PUPETTA Amore e sangue a Malanapoli

PUPETTA Amore e sangue a Malanapoli un luogo, una storia. Ha 20 anni, le uccidono il marito, si fa giustizia. 1959: al processo è un'eroina PUPETTA Amore e sangue a Malanapoli NAPOLI DAL NOSTRO INVIATO L'ultimo arresto di una killer della Malanapoli è del 18 giugno scorso. Inseparabile dalla sua 38 Special, era una latitante supersegnalata. La notte che i carabinieri l'hanno scoperta, in quel Bronx che è il Rione Traiano, ha detto: «Fate piano, mia figlia non deve capire. Ha solo tre anni». Secondo gli inquirenti è una camorrista «capace di qualsiasi azione delittuosa, particolarmente impegnata in quelle che richiedono l'uso delle armi». Nel carcere femminile di Pozzuoli è entrata con passo spavaldo e una imponente chioma corvina: si era tinta i capelli due giorni prima, nella speranza di continuare a «lavorare» in libertà. Si chiama Cristina Pinto e ha 22 anni. Era ancora più giovane di lei la prima donna-killer nella Malanapoli del dopoguerra: nel '55, quando diventò un'assassina, Pupetta Marasca aveva vent'anni. Ma lei aveva ucciso per amore e per vendetta, per spavalderia e perché farsi giustizia da sé era la regola del suo mondo. Per questo divenne «donna d'onore». Aveva affrontato il guappo che riteneva responsabile della morte del marito, Pasquale Simonetti detto «Pascalone 'e Nola», e sul posto dello scontro si contarono trenta proiettili. Agi in pieno giorno, a viso scoperto, incinta di sei mesi. Quando vide a terra il suo nemico, andò in ima strada laterale e si rassettò le vesti. Chiamò un taxi e si fece portare al cimitero di Palma Campania, dove coprì di fiori la tomba del marito. Poi scappò e voleva rimanere latitante almeno finché non nasceva suo figlio: così disse ai giornalisti che, bendati, erano stati portati nel suo rifugio per un'avventurosa conferenza stampa. Ma fu arrestata e Pascalotto nacque a Poggioreale. Fu amata come un'eroina. Un suo autografo valeva anche mille lire. Un lumino ardeva sempre davanti alla sua foto nei bassi di Castellammare di Stabia, il paese dei Maresca, camorristi in piena attività di servizio che si tramandavano come un titolo nobiliare il soprannome di «Lampetielli» (abili come il lampo nell'avere idee e maneggiare armi). Ci volle un servizio d'ordine speciale per contenere la folla al suo processo, nel '59. E lei, in aula, quando il pubblico invocava «Pupe, Pupe, bella!», si girava sui tacchi a spillo agitando un fazzolettino bianco e scostandosi dal viso la cascata di capelli corvini. Pochi sembravano sottrarsi al suo fascino. Nella sentenza di rinvio a giudizio il giudice istruttore aveva scritto: «Questa donna, che con i segni del lutto, e il peso di una maternità quanto mai tormentata, ritiene di ergersi a vindice della soppressione del proprio uomo, non può che fare fortemente meditare e rendere più acuto l'interrogativo incalzante sul motivo del suo gesto, soprattutto considerando che si tratta di una giovane nel fiore degli anni, che è sicura di bruciare il proprio avvenire, la propria libertà, la felicità del suo nascituro!». Era il tempo della sconsiderata amministrazione Lauro. Napoli era devastata da una speculazione edili zia incontenibile. All'antica miseria dei bassi veniva ad aggiungersi l'orrore delle nuove periferie-ghetto. Il clima in città era tale che uno dei legali di parte civile, l'aw. Augenti, chiese il trasferimento del processo. La madre di Pupetta, Dolorinola, distribuiva in aula la foto della figlia. Il padre, don Antonio Maresca («elemento socialmente pericoloso» secondo la polizia), mostrava la sua ultima lettera: «Le notti in carcere sono interminabili. Penso