«Sono entrato nei lager serbi»

«Sono entrato nei lager serbi» GLI ORRORI DELLA GUERRA BALCANICA Un giornalista inglese racconta la sua visita a due tra i più famigerati campi in Bosnia «Sono entrato nei lager serbi» // primo reporter al di là del filo spinato ON voglio raccontare bugie, ma nemmeno la verità» dice il giovanotto emaciato, gli occhi infossati, attaccando lo stufato di fagioli acquoso come un cane affamato, le lunghe ed esili mani che tremano. E' l'ora del pranzo, al campo di Omarska o «centro investigativo», messo in piedi dalla polizia bosmaco-serba, per i prigionieri musulmani, vicino a Prijedor, nel Nord-Est della Bosnia. I prigionieri sono spaventosamente magri e ossuti; alcuni quasi cadaverici, la pelle come cartapecora avvolta intorno alle braccia. Emergono da un'immensa baracca color ruggine, trenta per volta, nel sole e nel caldo. Vengono messi in fila da un poliziotto in borghese, poi corrono attraverso il cortile fino alla mensa del campo, sotto l'occhio attento di un nerboruto poliziotto con mitragliatrice. Non si sentono urlare ordini: sanno fin troppo bene quello che devono fare. Nella linda cucina sì mettono di nuovo in fila e aspettano la loro razione: una scodella di fagioli e pangrattato e una fetta di pane, che divorano in silenzio ai tavoli di metallo, prima di rimettersi rapidamente in fila davanti alla porta, attraversare di corsa il cortile e infilarsi nella porta scura della baracca. Poi appaiono i trenta successivi e si ricomincia. Il pasto dura cinque minuti. Sembra che sia l'unico di tutta la giornata. Se anche mangiassero due volte, sarebbero solo leggermente meno macilenti e vizzi. Qualcuno si porta via il pane per mangiarlo più tardi. Omarska.è un'antica mimerà, di fèrro e un impianto per il trattamento dei minerali. Ora è il più famigerato di una lista di 57" «campi di concentramento» resa nota dal governo bosmaco. Né la Croce Rossa Internazionale né le Nazioni Unite - e ovviamente nessun giornalista - avevano potuto entrarci prima del nostro arrivo mercoledì scorso, sebbene gli organismi internazionali si fossero mostrati assai preoccupati dopo le dichiarazioni dei musulmani della Bosnia. L'invito - assolutamente inatteso e inspiegabile - a visitare Omarska è giunto dal presidente bosniaco-serbo, Radovan Karazdic, una sfida a «Guardian» e «Independent Television News» perché controllassimo «tutto quello che volete vedere». «Prima mangio, poi parlo - dice Sebakoudin Elezovic -. Ogni giorno è la stessa cosa, come adesso: niente da fare, solo l'attesa del pasto. Bambini e anziani non si fermano qui, non so dove li mandino. Io ero nelle forze di difesa, ma non mi hanno preso in battaglia. Avevo cercato di raggiungere il campo di transito di Trnopolje (un campo di civili) ma l'esercito mi ha preso per strada e mi ha portato qua». Sebakoudin non ha nessun segno di percosse. Racconta ancora: «Siamo stati interrogati. Io so che non si può nascondere nulla, così ho detto la verità e spero che mi abbiano trovato a posto. Se sono colpevole, dovrò affrontare le conseguenze. Parlo solo per me - personalmente, nessuno mi ha messo le mani addosso». E non aggiunge altro: i soldati si stanno avvicinando al tavolo e lui si alza per lasciare il posto a quelli del turno successivo. La maggior parte dei reclusi è visibilmente troppo terrorizzata per aprir bocca. Noi però ci rifiutiamo di parlare con quelli selezionati dalle autorità, preferiamo cercarci gli interlocutori da soli. Però veniamo precipitosamente portati al piano di sopra per la versione ufficiale. Omarska, ci viene detto, è un «centro investigativo» per uomini sospettati