Sogni e sconfitte di un'isola tra fedeltà e ribellione

Sogni e sconfitte di un'isola tra fedeltà e ribellione Sogni e sconfitte di un'isola tra fedeltà e ribellione MILLE ANNI DI CONTRASTI Lm ITALIA * non ha mandato le sue truppe in Bosnia e ha meno soldati in Albania di quanti non ne abbia spediti nelle scorse settimane in Sicilia e in Sardegna per aiutare le forze di polizia a stroncare la mafia e il banditismo. La Spagna combatte i terroristi baschi con la guardia civil e la Francia non si serve della Legione Straniera per snidare i terroristi còrsi dai loro covi. Fra tutte le democrazie atlantiche siamo la sola, con la Gran Bretagna, che abbia deciso di usare l'esercito per ricordare ai propri isolani l'esistenza dello Stato. Forse qualche allievo del professor Miglio ci dirà nelle prossime ore che è meglio abbandonare la Sardegna ai sardi. Forse qualche intellettuale ci spiegherà che i due fenomeni di teppismo isolano a cui abbiamo assistito negli scorsi giorni sono in realtà i segni premonitori di un grande «vespro sardo», destinato a rimettere in discussione i rapporti dell'isola con lo Stato unitario. In questa prospettiva la leggendaria Francesca terrebbe la parte di quelle donne palermitane che i soldati angiovini pretendevano perquisire il 31 marzo 1282. La destra parlerà di una nuova «guerra del brigantaggio» fra le valli del Gennargentu e nelle vie di Palermo; la sinistra di sordo malumore contro la tirannia coloniale del continente. In questo turbinio di spiegazioni economiche, sociologiche e culturali rischiamo di perdere di vista il filo della realtà. Proviamo a ritrovarlo nella storia. Sardegna e Sicilia sono per le potenze europee, all'inizio del Settecento, «merce di scambio» e per Vittorio Amedeo II Savoia il gioiello di cui la sua corona ducale ha bisogno per diventare finalmente reale. Ebbe la Sicilia con la pace di Utrecht nel 1712, ma dovette cederla pochi anni dopo e accettare, l'8 agosto 1720, la Sardegna. A Torino lo scambio fu percepito come una sorta di retrocessione. La Sardegna era povera, turbolenta, arretrata, decisa a conservare i privilegi che i suoi selvatici abitanti avevano strappato, spesso formalmente più che sostanzialmente, ai loro vecchi padroni: i Vandali dopo la caduta dell'Impero romano, i Bizantini dopo le vittorie di Belisario sul regno vandalico, gli arabi dopo la conquista di Mugahid nel 1015, e poi i pisani e genovesi fino alla lunga signoria aragonese e spagnola dal 1323 agli inizi del '700. Quando passò, per volontà delle grandi potenze, dalle mani dell'Austria a quelle del Piemonte, l'isola aveva poco più di 250.000 abitanti e un triste passato di carestie, pestilenze, malaria, torbidi civili, improvvise fiammate di rivolta contro i viceré e gli esattori. Preferiremmo una storia lineare in cui il giusto e il torto sono chiaramente riconoscibili, in cui buoni e cattivi rimangono fedeli alle loro parti. Ma quella dei rapporti che la Sardegna ebbe da allora con il Pegno di Savoia e con il Regno d'Italia ha un andamento alterno e irregolare. Dal 1720 alla fine del secolo Torino rinnovò le università, costruì strade, introdusse nuove coltivazioni, bonificò paludi, creò forme di credito agrario. Non fu molto, ma fu certamente molto più di ciò che gli spagnoli avevano fatto nel secolo precedente. Quando i francesi tentarono di sbarcare nell'isola alla fine del 1792, i sardi resistettero meglio di quanto i continentali non avessero resistito sulle Alpi contro le truppe del generale Bonaparte. Ma quando Torino rifiutò di compensare la lealtà con il riconoscimento delle antiche autonomie, l'isola cacciò il viceré e insorse contro la nobiltà feudale. Questo non impedì ai re e alla corte di riparare a Cagliari allorché Carlo Emanuele IV dovette cedere ai fran¬ cesi tutti i suoi territori di terraferma. L'isola ribelle fu allora per quindici anni la casa ospitale dei Savoia. Da quel momento ribellione e fedeltà diventano volti complementari di una stessa vicenda. I sardi brontolano, protestano, insorgono contro la lentezza con cui Carlo Felice e Carlo Alberto rispondono alle loro richieste, esigono autonomia e ricordano con crescente fermezza, prima a Torino poi a Roma, l'esistenza di una «questione sarda». Da questo retroterra, nasce alla fine della Prima guerra mondiale il partito sardo d'Azione. Ma questa isola riottosa, scorbutica e cronicamente afflitta dalla piaga del banditismo è anche, al tempo stesso, un vivaio di soldati, giudici e funzionari «nazionali». Qui vengono reclutati i fanti descritti da Emilio Lussu in Un anno sull'altipiano. Da qui vengono le dinastie politiche, militari e amministrative dei Segni, dei Cocco Ortu, dei Berlinguer, dei Prunas, dei Marras, dei Corrias, dei Satta. Quale regione italiana può vantarsi di avere dato al Paese in poco più di cinquant'anni due Capi dello Stato (tre con Saragat che nacque a Torino, ma era di origine sardo-catalana), due presidenti del Consiglio, un premio Nobel, uno dei maggiori intellettuali comunisti del secolo, un giudice-narratore e una folla di ambasciatori, ministri, generali? La coppia fedeltà-ribellione è passata intatta dallo Stato monarchico allo Stato repubblicano. Dalla Repubblica e grazie alle condizioni economiche dell'Italia negli ultimi quarant' anni, la Sardegna ha avuto molto: la sconfitta della malaria tra il 1946 e il 1950 (sette miliardi d'allora, 143.000 giornate lavorative, milioni e milioni di litri di Ddt), lo statuto di autonomia, fondi per lo svDuppo industriale e agricolo, collegamenti rapidi con il continente, sviluppo turistico. Non sempre i denari dello Stato sono stati impiegati nel migliore dei modi e non sempre il «decollo» ha prodotto i risultati sperati. Dalle miniere di Carbonia al polo chimico del gruppo Rovelli la storia industriale della Sardegna si legge come una sequenza di successi e di errori. L'isola è più ricca di quanto non sia mai stata nella sua storia, ma i guasti ambientali, sociali e culturali sono più gravi qui, probabilmente, di quanto non siano in altre parti del Paese. Come è stato, spesso, osservato il «salto» dell'economia isolana dall'arretratezza di cinquant'anni fa alle sue condizioni attuali è stato troppo brusco. Banditismo e teppismo dimostrano che i sardi vivono ancora precariamente divaricati fra passato e futuro, e che molti di essi continuano a confondere la fedeltà con l'omertà, l'onore con il ripicco, il patriottismo isolano con il gretto localismo. La responsabilità di questo sviluppo ineguale è dell'amministrazione centrale, dei partiti, degli industriali spregiudicati e dei finanzieri avventurosi. Ma è anche dei sardi. Tocca ad essi in ultima analisi correggere i difetti «caratteriali» della loro isola e impedire che i loro teppisti si credano eroi. Sergio Romano Il «salto» dell'economia è stato troppo briisco creando gravi problemi Emilio Lussu (sotto) e, qui a fianco, Enrico Berlinguer e l'ex presidente Francesco Cossiga mm Vittorio Amedeo II (a destra). Sotto, una contadina con un militare. A sinistra, una scritta intimidatoria