Nelle oasi dell'industria ricca l'ansia di una crisi annunciata di Zeni

Nelle oasi dell'industria ricca l'ansia di una crisi annunciata Brianza, Emilia, Biellese: anche qui l'autunno sarà duro Nelle oasi dell'industria ricca l'ansia di una crisi annunciata IL BUIO OLTRE MILANO. Non si salvano neppure loro, le isole felici, capitali finora indiscusse di un'Italia industriale sinonimo di boom. Carpi, Sassuolo, Biella, Vigevano, Valenza, Bassano, Valdagno... I nomi sono noti. Inedita è la crisi arrivata anche qui, nelle cittadelle di un benessere conquistato a colpi di scarpe e piastrelle, tessuti e vestiti, occhiali e catenine d'oro, insomma del «made in Italy» esportato in tutto il mondo. Eh sì, anche qui, nelle isole felici, si aspetta l'autunno con l'ansia di chi teme l'aggravarsi di una crisi che sembra proprio non aver risparmiato nessuno. Non la Brianza felix. Non il Veneto opulento dove arrancano anche roccaforti come Vicenza, il terziario avanzato di Padova e la Treviso che non è solo il regno di LucianosBenetton. E nemmeno dalla Padania, terra di prosciutti e formaggi, dalla «Food Valley» che va da Parma a Reggio, arrivano segnali di contro-, tendenza. Certo - fanno sapere dal palazzotto secentesco che fu dei principi Soragna gli uomini dell'Unione industriale di Parma - i Balilla, i Tanzi, vanno come dei treni: ma gli altri, i piccoli, come se la cavano? Il test di settembre non ammette grandi eccezioni. La crisi colpisce, forse per la prima volta indistintamente, grandi e piccoli. Morde nelle grandi città dell'industria, morde nell'Italia del «piccolo è bello». Le previsioni d'autunno circolano drammatiche: 60 mila tagli nelle costruzioni, un totale imprecisato nel meccanico, addirittura una catastrofe 200 mila? 400 mila in meno? - nel tessile. E le capitali dell'ex boom tremano trincerandosi dietro una crisi a macchie di leopardo che qui c'è e là meno, qui si manifesta in un modo, là in un altro. A Sassuolo, capitale dell'Italia che fa piastrelle, la Sassuolo dell'Iris e della Marazzi, telefonini e Bmw vanno ancora di moda, simboli di una ricchezza intatta. A prima vista, è cambiato poco. Non si vedono fabbriche chiuse, non si ha notizia di licenziamenti. Solo qualche funzionario di banca, in amicizia, rivela quello che telefonini e Bmw tentano di camuffare, uno stato d'allerta impensabile tempo fa: «Non c'è azienda che non stia facendo i conti con una seria diminuzione degli ordini, dei fatturati e quindi dei profitti». Preferiscono la Mercedes i ricchi brianzoli. Ma da un po' di tempo di Mercedes se ne vedono poche scorrazzare tra Monza e Seregno, Desio e Vimercate. Il quadrilatero d'oro della Brianza felix vive tempi difficili. L'allarme è scattato tra ferie anticipate e allungate per evitare nuova cassa integrazione e nelle fab brichette, quelle dove la gente lavora 10 ore filate e se può fa straordinari da un milione il mese, sono fioccati i licenziamenti: non è solo il sindacato ad ammettere una situazione difficile in settori tradizionali come il meccanico o strategici come quello delle macchine utensili. Anche i funzionari dell'Aimb, l'Associazione industriali di Monza e Brianza, rivelano numeri imprevisti dalla loro palazzina che fronteggia il parco e l'autodromo: calo degli ordini, rallentamento dell'export, profitti in crollo. «Dobbiamo fare i prezzi dei nostri concorrenti, ma abbiamo costi due volte più cari: come facciamo a resistere?», si chiedono all'Aimb. E c'è già chi dà per certo che a settembre nella Brianza felix riappariranno le bandiere rosse fuori i cancelli delle fabbriche costrette a licenziare. Eccesso di pessimismo? «Purtroppo no», è la risposta dei responsabili locali della Lega lombarda che, agguerriti come mai, precisano: «Le bandiere fuori le fabbriche saranno le nostre, bianche e rosse». Via dalla Brianza, ecco le cittadelle del tessile. Prato che piange. Biella che non ride. E' dura la crisi, a Prato, cominciata qualche anno fa con la fine del prodotto pratese per eccellenza, il cardato, quel tessuto di lana povera, riciclata, che è stato messo ko dai trapuntati che costano meno e fanno più moda. Ma adesso, ci si chiede, che cosa succederà? «Peggio di così non potrà andare», si consolano con un pizzico di sarcasmo gli uomini della Camera del lavoro. E Biella, l'antica concorrente? «Riusciamo a difenderci a denti stretti», è la risposta di Federico Trombini, segretario aggiunto della Cgil biellese, e di Claudio Prelli Bozzo, vicepresidente dell'Unione industriali. Certo, a Biella, la disoccupazione è metà di quella nazionale. Ma che fatica. E quante vittime illustri. Il lanificio Modesto Bertotto, vecchio di storia e di tradizioni? Costretto a licenziare. La Roj? Passata agli svedesi del gruppo Irò. La Tinval, la più grossa tintoria della zona? Chiusa in quattro e quattr'otto. Il gruppo Bertrand? Dissolto. La Guabello? Ceduta alla Marzotto. La Lane Grawjtz? In concordato preventivo. E per fortuna che i big tengono, chi bene come la Fila, chi benino come Loro Piana ed Ermenegildo Zegna. «Il siste ma Biella regge - spiegano imprenditori e sindacalisti - grazie a una strategia che ha privile giato la qualità del prodotto laniero più che la quantità». Il dramma, ammette Prelli Bozzo, «è che i prezzi sono quelli di tre anni fa ma i costi sono aumentati del 40%». Con i concorrenti, turchi, spagnoli, portoghesi, te deschi dell'ex Ddr, ungheresi, pronti ad approfittarne. Nella fi latura, dove è già successo, è stata una strage: hanno chiuso in tanti, da Crosa, la più nota, al la Bracco, alla Mimosa. Vietato illudersi, neppure Biella è un'i sola dorata. Ma dov'è, ormai, un'isola felice? Armando Zeni Nella foto' grande un'immagine di un'azienda tessile di Biella. Sulla destra Raffaele Morese