di far parte dell'esercito irregolare musulmano: vengono presi e «passati al vaglio» per stabilire se sono combattenti o civili. A parte la scarsezza del cibo e l'umiliazione del regolamento, nessuno degli ottanta prigionieri che ho visto aveva sul corpo segni di violenza o di percosse. Quelli che risultano «aver preparato la ribellione» entrano nella «categoria A», spiega la portavoce del capo della polizia, Nada Bai ban. Ne sono stati trovati 126. Tutti aspettano il processo combattenti rientrano invece nella «categoria B» e finiscono in un campo per prigionieri di guer La maggioè visibile preferParla sol ra a Manjaca, dove è stata ammessa la Croce Rossa (e dove volevano portarci i militari serbi, anziché a Omarska). Per loro 1290 finora - c'è la corte marziale. Altri vanno al campér"ui Trnopolje - e su questo i rifugiati hanno fatto dichiarazioni molto gravi. E' il gruppo più folto, 1400. Omarska e Trnopolje dipendono dalle autorità civili, non dall'esercito. Nada Balban ammette: «Nessuno è fiero. Qui c'è vergogna. Se c'è un posto simile a questo a Sarajevo, per la nostra gente, allora cambiamolo... Naturalmente, abbiamo alcuni ostaggi per gli scambi. Ne abbiamo offerti fin dal primo giorno di guerra, ma gli altri non vogliono scambi». Questo è forse vero per Omarska, ma non in generale: un campo che abbiamo visitato alla periferia di Sarajevo è stato allestito proprio per scambiare prigionieri musulmani e serbi. Dopo il colloquio, chiediamo di entrare nelle baracche color ruggine e vedere i dormitori o quello che c'è. Si sente sparare nei boschi vicini. Sparavano anche quando siamo arrivati. La polizia ci dice che siamo più sicuri dentro il campo. Poi: «I politici siedono su due sedie: fanno promesse, ma noi abbiamo le nostre procedure. Saprete certamente che abbiamo degli ordini da rispettare. Voi avete le vostre ragioni, noi ne abbiamo altre. Lui (Karazdic) a noi ha promesso qualcosa di diverso». Nelle baracche di alluminio si nasconde dunque qualche segreto che vale la pena di difendere, anche andando contro la promessa di Karazdic. La Croce Rossa Internazionale e le Nazioni Unite non sono state ammesse, spiega la portavoce, perché «questo non è un campo di concentramento, ma un centro». Sostiene anche che «né da parte loro né di chiunque altro ci sono state richieste di venire qui». Ma, sotto pressione, promette: «Permetteremo loro di venire. Perché no?». A Prijedor, le donne fanno la fila sul marciapiede davanti al quartier generale della polizia per un lasciapassare. Alcune dicono che i loro uomini sono stati a Omarska per quattro mesi. Omarska è stata visitata dalla Croce Rossa jugoslava (gestione serba) e ha ricevuto un attestato positivo. Il dottor Dusko Ivic, che lavora al campo di Trnopolje, ha dichiarato mercoledì scorso: «Sono stato a Omarska e il mio giudizio di medico sulla salute della gente è molto buono, a parte alcuni casi di diarrea». Del campo di Trnopolje, una quindicina di chilometri più a Sud, il governo musulmano dice che, per le sue dimensioni, è il secondo «campo di concentramento». Qui, i medici musulmani prigionieri dicono che la gente arriva da Omarska e da un altro «centro investigativo» a Kereter in condizioni terribili. La prova è stata passata al «Guardian» e alla Itn sotto forma di un rullino di foto da sviluppare. La confusione - politica e fisica - è totale. Il campo, recintato, occupa una ex scuola. Migliaia di uomini in piedi, nudi fino alla cintola, contro il filo spinato nel caldo meridiano che non dà tregua. Donne e bambini nell'edificio affollato e puzzolente: aspettano, guardano fisso nel vuoto, sudano - e si chiedono