al mio sposo e mi sento malinconica». Quella storia d'amore e di sangue entrava nei fotoromanzi, nelle canzoni, nelle sceneggiate. In Corte d'Assise le signore arrivavano con i binocoli. Scrittori come Domenico Rea, cineasti come Ettore Giannini e Ugo Pirro non si perdevano un'udienza. Il processo fu come una grande rappresentazione teatrale. Pupetta - imputata e parte lesa aiutò a definire la figura di Pascatene 'e Nola, boss emergente nel settore del contrabbando e delle estorsioni. Vennero in scena le gerarchie - dai cumparielh ai mammasantissima - della camorra. Si fece luce sui mille rivoli dei commerci illegali da cui traeva di che vivere tutta una fetta della città legale. Si capì in quanti frammenti la criminalità fosse frantumata. Si capirono i retroscena di certi affari: i metodi di concorrenza nel settore ortofrutticolo, i soprusi di cui erano vittime i contadini, le crudeltà imposte dalla malavita. Era la Malanapoli Anni Cinquanta che dava spettacolo. Con una miriade di interpreti. Con gli avvocati come primattori che facevano piangere, indignare, aizzare, stramazzare. Il grande De Marsameli usciva dall aula inseguito dagli allievi e estimatori che volevano baciargli le mani. Di Giovanni dava manate sul banco e contro l'aria, facendo ruzzolare penne, matite, bottiglie d'acqua minerale. Foschini se la prendeva con il presidente e la sua cortesia verso «la signora Maresca»: «Presidente, io non vedo qui nessuna signora. Ci sono solo imputati!». Ma la protagonista indiscussa del lungo show fu sempre lei, Pupetta. Francesco Rosi le aveva dato la faccia bella e intensa di Rosanna Schiaffino nel film La sfida, che raccontava lo scontro fra clan rivali per il predominio nel mercato ortofrutticolo di Napoli. Anche Pupetta era bella, bruna, i lineamenti carnosi, il corpo che già annunciava la pinguedine cui era destinata. Quando aveva conosciuto Pascatene e' Nola aveva 17 anni e i capelli raccolti in una grande treccia. Allora era stata eletta Miss Rovigliano, e aveva vinto una coppa piena di cioccolatini. Il matrimonio fu celebrato nell'aprile del '55. Un matrimonio d'amore. Per Pasquale Simonetti, che s'imparentava con un mammasantissima come don Antonio Maresca, era anche un salto di qualità. Ebbero in dono decine di milioni. Gli invitati erano centinaia. Si ballò fino alle 5 del mattino. Pascatene - un metro e novantaquattro di stazza, le mani con le grosse dita da contadino sul ventre - era in doppiopetto nero, con cravatta d'argento lucida, fazzolettino bianco a quattro punte nel taschino della giacca, un grosso brillante al mignolo, un enorme orologio d'oro al polso. Pupetta era tutta in bianco, raggiante e incinta. Dopo le nozze, gli sposi fecero una puntata al santuario della Madonna di Pompei: davanti all'altare, Pascatene fece scivolare nelle mani della moglie la sua pistola. Una solenne promessa e un giuramento: l'impegno a incominciare una vita nuova. Che però non incominciò mai. La mattina del 16 luglio 1955 in corso Novara, una delle movimentate strade del quartiere Vasto, c'era anche Pascatene. I suoi affari non andavano benissimo. Si era appena riconciliato con il più autorevole dei mediatori, «Totonno 'e Pomigliano», Antonio Esposito, di cui già era stato rivale e poi socio. Ma la vecchia ruggine fra loro non era stata del tutto superata. Pascatene però era ugualmente allegro quel giorno, e sicuro di sé. Passando davanti alle ceste di donna Rosa, «la verdummara», quasi sovrappensiero prese un'arancia: donna Rosa se ne sentì onorata e gli diede un coltellino perché la sbucciasse. Fu allora che Pascatene si vide davanti Gaetano Orlando