Harrison e i Nomadi il fascino dei reduci

Harrison e i Nomadi il fascino dei reduci r I DISCHI Harrison e i Nomadi il fascino dei reduci FATTA alla retorica la dovuta tara gli eroi del rock si dividono in due schiere: i reduci e le vecchie glorie. I primi continuano a propinare per decenni le loro vecchie medaglie e diventano a volte patetici, gli altri ormai tacciono, si godono in un certo senso la pensione, magari ingegnandosi nel cercare ancora nuove strade sonore. Li separa un certo senso di dignità e un sano realismo. E tanto per dare un termine in più alla questione, perliamo comunque di persone che al massimo sono cinquantenni. Ben lungi dalle età pensionabili in vigore per i lavoratori. La suddivisione è esemplificata dall'attualità discografica. Quattro album. Per la squadra dei reduci entrano in campo George Harrison e i Nomadi. Sull'opposta trincea si siedono in pace Ry Cooder e i Doobie Brothers. Cominciamo dal baronetto George Harrison. Il terzo dei Beatles non ha mai dimenticato il suo passato glorioso. Anzi, più passa il tempo più gli sovvengono i ricordi di gioventù e ignora cosa ha mangiato da colazione. In una confezione nera presenta il suo «Live in Japan» (Warner Bros., 2 Cd, Lp, Me). Un disco piacevole, ma datato. Diciannove brani dal vivo, di cui un terzo risalenti ai tempi degli Faboulous Four. Certo si presentava ad un pubblico lontano, ma comunque Harrison non ha molto da spendere oltre la farina dei suoi inizi di carriera. Curiose scelte d'un tempo («Piggies», «Taxman», «Here comes the sun», «Cloud 9»), un omaggio a Chuck Berry («Roll over Beethoven»). In mezzo i suoi cavalli: la gradevole ma ipnotica «My sweet Lord», l'energica «Devil's radio», la fresca «Got my mind set on you». Pur coadiuvato da personaggi come il batterista Steve Ferrane e dalla fraterna chitarra di Eric Clapton, il tono in tutto il disco è un po' molliccio. Harrison gran voce non ha, per cui questo dato condiziona. Inevitabile il paragone con un'analoga Operazione Nostalgia compiuta da Paul McCartney con «Tripping the live fantastic» e «Choba in Cccp». Ben altro piglio, voce e nerbo. Resta comunque un disco appetibile, curioso, piacevole e musicalmente valido. Il tono da reduce però toglie brillantezza. Torniamo in Italia ed ecco reduci chiamati Nomadi. Titolo del long playing (Cgd) da incrollabili idealisti in lotta«Ma noi noi» (notare il punto esclamativo). Disegno: una stretta di mano modellata a tronco d'albero ancorato asassi. Achille Occhetto la sua quercia almeno l'ha fatta con più fronde. Fanno tanto spe ranza. E il disco? E' l'antologia completa in versione digitale per festeggiare i 30 anni di carriera. La data fatidica è nel '93, ma i Nomadi non hanno resistito al reducismo. E allora di seguito 16 canzoni dall'epoca beat: in testa il coscienzioso ribellismo di «Come potete giudicar», l'ecologista ante litteram (onore al merito) di «Noi non ci saremo», la rabbiosa «Dio è morto», l'ancora poetica e bellissima «Per fare un uomo». E via con le meno famose fino agli «Aironi neri». Una cavalcata interessante ma che purtroppo ha netti i segni del tempo. Da non mettere sicuramente a confronto per spirito di ideazione sono due antologie storiche, operazioni da imputare più ai discografici che agli autori protagonisti. «The best of Ry Cooder» (Warner Bros., 1 Lp) probabilmente parte da voler sfruttare la bella, grintosa «Ali shook up» usata come sigla per la trasmissione televisiva «Notte rock». La raccolta non è particolarmente azzeccata, con numerose canzoni del periodo country di questo eccezionale esponente del bluesrock americano. Fa salire il desiderio di un suo nuovo segno discografico, dopo quel brillante «Get rhythm» di qualche anno fa e alcune apparizioni in supergruppi di stelle del rock. Ecco però un artista che non ha mai ceduto a dormire sugli allori. La sua ricerca ha spaziato dal jazz al tex-mex alla musica hawaiana. Sempre con risultati suggestivi per autenticità e scrupolosità del restauro. Un artigiano virtuoso e non vanaglorioso. Altra antologia e altri ricordi: «The best of Doobie Brothers» (Warner Bros., 1 Lp). Il loro è stato un ibrido storico: tradizione vocale californiana e stile progressivo per un funky boogie maschio ma rilassato, per cantare le gesta di rudi proletari di provincia. Poca creatività ma molta atmosfera. Qui manca l'infuocata «China grove», per il resto c'è tutto il loro gustoso e limitato carnet (da «Long train runnin'» a «Black water»). Sono spariti ed è curioso rincontrarli senza ridondanti occasioni. Alessandro Rosa isa^J

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