JULIETTE

JULIETTE la memoria. «Parigi fira il 1945 e il '60: la parte migliore del mondo era radunata lì» JULIETTE MRAMATUELLE (Còte d'Azur) IA moglie è pazza», diceva Michel Piccoli quando era sposato con Juliette Greco. E lei, Juliette, gli dava ragione. «Una pazzia dolce però spiega ora -, quella degli artisti innamorati del loro dono. E anche una specie di ebbrezza esistenziale, una febbre leggera che mi sali alla Liberazione e da allora non è mai più scesa. Quell'estate di colpo tutto ridiventava possibile, era la libertà che scoppiava. Io non avevo un soldo e non potevo muovermi, ma con la testa andai dappertutto. Dopo i traumi della guerra, d'un tratto ero di nuovo estremamente felice. E cominciai a lavorare, in teatro». Siamo a pochi chilometri da Saint-Tropez. Dal terrazzo della Maia, la villa in pineta della signora Greco, la vista spazia sulla costa smaltata dal vento di mare. I colori sano tersi, abbaglianti di luminosità. Lei invece, come sempre, è tutta in nero. Unica concessione all'estate, qualche disegnino bianco sul camicione indiano lungo ai piedi. I capelli Usci e neri sfiorano le spalle, la faccia è del pallore di chi non si è mai esposto al sole. E cosi, in nero e bianco, è interamente arredata la casa. Pare d'essere in un film di prima del colore. Fin dagli inizi, Greco decise di affidare toni e sfumature solo alla voce, la sua inimitabile voce che non si potrebbe confondere tra mille. Anche adesso, sprofonda nel divano come volesse annegarvi per far emergere con più forza, dalle sole parole, il ricordo di quegli anni straordinari. «In un attimo fu il '49, il mio debutto come cantante al Boeuf sur le toit, nel mese di giugno. E subito dopo, la mia prima estate in Costa Azzurra. Quell'anno fu a Antipolis, vicino a Antibes. Anet Badel aveva un locale in cui suonava l'orchestra jazz di Claude Luter, mi chiese di fare la stagione da lui. Aveva affittato una villa in cui stavamo tutti, musicisti e cantanti, insieme a ogni ora del giorno e della notte. E' l'estate dei miei vent'anni, raramente mi sono divertita così tanto. Lo ricordo come un momento magico. Noi eravamo a casa nostra e tutti venivano verso di noi. Venne Miles Davis, venne il Modem Jazz Quartet. Persone straordinarie come Prévert, Kosma, Queneau, e poi Calder e pittori, Picasso e tutti quelli di Maeght da Saint-Paul-de-Vence. Un pubblico completamente diverso da quello che avevo conosciuto a Saint-Germain-des-Près. C'erano anche molti italiani, ricordo che quell'estate venne Agnelli a sentirci. C'era Dado Ruspoli. E' l'estate più magica della mia vita. Anche perché, di colpo, successe un fatto divertentissimo: su tutta la costa, da un giorno all'altro, spuntarono centinaia di piccole Greco, tutte vestite di nero e con i capelli lunghi. Tutte miliardarie però, a differenza di me». I primi Anni 60 fanno già parte di un'altra era. «Le estati folli a Saint-Tropez, con Frangoise Sagan. I soldi un po' alla volta erano arrivati. Finalmente potevamo affittarci noi una casa, dove di nuovo confluivano tantissimi amici, artisti di ogni genere. Le notti erano giorni e i giorni notti. Avevamo macchine veloci, vivevamo una dopo l'altra avventure che sbocciavano come fiori e come fiori appassivano. Sì, era una vita molto dissipata, ma come ci divertivamo, e come ridevamo... Così tanto, credo di aver riso solo quando girai Belfagor per la televisione: uno sceneggiato in quattro puntate di Claude Barma in cui io interpretavo tre ruoli, la protagonista, sua sorella e il fantasma. Il ruolo maschile era di Chaumette. Uno spasso da non dire, per noi, e un successo mai visto». Proprio in quegli anni, però, il commercio s'impadronì della costa. «Le cose cambiarono, e noi non venimmo più. Andammo altrove, a affittare case e correre in macchina». A Saint-Tropez, la signora Greco è tornata solo tre anni fa: «Quando ho potuto comprare La Maia». E' vero che adesso non è più come allora, il turismo ha sfigurato questi posti. Ma io sono molto protetta. La gente è moltissima? Io da qui, mimetizzata nel verde, non la vedo. Vedo chi voglio, ho sempre ospiti. Jean-Claude Brialy, che ha organizzato uno stupendo festival teatrale a Ramatuelle, viene molto spesso. E poi tanti, tanti amici». t Purché siano di passaggio. E' una tradizione, nella famiglia di Juliette Greco: le donne hanno un carattere dominante, che isola. Gli uomini non possono restare a lungo. Fu così per la madre di Juliette, è stato così