POZZETTO Io & Cochi all'osteria delle gag

POZZETTO Io & Cochi all'osteria delle gag la memoria. «Eravamo così uniti che ci siamo sposati a pochi giorni di distanza» POZZETTO Io & Cochi all'osteria delle gag SANTA MARGHERITA DAL NOSTRO INVIATO «E la vita l'è bela, l'è bela...». Cantavano Cochi & Renato, una vita fa. Spiegando: «Basta avere "ombrela, ti ripara la testa, sembra un giorno di festa». Canzonissima '74: sono passati quasi vent'anni, e si vede. Cochi & Renato non ci sono più da tempo, adesso c'è Cochi (Aurelio) Ponzoni e c'è Renato Pozzetto. Destini diversi, il primo a Roma, a saggiare la via del teatro, del cinema difficile; l'altro ancora e sempre a Milano, a seguire i filoni aurei della nuova commedia all'italiana. Nel fastoso Hotel Imperiale, dove scorrevano le dola estati della Regina Margherita, Renato Pozzetto si è appena svegliato. Ha ordinato «un caffè americano, molto lungo, praticamente acqua» e ora aspetta in una sala del grande edificio art nouveau che domina l'insenatura fra Rapallo e Portofino. Sono le due del pomeriggio: «Sa, abbiamo lavorato in notturna. Sono andato a letto alle sei e mezzo». Con Ezio Greggio e Marina Suma è impegnato nella lavorazione di Infilici e contenti: una storia che si dipana fra Milano e la Riviera lip^pConJa, regia, di Neri Parenti. .Brunella, la moglie, gli.ha,lasciato 'ti,cellulare; ,> status symbol della vergogna, quello che il suo amico Andreasi chiama «il telefunin da piciu». «Però anche Felice c'è dentro: quando va per funghi se lo porta dietro, perché aspetta la telefonata della produzione, o del gallerista». E' molto assonnato, Pozzetto. Aspetta una telefonata dalla produzione e spera tanto che questa volta le riprese comincino prima. Ma è fatalista: «Ieri ero sul Lago Maggiore, poi a Milano, poi qui a lavorare. E oggi non so cosa mi riserva la giornata». («Non si sa mai, non si sa mai / quello che al mondo ti può capitar...», cantavano). Stanco ma in forma. E' reduce dalla Venezia-Montecarlo di offshore, con l'immobiliaristacampione motonautico Renato Della Valle, e prima del via è passato da Merano dal terribile Chenot. Una situazione da Sette chili in sette giorni, il film che ha interpretato qualche anno fa con Verdone. «Mi hanno messo alla frusta, ho perso cinque chili e mezzo. Lì tutti parlavano di cibo, è stata dura. Certo avrei preferito fare una settimana nelle Lanche a mangiare i tartufi...». Si ferma un attimo, con l'inconfondibile cadenza milanese meno accentuata che sullo schermo - avverte: «Faccio anche quello, eh!». E la gara? «Molto bene: abbiamo vinto tutte le tappe. Ma è stato faticoso, perché dà Venezia a Vibo Valentia il mare era agitato. A metà percorso abbiamo anche dovuto sostituire il secondo pilota, Gianfranco Rossi. Un colpo l'ha messo fuori uso, l'abbiamo sbarcato a Otranto. E qui succede un fatto... In porto lo circondano i carabinieri, gli chiedono i documenti, e lui naturalmente è senza. "Potrebbe anche essere un albanese". Ma se era appena sceso da un offshore megagalattico, aveva la tuta, il casco, il giubbetto di salvataggio...». Pozzetto ha la passione dei motori: «Dalla Formula 1 alla motozappa. Fin da bambino ritagliavo dai giornali le immagini delle macchine da corsa e le conservavo sognando di poterle toccare». Ha il gusto dell'awentu- ra: e fa uno strano contrasto con l'aspetto tranquillo e un po' sedentario da bambinone di cinquantanni suonati (ma chi lo direbbe?). Diverse partecipazioni alla Mule Miglia, al Rally delle Alpi, persino alla leggendaria Parigi-Dakar: «Una volta ci siamo fatti due notti in mezzo al deserto, finché è passato a ramazzarci il "camion-scopa"». Un attimo di pausa, squilla il telefonino) E' la produzione: dicono che le riprese sono sfittate, ricominceranno dopo le cinque. Pozzetta e "rassegnato: «Finisce che anche questa volta facciamo mattino». Vita dura. Nessun rimpianto per i vecchi