«Noi e il sindacato, sulla stessa barca»

«Noi e il sindacato, sulla stessa barca» L'INTERVISTA CONFINDUSTRIA ANCORA ALL'OFFENSIVA Parla Luigi Abete: è finito il tempo della conflittualità, non possiamo più permettercela «Noi e il sindacato, sulla stessa barca» Occorre legare la crescita dei salari all'andamento delle aziende Invece una minoranza di sindacalisti vuole scassare il Paese ROMA. «Dicono che noi industriali, d'accordo col governo, abbiamo decretato la fine del sindacato. Si sbagliano. Se avessimo voluto questo, avremmo difeso la scala mobile. In una società regolata automaticamente sul terreno delle relazioni industriali e del salario, il sindacato non serve. Invece la scomparsa della scala mobile crea per il sindacato nuove opportunità d'azione. Purché tutti sappiano riconoscerle». Luigi Abete è finalmente tranquillo. Cosa rara, per lui. Aveva un'agenda superimpegnata già prima di sostituire Sergio Pininfarine alla guida della Confindustria. Appuntamenti a catena, da un congresso a un'aziendina, da un'intervista a un «vertice» politico. Dopo la nomina, è stato peggio. Abete si destreggia un po^trafelato ma puntuale, efficiente. Un toccasana, comunque, le brevi vacanze in Sardegna che si sta godendo in questi giorni e il successivo viaggio negli Stati Uniti che farà con i figli. In un'America pencolante tra recessione e ripresa, tra Bush e Clinton, tradizioni reaganiane e tentazioni laboriste, riassaporerà l'amara ma intensa gloria di aver affossato la scala mobile. Un primato che deve dividere con il presidente del Consiglio Giuliano Amato, il vero artefice dell'accordo per gran parte dell'opinione pubblica. Ma tant'è: Abete è giovane, e si accontenta anche di un primato ex-aequo. Lei, dunque, sostiene che il sindacato non è morto con la scala mobile. E allora come valuta la crisi della Cgil? Trentin rappresenta purtroppo l'insieme delle contraddizioni della Cgil. Da un lato ribadisce la necessità di una seria politica dei redditi, dall'altro dice che avrebbe voluto preservare la contrattazione integrativa: due obiettivi in contraddizione. I tetti dell'inflazione '92 e '93 sono ampiamente raggiunti dalla contrattazione nazionale e dall'integrazione garantita dall'ultimo accordo. Quindi il blocco della contrattazione è una diretta conseguenza della necessità, riconosciuta anche da Trentin, di fare una poUtica dei redditi seria. Ma Trentin dice che a pagare sono sempre e solo gli stessi, i dipendenti... E' inutile dire come fa lui che bisogna abolire l'anonimato dei Bot e abbassare i tassi reali. Prima bisogna creare le condizioni affinchè ciò accada. Se vogliamo effettivamente riequilibrare il valore reale degli interessi e se voghamo puntare a un'integrazione complessiva sul piano fiscale di tutte le entrate bisogna prima risanare i conti dello Stato. I forti interessi della rendita sono consentiti dalla disastrata gestione della finanza pubblica. E Trentin cade in un'altra contraddizione: confondere rendita e profitto. Si sostiene che la rendita, nell'attuale contesto economico, riceva un incremento reale dall'andamento dei tassi e si confonde questo elemento' con il risultato dell'impresa che avendo utili pari a zero e tendenze negative non solo non recupera gli interessi sul capitale ma subisce per di più un andamento economico negativo. Non crede che nella società italiana ci siano fortissime sperequazioni? Nella politica dei redditi progettata dal governo c'è l'obiettivo di riequilibrare la politica fiscale, come del resto l'impresa chiede da tempo. In questo contesto il problema che si pone al governo è far funzionare il fisco. Visto che esistono categorie con tassi di evasione molto alti, bisogna fare in modo che questi evasori vengano costretti a pagare il dovuto, non criminalizzare le categorie con il gioco delle «medie». La differenza tra la nostra posizione e quella di Trentin è che la discussione sui modi più idonei per il conseguimento di questo obiettivo non è oggetto della trattativa. Intanto paghino i dipendenti, poi si vedrà, dunque... L'ultimo accordo non grava unicamente sulle spalle dei lavoratori dipendenti. La politica dei redditi è comunque una linea strategica decisa dal governo e dal Parlamento. Di un negoziato sindacale possono essere oggetto i ruoli delle parti, non i diritti dei cittadini. A settembre sarà necessario verificare che farà il governo sul fronte fiscale, tutti ci attendiamo decisioni rapide e concrete. E' chiaro