che cosa succederà. Un gruppo è arrivato al matti- no da Kereter, dicono di aver preso botte - ma non si vede niente. Racconta piangente ed emaciato Fikrit Alic: «Là è peggio che qui. Non c'è cibo». Altri però sembrano meno denutriti. Icic Budo, un ragazzino, dice che a Kereter hanno ammazzato duecento persone e ancora di più a Omarska. Lui direttamente non ha visto nessun cadavere, ma un altro ragazzo ne ha visto uno vicino al cancello principale. Trnopolje non può essere definito un «campo di concentramento» e non è assolutamente sinistro come Omarska - però è molto sudicio. C'è un piccolo centro della Croce Rossa jugoslava, con una cucina. I ragazzi sono stati prelevati nei villaggi. Alcuni chiamano Trnopolje un campo profughi, ma Fikrit Acic dice: «E' una prigione. non un campo di prigionieri di guerra. Noi non siamo combattenti. Sono arrivati al nostro villaggio, Kozarac (ora distrutto dai combattimenti), ci hanno messi sugli autobus e ci hanno portato prima a Kereter, poi qui». Icic Budo aggiunge: «Non vogliono lasciarci vivere qui. Vogliono che ce ne andiamo con le nostre famiglie, se riusciamo a trovarle. Io non so dove sia la mia». Alcuni sono scappati volontariamente a Trnopolje per evitare le devastanti battaglie nei villaggi intorno. Racconta Inar Gornic: «Sono arrivata da sola, dal villaggio di Trnopolje. Le condizioni qui sono dure, ma là i combattimenti erano terribili e non avevamo una briciola da mangiare. Qui è più sicuro, ma non sappiamo quale sia la nostra condizione ufficiale. Siamo profughi, ma ci sono guardie e fil di ferro». «Nessuna violenza contro di noi, solo caldo e puzza - aggiunge il marito, con aria assente, tra il mare di coperte, lenzuola fradice di sudore e materassi stesi sui pavimenti. Fuori, hanno montato dei forni da pane rudimentali. Sana, 13 anni, dice: «Ero un combattente musulmano. Quando la battaglia cominciava, ci mettevano in prima fila. Ero così terrorizzato che sono corso dalla parte serba del villaggio per veni- re qua. Sono ancora spaventato, ma mi sento più sicuro». Igor, uno dei soldati serbi: «Qui ci sono i miei vecchi compagni di scuola e il mio maestro». Infatti mi presenta il suo amico Azmir, che adesso sta dietro il filo spinato e racconta: «Sono stato portato qui da Rizvanovici, dopo che sono iniziati i combattimenti. Ci sono stati colpi di fucile dalla parte musulmana, poi è arrivata la polizia e ha portato via la gente, per ripulire il villaggio dai musulmani e andare avanti con i combattimenti». Azmir mi spiega che può andarsene solo se la sua famiglia viene a cercarlo, o se può fornire qualche tipo di garanzia o un lasciapassare che non ha. Pare che le autorità stiano preparando documenti del genere, come hanno già fatto in altri campi in Serbia. I luoghi ai quali questa gente - a Omarska e Trnopolje - è stata strappata sono un disperato teatro di guerra e distruzione. Per quindici chilometri, lungo la strada da Prijedor a Banja Luka, quasi ogni casa musulmana è stata svuotata e sventrata. A Banja Luka arrivano autobus carichi di serbi provenienti da Zagabria e Sarajevo. «Sono venuto a portare qui i miei genitori dice Drazna - ma io torno a Zagabria. Laggiù adesso la vita è molto difficile per noi, ma io ho il mio lavoro e se lo perdo non posso sfamare la mia famiglia e le zie e gli zii qua dentro». Altri raccontano storie terribili sull'avanzata musulmana a Sarajevo. I serbi prenderanno le case dei musulmani di Banja Luka, partiti spontaneamente o cacciati a forza. Il patetico convoglio arrivato da Zagabria ha attraversato la linea di combattimento sotto gli auspici della Unprofor, la forza di pace