tempi, per gli anni ruggenti di Cochi & Renato? Nessun rimpianto. «Io non conservo foto, ritagli. A differenza di molti colleghi non ho nemmeno le cassette dei miei film. Preferisco pensare al domani, o al tra cinque minuti»: in linea con l'aplomb da businessman che ormai guadagna più con le attività imprenditoriali che con la recitazione. Ma che c'entra con l'aria perennemente svagata a cui siamo affezionati, e che in decine di film ha fatto intenerire partner come Ornella Muti, Eleonora Giorgi, Laura Antonelli? Altro contrasto. Nessun rimpianto ma neppure rancori,.come a volte si era insinuato: «Io e Cochi abbiamo fatto quel che ci è capitato di fare. Ogni tanto ci sentiamo. L'anno scorso abbiamo partecipato a una trasmissione rievocativa di Mara Venier, c'era anche Jannacci. Veramente io non volevo andare, l'amarcord non mi eccita. Non sono d'accordo a riproporre cose ormai fuori del tempo». Anche se - alla fine lo ammette - al passato pensa ancora con simpatia. E allora via con i ricordi, per l'amarcord di chi quella felice stagione di comicità surreale se l'è goduta, e magari la rimpiange. In principio c'era l'osteria. «Artisticamente siamo nati 11. Milano, fine Anni 50-inizio Anni 60. Il nostro punto di riferimento era un'osteria di via Lentasio, l'Oca d'oro, dove si incontravano artisti già affermati e altri che poi avrebbero avuto successo. C'erano pittori come Lucio Fontana, Crippa, Frangimei, Piero Manzoni (quello delle merde d'artista). Spesso si prendeva la chitarra e si cominciava a cantare». Andò avanti così finché un avventore dell'Oca d'oro, il giornalista Tinin Mantegazza, aprì una galleria d'arte notturna che divenne mèta culturale e di passatempo. «Lì è stato il nostro primo cabaret non ufficiale, lì abbiamo incontrato Jannacci, Gaber, Maria Monti, Lauzi. Con loro abbiamo ufficializzato l'esperienza nel "Cab 64" (dall'anno di fondazione)». Cochi & Renato erano amici da sempre. «Ci siamo conosciuti da bambini a Gemonio, sul Lago Maggiore, dove eravamo sfollati per ì bombardamenti, e dove tornavamo tutte le estati per i quattro mesi di vacanze. Anche i nostri genitori erano amici». Poi gli studi, Renato si diploma geo metra, Cochi ragioniere: «Ai tempi del Cab 64 io ero in una ditta di ascensori, lui all'Alitalia. Ovviamente ci siamo dovuti licenziare quando abbiamo cominciato a esibirci anche di notte. Il lavoro ci teneva talmente uniti che io e Cochi, per non rinunciare agli impegni, ci siamo sposati a pochi giorni di distanza, con due ragazze che erano amiche, e con lo stesso abito da cerimonia che poi abbiamo usato nel cabaret, per non sprecare niente. Saranno 25 anni fa». Nel '66 c'era stato il grande salto al Derby Club, il locale dello zio di Abatantuono, Gianni Bongiovanni, crocevia del miglior cabaret di scuola meneghina. «Eravamo il "Gruppo Motore", responsabile della gestione artistica: con noi c'erano Toffolo, Andreasi, Jannacci, Lauzi». Soldi non ne giravano molti, ma non ci furono mai momenti di crisi: «I nostri colleghi che venivano da fuori Milano per risparmiare dormivano da noi: Lauzi da Cochi, Toffolo da me, Andrea- si da tutti e due. Alle dieci di sera si faceva la doccia e si andava al Derby. Finivamo al Derby e continuavamo nelle osterie, a cantare o a sentir cantare. Si tornava a casa la mattina alle sei e mezzo. Il lavoro ci dava la possibilità di vivere in modo coerente con i nostri interessi. La scena non era poi lontana dalla nostra realtà, era un riassunto del nostro modo di vivere, di pensare, di commentare i fatti. Fra noi c'era la stessa voglia di mettere un pizzico di umorismo, di surreale, in qualsiasi situazione». («Forse siamo ancora in tempo a salvare il mondo dalla serietà», cantavano). E poi c'era Gattullo. Il ricordo di Pozzetto si fa più nitido, il racconto più incalzante. Al bar Gattullo di Porta Ludovica la banda si trasferiva per lunghe ore neghittose: «Lo frequentavo da quando avevo sedici anni. Ci vado ancora adesso. I proprietari sono sempre gli stessi: fanno paste ottime, panettoni eccezionali». Quel luogo di delizie dol- ciarie, che non hanno mancato di lasciare tracce sui clienti più affezionati, era anche il laboratorio dove giorno per giorno prendeva forma un mondo parallelo di gag e invenzioni: «Per esempio, nel giorno di Milan-Inter non si diceva: vado al derby. Si diceva: andiamo alla comunione della nipotina. Da lì si sviluppavano delle situazioni, qualcuno addirittura veniva al bar la domenica mattina vestito da festa, con la medaglietta da regalare. I soprannomi: c'era uno che piaceva alle dònne e lo | chiamavamo Figaresio; io ero Tubo: perché già allora...». Renato si tamburella i fianchi e continua: «Un altro che si arrangiava un po' per vivere e aveva i capelli rossi si chiamava Gabola Red. C'era il giocatore di cavalli col padre in fin di vita, che diceva: "Papà è in dirittura". Qualsiasi cosa era uno spunto per ridere». Strana gente, al bar Gattullo. «Se uno tornava da un viaggio e si metteva a raccontare, non lo lasciavano andare avanti: c'era sempre qualcuno che si alzava, un altro che andava a telefonare, un altro che diceva: parto per Madrid. Non si poteva mai impostare un discorso, succedeva che ti piantavano li o magari si buttavano tutti per terra senza dire una parola». E' in quel clima che nascono tormentoni come «bravo, sette più», canzonette in puro nonsense come II piantatore di pellame (quello che «un giorno s'innamorò / d'una ragazza però / che coltivava paltò»), o lo sketch irresistibile di Come porti i capelli bella bionda. «L'abbiamo visto fare in modo quasi uguale in un'osteria dei Navigli da due tipi molto simpatici. Rudi e Elia si chiamavano. Ma loro lo impostavano con uno che cantava e l'altro che giocava a biliardo. Io invece raccontavo i capelli. Nessun plagio, non se la sono presa, eravamo amici». E il pubblico, come la prendeva? «Gli ambienti in cui ci esibivamo erano così ridotti che non c'era spazio per chi non era interessato. Il nostro era un discorso per pochi intimi, c'era una specie di complicità fra spettatore e attore». Poi vennero le prime esperienze in teatro, davanti a una platea più vasta. «Ci proponevamo il lunedì, giorno di riposo per le compagnie, davanti ai tendoni neri che coprivano le scenografie. Per noi restava un ventesimo del palcoscenico. Poli m tevamo portare in scena una sedia, la chitarra e basta: era una condizione disperata. Anche se poi questa abitudine di mirare all'essenziale mi ha aiutato nel seguito della carriera. Miravamo soprattutto al linguaggio, ai gesti. Ma i giovani venivano e si divertivano». I dirigenti Rai li notarono e venne la chiamata in televisione. Nel '68 parteciparono a Quelli della domenica, con Paolo Villaggio e Rie e Gian: «In Rai eravamo provvisori, avevamo un contratto settimanale che ci veniva rinnovato il lunedì sue cessivo a ogni trasmissione. Mi risulta che Terzoli e Vaime, gli autori, abbiano lottato molto per tenerci». Seguirono altri impegni in tv, i primi caroselli, le serate nei locali pubblici. I cachet salivano, e i due potevano togliersi qualche soddisfazione. «Cochi era un perfezionista, amava molto i vestiti. Si sentiva vicino al gusto inglese, andava a comprarsi le scarpe a Londra, sceglieva le cravatte con cura». Renato invece si presentò da Gattullo con una fiammante RollsRoyce cabriolet amaranto: «Così, per vedere le loro facce. Tutta automatica, me li immaginavo...». La capote si alza, la portiera si apre. Lui scende e tutti si buttano per terra: «Sono rimasto lì dieci minuti e poi sono andato via. Con la Rolls non sono più tornato». Cochi era il Poeta, Renato il Contadino: come nella trasmissione televisiva del '73. «Io ero quello che vedeva le cose in modo più animalesco, per cui le cose accadono non si sa bene perché». Erano gli anni seriosi