Sfidati da Dubuffet genio provocatore

Sfidati da Dubuffet genio provocatore Nizza, la carriera di un protagonista raccontata da 135 opere che tenne per sé Sfidati da Dubuffet genio provocatore NIZZA DAL NOSTRO INVIATO Anche il provocatore Dubuffet (1901-1985), rivoluzionario maestro dell'Art Brut, era sceso da Le Havre, sulla Manica, dov'era nato, prima a Parigi (1918), poi a Vence (1955), sulla Costa Azzurra - dove per un decennio fece lunghi soggiorni attratto, come Renoir e Bonnard, Matisse e Picasso, dall'impareggiabile luce mediterranea. E non è il caso di stupirsene, se quella stessa luce ha continuato a esercitare il suo fascino anche su esponenti del Nuovo Realismo e del Gruppo Fluxus. La mostra «I Dubuffet di Dubuffet» (fino al 30 agosto) nel nuovo Museo d'arte Moderna e. contemporanea di Nizza - dove rimarrà invece aperta, fino al 27 settembre, quella su «Il Ritratto nell'arte contemporanea» - ha dunque anche una particolare motivazione, che le è valsa il patrocinio del Consiglio delle Alpi Marittime, cui si deve anche il catalogo (Maeght Editore) della rassegna organizzata dal Museo di Arti Decorative di Parigi al quale appartengono le opere esposte. Sono centotrentacinque pezzi della folta donazione fatta dall'artista al museo parigino nel 1967: un sorprendente insieme di ventun dipinti a olio, centotrentacinque disegni, sette sculture e settecento stampe. Una scelta essenziale, dunque, offerta dall'artista rispetto a una produzione che fino al '65 si calcolava in circa 1650 quadri, 1000 guazzi e un'infinità di altri lavori. Ma erano opere che, fino allora, Dubuffet aveva voluto tenere per sé, e che bastavano per delineare un compiuto panorama, suggestivo e inquietante, come la figura stessa del loro autore che - pur avendo alternato, a tratti, l'arte e l'attività paterna del negoziante di vini vien posto tra i protagonisti assoluti dell'arte dell'ultimo dopoguerra. Non s'è infatti mancato di apprezzare l'originale suo mondo visivo, senza più vincoli naturalistici, e quel segno «Brut», che si è svolto in parallelo, ma in piena autonomia, e più spesso ha anticipato le esperienze dei Neuen Wilden tedeschi e dei neograffitisti americani. Si dice Dubuffet e subito si ricordano i suoi stralunati dipinti comparsi a Parigi nel '44, alla prima «personale» da Drouin: i Nudi e le Bagnanti sulle rocce che fanno pensare a dei coloratissimi disegni infantili; i Paesaggi quasi incisi sui fondi color lavagna, e i Ritratti sbilenchi, ma riconoscibili (di poeti e scrittori, qui da Paulhan a Henri Calet, ma anche più noti, da Artaud a Michaux). Vennero poi i gruppi di personaggi delle Marionette della città e della campagna: vie gremite di passanti e la gente in metrò; ciclisti per strade di campagna o al mare. Poi i paesaggi con alberi d'ogni colore, case e mucche: insomma, la realtà vista con un'immediata concretezza che l'aveva portato ad affermare: «Quel che m'interessa non sono i dolci, è il pane». Per gruppi tematici la mostra stessa si sviluppa, una parete dopo l'altra: con le Teste di profilo e di faccia, e altri ritratti dove fissa soprattutto quel che l'ha colpito, eccitandolo. Seguono le immagini riportate da un soggiorno in pieno Sahara. Il «suo Sahara»: quello dalle oasi con figure, ch'egli ha «in testa, e null'altro lo interessa»: tra sabbie dorate sotto un sole che non si vede, i cammelli bianchi, i verdeggianti palmizi con gli scorpioni. Convinto che «la funzione dell'arte non sia di rappresentare le cose come le vediamo, ma come le pensiamo», i suoi Corpi di donna (dipinti tra l'aprile del '50 e il febbraio 1951, come nel '54 accadrà con le Vacche} hanno teste piccole, e membra ipertrofiche, in cui