detto «Tanino 'e bastimento», un giovanotto smilzo con la fronte sporgente. Vestiva un abito nuovo, scuro, con i righini bianchi. Glielo aveva regalato il giorno prima il suo compare, «Totonno 'e Pomigliano»: quel vestito con le «righe di gesso» era la divisa da guappo, il riconoscimento ambito da anni. Si guardarono negli occhi. Si dissero parole rapide che nessuno dei presenti volle o potè sentire. Il primo sparo colpì Pascatene al braccio. Cadde a terra, con la mano sulla pistola infilata nella cinghia dei pantaloni. Morì il giorno dopo in ospedale. Il suo matrimonio era durato ottanta giorni. Gaetano Orlando si costituì. Con Pascatene, si disse, moriva l'ultimo guappo cortese. Sapeva usare la pistola e il coltello, fare sgarri e mandare minacciosi avvertimenti ai rivali. Conosceva già la galera. Ma era considerato un delinquente d'altri tempi, con una sua vena romantica. Si raccontava che era un difensore delle vergini offese. Se uno non voleva più sposare la fidanzata, lo mandava a chiamare e gli diceva: «Giuvinò, debbo spendere centomila lire per voi. Le volete in contanti come regalo di nozze, o in fiori sul carro da morto?». La sua Browning non fu trovata, e alimentò un'altra leggenda. La sera stessa in cui morì, un cumpariello l'avrebbe portata alla vedova dicendo: «Forse toccherebbe a me farne uso, dato che la morte di Pascatene merita vendetta. Ma voi dovete decidere, donna Pupetta». Pupetta avrebbe preso la pistola e pronunciato queste parole: «E' mia. Se qualcuno dovrà vendicare Pascatene, è affare che riguarda me soltanto». Pupetta aspettò tre mesi prima di farsi giustizia. La mattina del 4 ottobre, insieme col fratello Ciro che aveva sedici anni, prese un tassì a Castellammare e si fece portare a Napoli proprio là dove il marito era stato ucciso, fra corso Novara e via Palermo. La 1100 nera si fermò davanti al bar dove stava «Totonno 'e Pomighano», l'ex socio-rivale di Pascatene. Solo quando vide la faccia di Pupetta, Totonno si rabbuiò. Scambiò qualche parola con lei, tentò di fare un passo mentre estraeva dalla tasca posteriore la sua pistola. Fu preceduto. Il primo colpo sparato da Pupetta lo raggiunse alla gamba sinistra. Totonno vacillò, si appoggiò al muro e incominciò a sparare, anche se era già a terra con la vista annebbiata. Pupetta era una furia, i capelli neri al vento, la gonna di panno nero che le si gonfiava intomo al corpo appesantito dalla gravidanza, la pistola puntata. Totonno strisciava contro il muro arrossandolo di sangue. Era crivellato di colpi. Sempre con l'arma in pugno Pupetta si fece largo fra la gente. Nessuno tentò di fermarla. Solo quando fu lontana, qualcuno portò aiuto al «capo», ormai moribondo. Sparò da sola? Come mai una ragazza maldestra era riuscita a giocare un boss come Totonno? Come mai i colpi mortali risultarono sparati da distanze diverse, e da armi diverse? Pupetta non cambiò mai la sua versione. Sostenne sempre che non c'era stata premeditazione, che aveva sparato soltanto lei e con una pistola sola quando il fratello Ciro era già scappato, che aveva agito per legittima difesa dopo che era stata provocata. Al processo fu bravissima. La pagina della sua deposizione resta una testimonianza da manuale, di un'epoca e di un personaggio. Disse, con voce ferma: «Ero terrorizzata. Avevo le mani sulla borsetta che conteneva anche la fede nuziale e la carta d'identità di mio marito. Esposito tirò fuori la rivoltella e fece fuoco. Anch'io presi la pistola e sparai. Ciro e l'autista scapparono». Il presidente insisteva, con la consueta «cortesia»: «Quanti colpi sparaste?». «Penso quanti ne sparò Esposito». «Già, ma a lui