La vendetta di Siad Barre

La vendetta di Siad Barre La carestia nei villaggi: i soldati hanno razziato anche le sementi La vendetta di Siad Barre Nelle terre bruciate dal dittatore in fuga REPORTAGE un inviato nella somalia BARDHERE DAL NOSTRO INVIATO Se l'inferno esiste allora assomiglia a un angolo desolato di Somalia. Altrimenti da dove può uscire questo bambino ridotto ad un asimmetrico fagotto di ossa che rantola sfinito tra rifiuti e rovine annerite? Tra lui e la vita ci sono non più di 300 metri, quanto lo separa dall'edificio dove distribuiscono cibo alle vittime della carestia. Nessuno lo aiuterà perché qui la morte è la normalità, sopravvivere l'eccezione. Non avrà neppure la consolazione di morire in diretta sotto gli obiettivi delle telecamere. Barelliere è troppo lontano anche per i reporter in cerca di immagini choc. E nessun Bob Geldof questa volta riempirà lo stadio di Wembley per salvare quest'armata di scheletrì che si aggrappano alla speranza davanti al cancello dell'edificio dove distribuiscono il cibo. Un posto avanti nella fila può voler dire attraversare il confine tra la morte e la sopravvivenza; ma nessuno spinge, urla o tenta di guadagnare posizioni. I guardiani agitano fruste e bastoni, ma senza convinzione, più per confermare la loro autorità che per assestare inutili colpi. All'interno in un «ambulatorio» all'aperto si pesano i bambini; per stabilire se i più provati hanno «diritto» ad una razio- ne supplementare. Ma questo cornicino piagato coperto di mosche e di vomito seccato, il volto raggrinzito in un'atroce espressione di vecchio, non ha bisogno di misurazioni. E' appena morto tra le braccia della madre. Lo allineano in una stanzetta buia, l'obitorio di questo improvvisato ospedale, a fianco di un'altra sagoma esigua avvolta in uno straccio sudicio. «Ieri sono spirati dieci bambini. Oggi siamo già a quattro-cinque, ed è solo il mattino», racconta il dottore somalo che a mani nude e con un po' di cibo in polvere cerca di arginare l'apocalisse. A Barelliere la tragedia la ri¬ conosci dall'odore, puzza di escrementi e di vomito, ti investe da lontano con zaffate soffocanti che tagliano anche l'aria sottile dell'Alto Giuba. Questo, in un tempo felice, mule secoli fa, era il granaio della terra delle «spezie e del cinammomo». Migliaia di relitti di questo day after che da gennaio ha già ucciso 30 mila persone e che in pochi mesi rischia di cancellarne 3,4 milioni, sono allineati quasi in ordine in ricoveri di frasche. La fame ha come essiccato i loro corpi, cancellato dai volti ogni espressione che non sia un'immobilità dolente.. La maggioranza, soprattutto i bambini, si rannicchia su se stessa, per rac¬ cogliere le ultime energie. Sopravvivere in Somalia oggi si traduce Unimix, il cibo in polvere composto tìi'vegetali, latte, olio, cereali che dovrebbe ridare forza a corpi stremati. Ma per molti mangiare non basta: l'organismo disabituato al cibo lo rifiuta. Una flebo potrebbe forse salvarli, ma a Bardhere, dove finora è giunto solo un C-130 della Croce Rossa sarebbe come ottenere uno Shuttle. Trecento, cinquecento, qualcuno parla di migliaia di vittime al giorno, in maggioranza piccini. L'aritmetica delle tragedie africane è ovviamente incerta. Dietro le cifre c'è in qualche caso la giustificata bugia di chi sa che per mobilitare la carità internazionale ci vogliono almeno quattro o cinque zeri. Ma le dimensioni della catastrofe sono comunque evidenti. Senza dimenticare che privi di una alimentazione terapeutica, molti bambini forse vivranno, ma subiranno alterazioni permanenti alle loro funzioni cerebrali. L'altra certezza è che per questo disastro non si può chiamare in causa come per l'Etiopia nell'84 la natura. Il fiume che avvolge la città è gonfio di piogge e i campi lungo il corso d'acqua sono clamorosamente verdi. La mappa della carestia segue invece quello della guerra. La interminabile fila di uma¬ nità dolente e affamata che abbiamo visto allungarsi senza sosta sul nastro d asfalto che porta a Beidoa, 250 chilometri a Nord di Mogadiscio, ripete una sola parola per spiegare il suo dramma: faqasha, faqasha. La sussurrano come una bestemmia, è il nome dei soldati di Siad Barre, il dittatore che dopo vent'anni è fuggito in un esilio dorato in Nigeria. Questo ubu somalo grottesco, rapace e feroce che l'Italia ha coccolato fino all'ultimo, oltre ogni logica e oltre ogni comprensione, aveva giurato: «Se io devo andare all'inferno, allora tutti verrete con me». I suoi soldati hanno mantenuto la promessa. Prima di ritirarsi verso i santuari in Kenya e in Etiopia, hanno distrutto, violentato, rubato. Ai contadini è stato portato via anche il seme per i prossimi raccolti, quello nascosto, come avviene da millenni, in piccole buche nel terreno. A marzo, i berretti rossi hanno tentato un'ultima offensiva per riconquistare quella che una volta era una importante base aerea. I resti della battaglia sono a due passi dai venti ricoveri allestiti per i profughi: quanto resta della caserma, del circolo ufficiali, della villa del governatore e di un paio di Mig arrugginiti e distrùtti negli hangar. Nell'Alto Giuba si semina tra marzo e giugno, ma su questa terra di nessuno i campi sono rimasti vuoti. Allora famiglie, villaggi interi si sono messi in moto senza nulla, verso la città alla ricerca di cibo. Una marcia della morte che nessuno potrà mai raccontare: in migliaia sono caduti sulla pista sfiniti. Una donna racconta di aver lasciato dietro di sé cinque figli, prima di arrivare al grande calderone dove bolle il cibo preparato dalla Croce Rossa. Le tragedie dell'Africa hanno il triste sapore della monotonia: sfogliamo il calendario e troviamo Biafra, Etiopia, Mozambico, Ruanda, Liberia, ora Somalia. Tragedie sempre firmate dagli errori della politica, e dalla lotta per il bottino. A Beidoa, a pochi metri dalle legioni degli affamati c'è il quartier generale della Use, il partito di Aidid, il generale che ha cacciato Barre, un po' Caudillo e un po' Cincinnato che contende il potere al suo rivale Ali Mandi. Sfilano i signori della guerra, circondati dai loro bravi in kalashnikov e Land Rover e gli intellettuali di questi partiti fantasma con valigetta 24 ore e orologio d'oro che discutono, stilano documenti sul futuro del Paese, la riconciliazione, i nuovi inevitabili modelli di sviluppo. Forse bisognerà avere il coraggio di salvare l'Africa a dispetto degli africani. Domenico Quirico LÀlto Giuba era il granaio di questo Paese delle spezie Oggi ha un odore nauseante di corpi affamati in agonia Bambini in coda per il cibo a Baidoa, dove domenica 30 persone sono morte in scontri per rapinare gli aiuti A fianco: un soldato bambino a Mogadiscio [foto afp e apj

Persone citate: Aidid, Barre, Biafra, Bob Geldof, Domenico Quirico, Siad Barre