che il protocollo sui salari non prevede le modalità tecniche di questa nuova e più forte politica fiscale, ma questo è giusto. E anche su questo tema la recente intervista di Trentin all'Unità rivela le contraddizioni di una parte del sindacato. Quale parte? Quella minoranza della Cgil che, ancora oggi, ha come obiettivo scassare il Paese e far guerra con il padronato. La conflittualità diventa un fine per affermare se stessi, il proprio «io» politico. Non sta esagerando? Non direi. La lunga intervista di Trentin dimostra che la necessità di una riflessione sul proprio ruolo è percepita anche in quel comparto del sindacato che fino a tre anni fa, non dimentichiamolo, faceva riferimento a una società mitica e inesistente, caduta con una auto-dichiarazione di fallimento. E invece quale sindacato sogna? Un sindacato «giallo», asservito all'impresa? Io dico che il sindacato degli imprenditori e quello dei lavoratori hanno un comune fronte di im¬ pegno. In che cosa? Al Paese occorre un sistema di relazioni industriali imperniato sulla partecipazione, improntato alla collaborazione: così è possibile accompagnare le fasi di recessione per alleggerirle e agevolare quelle di sviluppo. Questo principio trova applicazioni diverse da Paese a Paese. Finora in Italia abbiamo avuto un sistema non regolato, caratterizzato da una diffusa conflittualità e non rapportata alle esigenze della competitività. Il sistema economico aperto nel quale invece l'Italia si trova ci obbliga ad una gestione simultanea dei principi della competizione e della collaborazione. Il nostro sistema di relazioni industriali è dunque oggettivamente superato perché non valorizza la collaborazione e non regola la competizione. Che fare, in concreto? Bisogna trovare un meccanismo per legare le retribuzioni ai risultati dell'impresa. A fronte di questo il sindacato deve trovare maggiori spazi di partecipazione, anche se non si tratta di un diritto acquisito per natura. Insomma: doveri certi, diritti eventuali... Fino a oggi nell'equazione costituzionale tra diritti e relativi costi, a fronte degli aumenti dei costi si è sempre scelto di raddoppiare l'entità dei diritti. Così facendo si è demolita la finanza pubblica, mentre uno Stato che funziona regola la tutela degli interessi individuah e quella degli interessi collettivi. Visto che il nostro sistema Paese vive in un quadro di competizione internazionale, se all'interno del corpo sociale si scatena il conflitto disordinato fra i gruppi, l'intero corpo sociale muore. E' l'apologo di Menenio Agrippa... le braccia in sciopero contro lo stomaco convinte a ritornare all'opera per il bene comune dell'organismo. Una formula di duemila anni fa, non le sembra un po' vecchia? Ripeto che c'è oggi identità di fini tra l'impresa che vuole produrre e un sindacato che abbia cultura, regole e comportamenti che tendano allo sviluppo. E al sindacato che ruolo lascerebbe? Quello di gestire la competizione sui mezzi e sulla distribuzione del valore aggiunto. Un valore aggiunto che, non dimentichiamolo, oltre a pagare il capitale e il lavoro deve andare a sostenere gli investimenti per lo sviluppo. Quindi questa revisione delle relazioni industriali modifica ma non abbatte il ruolo del sindacato. Un sindacato che si muove nella cultura della partecipazione ne assume gli obblighi ma anche i diritti: aumentare lo sviluppo industriale, l'occupazione e la qualità della vita. Un sindacato che invece, all'antica, si mi- stira sull'antagonismo, vive di scioperi e quantità di contrattazioni. E l'impresa che margini lascerà all'esercizio di questo nuovo ruolo? Da parte dell'impresa c'è già la cultura della partecipazione ma non la disponibilità a dare al sindacato aperture di credito in bianco. Noi imprenditori abbiamo da tutelare l'interesse delle imprese, anche se vogliamo perseguire le nuove regole della partecipazione e del coinvolgimento. Ci siamo mossi per primi: ora, con l'accordo sul costolavoro, siamo usciti da un vicolo cieco, da un imbuto, e siamo arrivati in un rondò dal quale si partono molte strade. Stiamo guardandoci attorno prima di imboccarne una; abbiamo idee chiare sui cartelli che indicano le varie direzioni. Ma poiché il traffico è intenso, per non rischiare incidenti bisogna ancora definire come muovere i primi passi lungo la nuova strada, insieme al sindacato, visto che il fine è comune. E il recente accordo sui salari cosa ha portato a questo