per lei ed è così anche per Laurence-Marie, la figlia avuta dal primo marito Philippe Lemaire. LaurenceMarie, ora a sua volta madre di una piccola Julie che cresce senza papà, tanto simile a quella Juliette - all'epoca Jujube - che andava la notte a rubare un bignè sì uno no alle torte prepa¬ rate con amore dalla nonna in occasione delle grandi feste. «La mia infanzia è stata spensierata. La mia adolescenza invece - per via della guerra - è stata molto difficile. Mia madre, che militava nella Resistenza, venne arrestata e mandata al campo di Ravensbruck. Con lei mia sorella. Io me la cavai con sei settimane di carcere a Fresnes». Le violenze subite, tristemente inflitte da polizia tutta francese, tolsero a Juliette la voglia di parlare. «Mi ci volle parecchio, dopo, per uscire dal silenzio. Anche quando già vivevo la splendida avventura di Saint-Germain, per un lungo periodo riuscii solo a ascoltare. Fu poi Boris Vian a reinsegnarmi a parlare. Lui abitava a Montmartre, mi aveva detto di andarlo a trovare ogni volta mi fossi sentita triste. Io non avevo neanche un paio di scarpe, così aspettai il caldo e poi cominciai a salire, quasi ogni sera verso le sei, fin lassù, a piedi, scalza. Boris mi faceva accoccolare accanto a lui, davanti alla finestra aperta sui tetti di Parigi, mi metteva i capelli da una parte - allora li avevo lunghi lunghi - e con infinita delicatezza, mentre vedevamo le luci accendersi una a una, mi raccontava le sue storie. Fu il migliore dei medici, mi guarì così. Boris per me è qualcuno di molto importante, l'amore puro, fraterno, il solo vero». Parigi in agosto, l'estate della Liberazione, alle tre del mattino. «Non c'era un'anima. Era uno spettacolo sontuoso. Cammina¬ vo, camminavo per veder cominciare la luce. Adesso non è più possibile. Allora si poteva entrare nei cortili a curiosare. SaintGermain era un villaggio, straordinario. Era un'epoca in cui ci si poteva fidare della gente. Io in casa mia credo di non aver mai messo una serratura alla porta prima del '65. Tanto che una notte mi trovai Alain Delon seduto sul letto. "Ma che cosa fai?" gli chiesi; "Sono entrato e dormivi, non volevo svegliarti" rispose. Magnifico. Oggi invece siamo ridotti élla psicosi della diffidenza». Di cortile in cortile, Juliette alla fine scoprì le caves: il Tabou, la Rose Rouge... Cominciò a frequentare Sartre, Merleau-Ponty, Camus. Dalle prime poesie lette alla radio, dai primi piccoli ruoli in teatro, in breve la voce Greco si fece strada. «Fu proprio Sartre, una notte scendendo a piedi da Montmartre dov'eravamo stati a cena tutti in gruppo, che ebbe l'idea. "Perché non canta?". Non mi piacciono i testi delle canzoni, risposi. "Venga da me domattina alle nove". Mi diede i libri da cui scegliere, scrisse lui per me. E io cominciai a cantare. Sartre era un uomo straordinariamente generoso. Ma anche divertentissimo, molto allegro. Non è l'immagine che di solito si ha di lui, e invece era così. Quelle cene a Montmartre, alla "Cloche d'Or", erano un divertimento unico. Scherzava tutto il tempo. Simone de Beauvoir no, era una donna molto intelligente ma non allegra. Lei non veniva con noi. Organizzava serate per stare con gli amici, ma a spasso per le vie di notte non veniva». Greco s'infervora nel racconto. Ancora oggi è quasi incredula al pensiero della fortuna avuta, da un certo punto in poi. Accarezza i due yorkshire - madre e figlia, assolutamente identiche, che vorrebbero entrambe starle in grembo - e continua a evocare la mitica Saint-Germain dove tutto ebbe inizio. «Furono c^uindici anni, dal '45 al '60, in cui chissà, forse una particolare congiunzione astrale volle che lì si radunasse la parte migliore del mondo, in tutti i campi dell'intelletto e del talento. Con il mio maglione sformato e i miei pantaloni neri, senza scarpe, andavo ai cocktail organizzati dai Gallimard nel grande giardino della casa editrice, in rue de l'Université. Lì conobbi scrittori come Steinbeck, Faulkner. E Raymond Queneau, formidabile essere umano, tenero, sensibilissimo, che fu poi un grande amico. Non ho mai più incontrato nessuno che ridesse come lui, una risata immensa, fortissima. Loro erano tutti ben vestiti, ma non davano peso a che io non lo fossi, e io neppure. Tra l'altro, c'erano montagne di petit -four. A turno, noi squattrinati andavamo con una borsa vuota all'inizio che mano a mano si riempiva. E poi tutti insieme, nelle nostre chambres de benne, sotto