi sottozero. Le difficoltà erano molto elevate, fino all'ottavo o nono grado. Il Castello degh' Estensi a Ferrara, il Campanile di San Marco a Pordenone, la Torre Civica a Cremona, il Castello Svevo a Cosenza, un bel castello a Serralunga d'Alba, poi per fortuna i Faraglioni a Capri e le rocce vere di Pantalica a Siracusa. Avrei potuto sabre anche assicurato dall'alto, ma io non ho voluto. Ho pensato che valeva la pena di arrampicare bene, soltanto che non si potevano mettere chiodi di protezione, per non danneggiare i monumenti. Al massimo qualche stopperino fra i mattoni, che sono dei piccoli blocchi d'acciaio. Il problema era che spesso, per le esigenze della ripresa televisiva, mi facevano rifare la salita dieci o quindici volte. Quante sono le vie di Manolo? Non lo so. Non ho mai tenuto un elenco. Avevo una specie di diario, da quando ho cominciato ad arrampicare. Una mattina di due anni fa mi sono svegliato e mi sono detto: queste cose le ho vissute, a che cosa serve scriverle? E l'ho bruciato. Lei pensa, qualche volta, a quando sarà vecchio e non potrà più arrampicare, non sul decimo grado? Io arrampico adesso a un certo livello, ma non ho mai creduto di essere arrivato da qualche parte. Io non ho conquistato niente e quindi non perderò niente. Sarò contentissimo quando non riuscirò più a stare su un appiglio di tre millimetri e cercherò quelli da tre centimetri. E sarò contentissimo quando non riuscirò più a scalare e girerò le montagne camminando. Il mio rapporto con la pietra non è la vittoria: mi è sufficiente essere lì per star bene. Sono consapevole dell'inevitabile declino: uno scrittore o uno scultore possono migliorare con il passare degh anni, io no, la mia è un'attività fisica, subordinata alle leggi del tempo. Quindi non posso vivere tutta una vita appeso sulla punta delle dita, però posso vivere tutta una vita in un ambiente che mi piace. La montagna non è soltanto la cima. Non vede dove mi sono costruito la casa? Non vede dove ho scelto di vivere? E poi ho una famiglia che mi riporta alla normalità. Non vivo mica fuori del mondo. Quando mi dicono: hai un bel coraggio, io penso che il coraggio è un'altra cosa. Di chi si oppone alle ingiustizie sociali, o anche di chi va tutti i giorni in fabbrica. Alberto Papuzzi «Il mio rapporto con la pietra non è la vittoria: mi basta essere lì per stare bene. Il vero coraggio è un'altra cosa» pp pg«Il mio rapporto con la pietra non è la vittoria: mi basta essere lì per stare bene. Il vero coraggio è un'altra cosa» amo competere con me Anche adesso, mi piace e a piedi, mi piace correre cletta Però non mi è mai frontare il rischio. Ho raggiunto limiti che oggi avrei timore di ripetere. Quando incominci a essere abbastanza lontano dai E' stato dopo. Le donne in montagna erano ima rarità. Sono arrivate con l'arrampicata sportiva: in realtà hanno un vantagMANOLO lo zingaro delle rocce «Non è la forza ma la tecnica che mi consente di superare le difficoltà»

Persone citate: Alberto Papuzzi, Catherine Destivelle, Cremona, Fiera, Maurizio Zanolla, Muller, Svevo, Torre Civica