nuovo ruolo del sindacato? Nell'ultima trattativa il sindacato ha ottenuto alcuni risultati importanti. Innanzitutto 20 mila lire il mese per tutti nel '93; e poi la conferma di alcuni impegni politici da parte del governo. Ora il sindacato può fare pressioni sulla classe politica affinché questi impegni siano tradotti in leggi e comportamenti pratici. Quindi ha visto tutelato il suo interesse economico e riconosciuto un suo diritto politico. E non va dimenticato che il blocco della contrattazione aziendale significa avviare un periodo di invarianza del salario reale che consente alle imprese di poter aprire una nuova strategia di sviluppo indispensabile per dare un impulso all'occupazione. Anche questo elemento è stato tra gli oggetti dello scambio complessivo. Una parte della Cgil sostiene che c'erano alternative praticabili... Non ce n'erano. L'alternativa, in teoria, sarebbe stata quella di conservarsi un diritto teorico di contrattazione aziendale, accettando però il rischio di un più alto costo del denaro, di un maggior pericolo di svalutazione, di una più alta conflittualità e di un nuovo crollo dell'occupazione. In definitiva una minore governabilità del processo di risanamento della finanza pubblica e di rilancio dell'impresa in un clima di conflittualità dannoso per tutti, perché numerose imprese avrebbero potuto essere costrette a cedere sul fronte della contrattazione interna, con gravi danni per il saldo occupazionale. E ora a cosa punta l'impresa? Bisogna tenere presenti tre fattori. Primo: l'industria italiana è composta da realtà molto eterogenee, piccole, medie e grandi imprese. E' impensabile individuare regole valide indistintamente per tutte. Di qui l'esigenza di trovare un sistema compatibile che riesca a realizzare un equilibrato coinvolgimento nelle realtà dove ciò è possibile. Secondo: questa nuova cultura del coinvolgimento deve introdurre principi di flessibilità del lavoro e del salario. Occorre dunque che si colleghi ima quota del salario, con regole da stabilire, alla redditività dell'impresa. Collegamenti del genere sono già stati istituiti da alcuni gruppi, più avanzati degli altri, partendo dal principio che il lavorare bene è l'obbligo di base per i dipendenti, e che il collegamento della retribuzione alla redditività aziendale sia legato alla capacità di andare oltre il corretto e produttivo espletamento delle proprie mansioni. Terzo: c'è da rivedere il concetto di competizione, evitando che la competizione sia fine a se stessa, concordando criteri oggettivi, e fissandoli in coincidenza con l'ambito dei diritti altrui, nella pluralità degli interessi presenti nel sistemaimpresa. Interessante. Ma non vorrà dire che adesso puntate a affossare anche lo Statuto dei lavoratori? Lo Statuto dei lavoratori sta bene dov'è. Certo, è stato scritto tanti anni fa, ma tutela più i diritti del singolo che gli interessi reali collettivi. E quindi? C'è un problema di equilibrio tra interessi che deve trovare sintesi nella funzionalità dello Stato. Uno Stato funziona quando ha cultura, regole e comportamenti. Ma essendo troppo lungo cambiare la cultura e difficile intervenire sui comportamenti, bisogna innanzitutto cambiare le regole. Nel caso delle relazioni industriali tutto questo è pienamente valido. Ma per cambiare le regole, e quindi ad esempio aprire al sindacato spazi di collaborazione, devo essere certo che la controparte condivida la cultura della partecipazione. Presidente Abete, parla soltanto come presidente degli industriali o sta candidandosi anche alla guida del sindacato dei lavoratori? Pensa forse di sostituire Trentin? Sono un imprenditore e tale resto, sono nato in fabbrica e quando ci torno mi trovo a casa mia. Non cambierei il mio ruolo con nessun altro. Anche se in un ruolo diverso sarei andato in vacanza assai prima. Sergio Luciano Bruno Trentin rappresenta tutte le contraddizioni della Cgil Una confederazione fino a tre anni fa ancora legata a utopie fallite La riforma fiscale è indispensabile ma non era oggetto dell'ultima trattativa A destra il segretario generale della Cgil dimissionario Bruno Trentin ITALIA - PRODUZIONE INDUSTRIALE [1982=100] 118-L A 117,1 i—i—t^"~i—r~1—i—i—i—i—i—i—i—i—r GFMAMGLASONDGFMAM 1991 1992 Nella foto grande Luigi Abete Nel grafico l'andamento della produzione industriale Nella foto a sinistra il presidente del Consiglio Giuliano Amato

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