i tetti sul Quai des Augustins... che scorpacciate!». «In quegli stessi anni, lì a Saint-Germain, c'era una colonia italiana di intellettuali estremamente interessanti. Ricordo un Marco Ferreri giovanissimo, un Vittorio Gassman formidabile, Marcello Pagherò. Il livello era davvero molto alto. Poi tutti, chi in un ramo chi nell'altro, facemmo fortuna e ce ne andammo, e Saint-Germain non fu più la stessa. Oggi resta il ricordo di chi è passato di lì, che è comunque molto importante. Io ogni volta che vado alla Brasserie Lipp penso che Verlaine ci andava, mi dà calore». Le estati poi divennero tournées. «L'ultima che ricordo di vera vacanza fu a Capri. Cantavo già e ero già famosa, ma m'innamorai enormemente di un uomo e con lui andai a Capri, in quell'hotel da favola. A quei tempi c'era poca gente, tutta bella e elegantissima. Sembrava di aggirarsi tra scene di un Visconti o di uno Zeffirelli. Ma poi sì, è vero, per moltissimi anni le mie estati sono diventate sinonimo di lavoro. Di felicissimo lavoro, tournée incredibili, tipo Biarritz-Dieppe o Strasburgo-Biarritz. Si faceva una città per sera. Era un modo di lavorare diverso da quello di oggi. Jacques Brel era un cantante che faceva trecento serate l'anno. Io ho sempre viaggiato ininterrottamente, e anche adesso faccio una media di dieci Paesi l'anno. Ma le tournée estive, qui in Francia quasi non esistono più. Ne approfitto per riposarmi un po', non più di tre settimane però. Se non lavoro, io non mi sento viva. Sono come una spugna, ho bisogno del sudore e delle lacrime, le mie e quelle degli altri. Altrimenti inaridisco. Per me, il lavoro è emozione, amore che dò e ricevo, non mi stanco mai, mi piace sempre allo stesso modo. Continuo, prima di ogni spettacolo, a morire di paura. Il panico è quello delle prime volte, ma la gioia anche. Se non fosse così, smetterei». La signora Greco rientrerà a Parigi per l'uscita, il 14 settembre, del nuovo disco: il recital del ritorno - l'anno scorso dopo sette anni di assenza - all'Olympia, che ha portato anche in giro per l'Italia. E poi via, di nuovo in tournée per l'Europa, di nuovo in Giappone dovè la chiamano ogni due anni, di nuovo in Italia, forse anche un nuovo Olympia. «A Parigi però non posso passare troppo spesso. E' una storia d'amore intenso, troppo forte. Da una volta all'altra devo lasciare il tempo sufficiente. E poi vorrei preparare qualche canzone nuova, da aggiungere al mio repertorio di sempre. Canzoni come Les feuilles mortes non tramonteranno mai, ma ci sono giovani rockeurs in gamba oggi che mi piacerebbe lavorassero per me. Ad esempio, sarei felice di cantare qualcosa di Alain Souchon o di Francis Cabrel, ma loro non fanno canzoni per gli altri. Adesso ognuno lavora per sé e basta. Jacques Brel, Serge Gainsbourg si scrivevano le loro canzoni ma ne regalavano anche. Io ho ricevuto regali inestimabili. Il fatto è che scrivere canzoni che non siano i soliti amour... toujours, amour... tambours è difficilissimo, è un mestiere a sé. Anche per uno scrittore, un poeta, non è facile. Si tratta di fare un'opera teatrale intera, compiuta, che stia tutta intera in due minuti e mezzo. Prévert, Queneau sapevano farlo. Oggi forse non c'è nessuno che sappia. Philippe Sollers è uno scrittore che ha molto talento, mi piacerebbe provasse. Ma è tutt'altro che semplice». Da qualche mese gira voce che l'Olympia, recentemente compiuti cento anni, sia in procinto di chiudere. Juliette Greco non ci vuol credere. «E dove andrei poi a incontrare il mio pubblico? A che varrebbe la ricerca di nuove canzoni? No, l'Olympia ha un'anima, non può chiudere. Se la sala dovesse venire utilizzata per altro, sono certa che i muri crollerebbero. I miei amici scomparsi che lì hanno cantato e che io ritrovo ogni volta che torno, verrebbero loro a buttarli giù. No, l'Olympia non chiuderà, neanche questa volta». E' così madame Greco. Che il mondo un giorno possa finire, per lei non è pensabile. «A meno che la gente smetta di cantare. Allora sì, quello sarebbe il segno della fine imminente». «Dopo le violenze della guerra non parlavo più, usai dal silenzio grazie a Boris Vian. Sartre mi scrisse i testi delle canzoni» Nel'49 l'esordio: tutte le ragazze si vestirono come lei RACCONTI D'ESTATE Nell'immagine grande, Juliette Greco giovane, con i capelli lunghi e lisci Sopra, in una foto del 71 con Dalida «Dopo ldella gunon parusai dagrazie aSartre mi testi dNel'49 tutte le si vestir