non possiamo chiederlo. Quanti ne sparaste voi?». «Tutti quelli che avevo. Non so il numero. La pistola era di mio marito. Più di uno certamente». «Quando smetteste di sparare?». «Quando smise lui». Poi, fedele all'immagine della vedova-bambina, Pupetta spiegò: «Avevo messo l'arma nella borsa dopo la morte di mio marito. Morendo, Pasquale mi confidò che Orlando, il suo assassino, non era uomo da agire di sua iniziativa. Una delle persone dalle quali prendeva ordini era Antonio Esposito. Quella pistola la custodivo dal giorno del matrimonio. Me l'aveva data il mio sposo. Avevo paura. Ho agito per legittima difesa». In un momento di emozione, impugnando la bandiera, dell'amore che tutto può far fare, gridò: «Non posso ricordare tutto dopo quattro.anni! So una cosa soltanto. Ho ucciso per amore e perché mi volevano sopprimere. Mio marito non voleva morire. Se me lo uccidessero ancora, rifarei quello che ho fatto!». Rimase in carcere appena dieci anni. Quando uscì, nel '66, era dimagrita di dieci chili e Pascalotto, il figlio, la chiamava Pupetta. Il ruolo della primadonna non l'aveva dimenticato. Diventò attrice. Alla seconda conferenza stampa, alla vigilia del primo ciak, si lamentò: «In carcere le suore ci facevano vedere in tv solo il Mago Zurli e Padre Mariano». Il mondo le sembrava peggiorato: «La gente è diventata più democratica, confidenziale, non ha freni né rispetto». Voleva divertirsi, e fare una vita «normale». Non le è riuscito. Pascalotto è morto, sparito nel nulla nel '74. Il suo nuovo compagno, da cui ha avuto due figli, è stato Umberto Ammattirò, boss del traffico internazionale di droga, implicato - secondo gli inquirenti - nel delitto del criminologo Carlo Semerari. Lei è entrata e uscita dal carcere, sospettata di essere al vertice del gruppo rivale di Raffaele Cutolo, proposta per il soggiorno obbligato e per il sequestro cautelativo dei beni. E' diventata grassa, esibizionista, sempre più ingioiellata. Non è uscita di scena, come forse sinceramente sognava. E ha visto nascere la Malanapoli in cui si è formata la generazione delle donne-killer come Cristina Pinto, ragazze in jeans e telefonino, coda di cavallo e giacca firmata, manager del delitto che vivono in bunker superprotetti, molto efficienti, capaci - hanno scoperto con orrore gli inquirenti napoletani - di maneggiare le pistole come i computer, di disporre esecuzioni e eseguirle alla perfezione, di guidare i clan sbandati dall'arresto dei boss, a volte più crudeli e esigenti dei loro «maestri». La Pupetta eroica degli Anni 50 per loro forse non rappresenta niente. Forse non è mai esistita. Al processo del '59 il pm, Antonio De Franciscis, aveva detto: «Questo è un processo a un particolare ambiente sociale, dominato dalla sopraffazione di pochi. Pupetta è prigioniera di una causale della malavita. Non ha fondamento la tesi del delitto per amore». Liliana Madeo La gente la invocava cercava le sue foto Un autografo valeva anche mille lire A fianco lo zio, le sorelle e il fratello di Pupetta Maresca al processo. Nella foto grande (aprile '55) la ragazza con Pasquale Simonetti, «Pascatene 'e Nola», al pranzo di nozze; alle spalle della sposa Antonio Esposito, «Totonno 'e Pomigliano», già rivale e poi sodo di Pascatene. Per Pupetta era lui il mandante dell'assassinio del marito: lo uccise il 4 ottobre '55 Sopra Pupetta in Assise e a lato a Poggioreale nel 1959. A destra Rosanna Schiaffino interprete del film «La sfida», ispirato alla vicenda. In basso il padre della ragazza, don Antonio Maresca

Luoghi citati: Castellammare, Castellammare Di Stabia, Napoli, Nola, Palma Campania, Pompei, Pozzuoli