in cui bisognava a tutti i costi «portare avanti un certo discorso» e Cochi & Renato cantavano la ricetta della Canzone intelligente: «Cosa ci vuole si sa / per far successo coti la gente / si stende il filo logico portante». Poi la consacrazione a Canzonissima nel '74, con Massimo Boldi-Vigorone in uno studio che simulava gli scantinati del Teatro delle Vittorie, da cui il terzetto spiava intimidito con un periscopio che cosa accadeva lassù. Come spesso accade, il culmine del successo coincide con la fine della formula. «Dopo dieci anni di lavoro in coppia, eravamo un po' incerti: continuare così rischiava di diventare un limite. In quel momento il cinema mi ha proiettato nel futuro». Nel '74 Renato gira Per amare Ofelia, un film di Flavio Mogherini con Giovanna Ralli; l'anno dopo, con lo stesso regista e con Magali Noèl, Paolo Barca, maestro elementare praticamente nudista, premiato con il David di Donatello. Anche Cochi si dà al cinema, chiamato da Alberto Lattuada per il problematico Cuore di cane. Renato perde un po' di nonsense, conserva un po' di surreale, diventa l'alfiere della comicità «nordista» che si oppone alla dilagante romanità. La coppia si scioglie («In privato ci siamo incontrati l'ultima volta un anno fa»), la vecchia banda non c'è più. «Jannacci non lo vedo da quattro anni, ogni tanto vado da Toffolo che ha la casa a Venezia e da Andreasi che sta nell'Astigiano e conosce i posti dove si mangia bene. Ma ognuno ha i suoi interessi». E Renato ne ha davvero tanti. I film, la casa di produzione, la compagnia di elicotteri, la catena di ristoranti messicani di cui è azionista, il nuovo locale che sta per aprire a Brera in società con Celentano. «Ma io sono rimasto lo stesso - dice -. Abito sempre a Porta Ticinese, vado ancora a Gemonio dove vivono i miei genitori». Anche la moglie è rimasta la stessa: è abbastanza raro nel suo mondo. «Cerco di vivere bene - conclude -. E se prendo l'elicottero per andare da un amico in Piemonte che mi stappa una bottiglia di vino e mi prepara i ravioli, per me è una festa, è meglio delle Seychelles». Basta avere l'ombrela, cantavano. E la vita l'è sempre bela. Maurizio Assalto «Cosi inventammo "la vita l'è bela", "bravo, sette più e "La canzone intelligente"». Battute diventate tic popolari Pozzetto premiato con Renato Della Valle (il terzo da destra) e gli altri compagni al termine dell'ultima Venezia-Montecarlo di offshore «Per salvare il móndo dalla serietà» on due ragazze che erano he, e con lo stesso abito da monia che poi abbiamo usal cabaret, per non sprecare te. Saranno 25 anni fa». l '66 c'era stato il grande al Derby Club, il locale delo di Abatantuono, Gianni giovanni, crocevia del mi cabaret di scuola meneghiEravamo il "Gruppo Motoresponsabile della gestione tica: con noi c'erano ToffoAndreasi, Jannacci, Lauzi». non ne giravano molti, ma ci furono mai momenti di «I nostri colleghi che venio da fuori Milano per rispare dormivano da noi: Lauzi ochi, Toffolo da me, Andrea- con i nostri interessi. La scena non era poi lontana dalla nostra realtà, era un riassunto del nostro modo di vivere, di pensare, di commentare i fatti. Fra noi c'era la stessa voglia di mettere un pizzico di umorismo, di surreale, in qualsiasi situazione». («Forse siamo ancora in tempo a salvare il mondo dalla serietà», cantavano). E poi c'era Gattullo. Il ricordo di Pozzetto si fa più nitido, il racconto più incalzante. Al bar Gattullo di Porta Ludovica la banda si trasferiva per lunghe ore neghittose: «Lo frequentavo da quando avevo sedici anni. Ci vado ancora adesso. I proprietari sono sempre gli stessi: fanno paste ottime, panettoni eccezionali». Quel luogo di delizie dol- ato Pozzetto in una immagine di anzonissima» a foto piccola agali Noél, al uo fianco nei film «Paolo rca, maestro elementare praticamente nudista» dere». 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