delle Nazioni Unite - e così faranno i musulmani, ma nella direzione opposta. Jan Bolling, l'ufficiale Onu che organizza questo movimento, è molto franco sulle scelte che la gente di entrambi gli schieramenti deve fare: andarsene o finire in un campo? «Non siamo coinvolti in nessun tipo di "repulisti" etnico. Ma nell'attuale situazione dobbiamo scegliere tra quello e una persecuzione implacabile e il nostro lavoro è innanzitutto proteggere la gente». In tutta questa guerra, ci sono aspetti fuori del comune che complicano qualunque interpretazione semplicistica. Le donne che si accalcano a Prijedor, trascinandosi dietro i bambini, raccontando che i loro uomini sono stati presi e portati a Omarska, Kereter o Trnopolje e più nessuno li ha visti. Alcuni villaggi sono stati completamente distrutti. Ma giù nella strada ci sono paesi musulmani assolutamente intatti, con i contadini che rastrellano tranquillamente il fieno. Ogni casa fa penzolare una bandiera bianca - un pezzo di lenzuolo o una federa - dal tetto o da un albero: è una garanzia contro Omarska o Trnopolje. «Questi hanno accettatola repùbblica serba - spiega il maggiore Milovan Milutonic, dal quartier generale di Banja Luka -. Tutti quelli che lo fanno, noi li lasciamo stare». Attorno a Banja Luka ci sono anche comunità di croati, che hanno scambiato la loro sottomissione al nuovo ordine con una vita relativamente tranquilla. Ma anche tra i serbi ci sono i rifugiati su e giù per il Paese. I pesanti combattimenti di questa settimana tra l'esercito e i croati intorno a Brcko - una città serba ora ridotta a macerie - hanno ridotto una parte del corridoio serbo attraverso la Bosnia settentrionale a una rete di strade sporche. E nella polvere di queste strade martedì erano seduti gruppi di rifugiati, con le loro poche cose, in attesa di carri e autobus che li riportassero indietro, nei loro campi profughi in Serbia. Poi c'è la replica serba alle accuse di campi di concentramento. Innanzitutto quella di Milan Kovacevic che, come presidente del consiglio esecutivo di Prijedor, è tecnicamente responsabile di Omarska e Trnopolje. E' nato a Jasenovac, il campo croato ustascia dove 750 mila tra serbi ed ebrei furono sterminati tra il 1941 e il 1945. «Sappiamo che cos'è un campo di concentramento meglio degli inglesi -dice -. Molti di noi ci sono passati e possono dire che quello che vedete qui non è un campo di concentramento. Ci accusano di genocidio. Ma qui non c'è genocidio. E poi, ricordatevi che siamo in guerra. I civili riceveranno documenti e potranno andarsene. I soldati saranno interrogati e processati». I serbi hanno ima loro lista di «campi di concentramento» e sostengono che anche la loro gente viene tenuta prigioniera e uccisa dalle autorità croate e musulmane. Corrispondenza privata tra il governo serbo-bosniaco e la Croce Rossa Internazionale parla di «supposti centri di detenzione». Le autorità serbe però si lamentano perché la stampa occidentale non ha fatto nessun tentativo per scoprire quali siano le condizioni dei campi dall'altra parte. Secondo il loro elenco, i principali sarebbero a Tarcin, vicino a Sarajevo, e in diversi punti della stessa Sarajevo, sotto terra; nella città assediata di Tuzla ancora nelle mani dei musulmani, nello stadio di Bihac e a Zenica. E l'esercito serbo a Sarajevo sostiene che l'assedio a Gorazde è ostacolato dal fatto che i musulmani tengono in ostaggio, dietro le linee difensive, tremila serbi. 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Persone citate: Alic, Bolling, Dusko Ivic, Milan Kovacevic, Milovan Milutonic, Nada Bai, Nada Balban, Sebakoudin Elezovic