Parliamone di Lorenzo Mondo

FACCETTA NERA E PALLE DI MENELIK Parliamone FACCETTA NERA E PALLE DI MENELIK miei ricordi sull'Etiopia italiana, quelli che mi toccano personalmente, si limitano per gli anni della conquista a una foto di giornale dove un mio zio - casco coloniale, torso nudo, sorriso smagliante - posava in mezzo a un gruppo di ascari. Quando fui in grado di chiedergli notizie su quella reliquia famigliare, non aveva più voglia di parlarne perché intanto si era già fatto la guerra d'Albania e, prima di tornare a casa, il giro dei Balcani. Nel frattempo avevo collezionato le figurine con fatti d'arme e costumi indigeni che uscivano ogni settimana dal tabaccaio. Sul banco di questo tabaccaio comparvero un giorno anche delle palline di liquerizia infilate su stecchini. Alle insistenti richieste su come si chiamassero quelle novità, se ne sbrigò con bruschezza: palle di Menelik. Poi venne il crollo dell'Impero, consegnato per me al ricordo di un tema scolastico sulla resa di Amedeo d'Aosta all'Amba Alagi: avanza il principe, diritto sotto il sole rovente, seguito dai suoi uomini laceri e affamati (era una copertina di Walter Molino a ispirarmi?) mentre gli inglesi, colpiti dal valore sfortunato, presentano le armi... Ricordi tenui come coriandoli, agitati dal ritmo allegro di una canzdner"Fat!cetta nera, bell'abissina - aspetta e spera che già l'ora si avvicina... Parole in cui l'omaggio formale al Duce e al Re non riesce a imbrigliare le illusioni e il brio di un'armata «sagapò». Che stranezza, adesso, sentire che qualcuno ha arrangiato la musica della canzone coloniale e ne ha fatto un successo da discoteca. Ti senti sospinto all'indietro sull'orlo di un soffice precipizio. Poi scuoti la testa e ti chiedi quanto sia scemo quel vecchio motivo, se proprio valesse la pena staccarlo dall'album della memoria rigattiere. Sembrerebbe la sola reazione possibile e invece senti che ci sono proteste scandalizzate, intimazioni, giudizi sconsolati, come se il nemico, quel nemico, fosse ancora alle porte. Scopri allora quanto siano vischiose e accecanti le passioni anche quando si confondono ormai con la cenere dei fatti che le hanno suscitate. Lo dimostra, per certi risvolti, la stessa polemichetta estiva che ha intrattenuto alcuni storici sulle crudeltà del colonialismo italiano, smascherando appunto la versione idillica delle parole di «Faccetta nera». Viene quasi da piangere sull'automatismo di commozioni così circoscritte, specializzate. Certo, è sproporzionato applicare a una canzoncina l'aforisma di Sklovskij secondo cui il colore dell'arte «non ha mai riflesso quello della bandiera che sventola sulla fortezza della città». Ma conterà pure la distanza che, senza annullare la precisione del giudizio storico, consegna uomini e avvenimenti all'immenso archivio del passato: dove, spogliati di pathos, più che alla politica e alla vita civile (la storia, notoriamente, non è maestra di vita) forniranno risorse all'immaginazione: quella di Shakespeare, che si esercita sugli antichi re di Britannia, e quella, si fa per dire, degli autori da discoteca che si impadroniscono di «Faccetta nera». E come trascurare, soprattutto, il. rumore della storia che ingoia e rivomita, nel suo farsi, sempre nuovi errori e orrori? Contro questi siamo chiamati, meno oziosamente, a difenderci. Pensiamo alla vicina Bosnia, pensiamo per stare alla «nostra» Africa allo sterminio per fame di milioni di persone in Somalia. Il resto è tempo perso. Aveva ragione il tabaccaio della mia infanzia, sono «palle di Menelik». Lorenzo Mondo

Persone citate: Amedeo D'aosta, Duce, Shakespeare, Sklovskij, Walter Molino

Luoghi citati: Africa, Albania, Etiopia, Somalia