lo sbrecciato segno largamente contornante fa posto alle più minuziose indagini anatomiche, mentre nell'immagine esterna - seno piccolo e spalle larghe - s'annidano gli or¬ gani interni, visceri e sesso, come certi aspetti metafisici possono sovrapporsi al grottesco e al triviale. Dubuffet ne era pienamente consapevole. Così come fin dai primi Anni 50, doveva essersi reso conto che i protagonisti dei suoi quadri (egli stesso l'aveva detto), vivevano «d'una vita singolare, a mezza strada tra l'esistenza e la non-esistenza». Come i Paesaggi grotteschi (1949) e i Paesaggi ardenti (1952) nei quali la natura lascia intendere le più sofferte sue manifestazioni fino a quelle inaridite composizioni e decomposizioni della terra da leggersi in chiave di mortali premonizioni. Anche allora, tuttavia, non mancò l'evasione: in una quarantina di grandi disegni a china, intitolati Cristallizzazione del sogno (1952), immagini struggenti che sembra continuino nella variegata ricchezza cromatica dei nuovi Piccoli personaggi costruiti con trasparenti ali di farfalle. Le pagine di Dubuffet a volte fanno sentire il suo bisogno di rappresentare la costipazione dei centri urbani, violati del traffico: con un disegno pittorico inciso nel vivo dell'impasto cromatico, ma con un'approssimazione e una libertà con le quali soltanto un uomo della sua solida formazione, e informazione, sarebbe riuscito a scioccare il mondo intero, sposando il «gusto» dei non iniziati. Per lui l'arte era diventata «un totem all'incrocio di molte strade. Mai (spiegare sarebbe esaurire), mai totalmente decifrata». Ma aveva anticipato: «Un'opera d'arte non deve avere un significato limitato... ma un gran numero di significati...». Nessuno più di Dubuffet, d'altra parte, seppe rivendicare all'artista la più ampia libertà espressiva di fronte a un'umanità che doveva ormai riconoscere nell'alienazione come nell'Art Brut le più vigorose sue manifestazioni della vita e dell'arte del nostro tempo. Il pittore, che si salva dipingendo una Topografia di sette pietre, le Topografie e le Texturologie (realizzate prima a Parigi poi a Vence ancora nel '57), dimostra come anche il più semplice terriccio possa acquistare un suo espressivo senso estetico e spirituale: come certe immagini «zen» dell'arte americana, inglese o giapponese. Ancora un passo e, nel '60, approdò alle Materiologie e alle loro «alte paste». Poi l'«Hourloupe» che - come si vide anche a Torino nel 1978, fu insieme un mondo con la sua progenie, ma anche il «logo» cui Dubuffet affidò ogni sua epifania. Egli sapeva benissimo di non dover render conto del suo operato né ai mercanti né ai critici d'arte, pur affidandosi alla diversa loro mediazione. Ed è sui più alti pennoni della cultura visiva del nostro tempo che, per ampio tratto, ha continuato a sventolare l'insegna dell'Art Brut, che non significò né «rozza» né «grezza», avendo voluto, Dubuffet, rivendicare proprio ai «valori selvaggi» e alle forme non-acculturate - ma pronte, come le sue, a sfidare 1'«asfissiante cultura... omologata») - l'irrinunciabile senso di verità che è in ogni autentica manifestazione d'arte. Angelo Dragone Stregato dal sole di Vence catturò la luce mediterranea la donò al Nuovo Realismo trasformò la cultura visiva t e Sopra, le provocazioni de «L'Hourloupe» di Dubuffet, tra arte, materia e spettacolo Qui accanto, la sua «Femme assise au fauteuil» (matita su carta, 1942) Sotto il titolo, l'artista ritratto nel 1964 a Parigi, mentre esce di casa Fu un protagonista assoluto dell'arte nel dopoguerra, ma a tratti si occupò anche dell'azienda paterna, facendo il negoziante di vini

Luoghi citati: Le Havre, Nizza, Parigi, Torino, Vence