C'è una strage di donne inventiamo un colpevole

C'è una strage di donne inventiamo un colpevole Dagli archivi segreti del pcus I delitti della burocrazia C'è una strage di donne inventiamo un colpevole MOSCA DAL NOSTRO INVIATO Girovagando negli archivi del Comitato centrale del pcus, tra mille documenti, tutti contrassegnati dalla scritta «Soverscenno sekretno», top secret, segretissimo, capita di chiedersi ancora una volta cos'era, cos'è stato mai questo sistema che sembrava eterno e che ci è morto sotto gli occhi, in un amen. Asfissiato da se stesso, pare. Ingolfato dal sogno, o dal delirio, di sapere tutto, di controllare tutto, di setacciare, filtrare, triturare, stritolare tutto ciò che' accadeva in quell'immenso Paese che non c'è più, facendolo passare, necessariamente, attraverso il piccolo imbuto di un pugno di uomini che pretendevano l'onniscienza. Come Dio. Anche quando l'agonia era già cominciata. Leggo, dal protocollo n: 14 della riunione del Politburo del 29 maggio 1986, che il presidente del Tribunale supremo dell'Urss, Terebilov, e il procuratore generale dell'Urss Rekunkov avevano inviato memoriali e lettere per segnalare «serie insufficienze nel lavoro degli organi giudiziari». Chiedevano l'intervento del partito per mettere ordine «nella milizia, nei tribunali, negli organi inquirenti». Due casi esemplari E inviavano, a mo' di esempio, di prova, i casi più eclatanti, per attirare l'attenzione dei destinatari. I cui nomi campeggiano in testa al fascicolo (Cartella speciale, elenco n. 7, affare n. 5): Gorbaciov, Gromyko, Ligaciov, Ryzhkov (tutti della segreteria del Comitato centrale), Cebrikov (allora presidente del Kgb), Vlasov (ministro degli Interni) e altri più o meno oscuri funzionari di un apparato che sembrava onnipotente. Già, «sembrava» onnipotente. Ma viene da chiedersi: possibile che non si rendessero conto di quali erano i limiti della loro «onnipotenza»? Mi sprofondo nella lettura dei memoriali di Terebilov e Rekunkov cercando di immedesimarmi nei pensieri dei destinatari. Ricevevano informazioni preziose sullo stato della società che dirigevano. Quali conclusioni ne ricavavano (sempre ammesso che avessero il tempo di leggerli)? Per esempio Terebilov invia, il 2 aprile di quell'anno, una nota per solleci- tare modifiche di legge in tema di pena di morte. Suggerisce di «ridurre il numero delle sentenze capitali» basandosi anche sull'esperienza dei «Paesi occidentali, dove la pena di morte è stata abolita». Propone, «ad esempio, di rinunciare alla sua applicazione nei confronti delle donne» e, «senza abolirla del tutto, limitare le sentenze capitali ai maggiorenni, al di sopra dei 18-20 anni». Considerazioni umanitarie? Chissà. Certo Terebilov le nasconde con cura e si limita a concludere tirando fuori la ragione di Stato: una tale decisione scrive - «provocherebbe reazioni positive nell'opinione pubblica progressista all'estero». L'uomo - che, ricordo bene, a quei tempi lontani passava per un fiero reazionario - figura qui come un «liberale». Salvo che, nel passaggio successivo, lamentandosi dei sistemi carcerari, Terebilov rivela la sua tempra e invoca misure più severe per la «rieducazione» dei detenuti. «Nei luoghi di detenzione - esclama - il condannato non è occupato in attività sufficientemente difficili, abbastanza dure e utili. Non basta dedicare al lavoro (forzato, ndr) solo 78 ore, ma molto più tempo». A posteriori sappiamo che il Politburo non decise nulla. Ma nel fascicolo c'è la risposta di Gorbaciov (Kn.P1081): «Recentemente abbiamo concordato di estendere la pratica della grazia ai condannati a morte e della sua commutazione con la carcerazione a 20 anni. Fu una decisione giusta. Ma la nota del compagno Terebilov pone una questione più ampia: è opportuno mantenere nel codice penale così tanti articoli che prevedono la pena di morte?». Anche Gorbaciov lascia il punto interrogativo, rinvia al Politburo. Ma nel fascicolo ci sono altri due documenti (uno di Rekunkov, l'altro del viceprocuratore generale della Repubblica russa, I. Zemlianuscin) ancora - se possibile - più segreti dei precedenti. Storie di orrore quotidiano in due lontane province dell'impero. Erodoto ne avrebbe fatto oggetto di esaurienti considerazioni sui costumi dell'epoca. E an- che il Procuratore generale dell' Urss - che le ha scelte - forse vorrebbe fare altrettanto. Ma ne viene fuori solo un arido resoconto, che non sembra percepire la mostruosità dei fatti. Così, sfogliando quelle pagine precocemente ingiallite, come tutto il resto, mi accorgo che le storie sono una dentro l'altra, come nelle scatole chiesi e nelle matrjoshke russe. Sempre Asia, comunque. Nella regione di Vitebsk, Bielorussia - racconta Rekunkov - c'è stata una mattanza di donne: 38 violentate e assassinate nel periodo 1971-1985. Niente che non fosse già stato sperimentato nelle società dell'Occidente evoluto, s'intende. Ma questo parallelo era allora improponibile. Il socialismo reale, perestrojka o no, restava ancora un modello: degenerazioni, violenze, orrori potevano essere solo «altrove». Eppure «loro» sapevano che non era così. Strangolate e violentate Possibile che non li sfiorasse l'idea non dico di renderle pubbliche, ma almeno di chiedersi perché accadevano nella società quasi perfetta che reclamizzavano? Ma questa è la matrjoshka «esterna». Quella interna è il fat¬ to. Rekunkov spiega che tutto conduceva, fin dall'inizio, a ritenere che la mano criminale fosse una sola. Tutte le vittime erano state uccise con lo stesso, identico sistema. Soffocate prima con le mani, poi strangolate con i loro indumenti intimi, violentate e seppellite. L'assassino aveva perfino mandato lettere ai giornali. Si tradì solo nel 1985 mettendo nella bocca dell'ultima vittima un biglietto: «Ha tradito, deve morire». Firmato «I patrioti di Vitebsk». E solo allora, attraverso l'analisi calligrafica, un inquirente scrupoloso era riuscito a trovare l'assassino: un certo Mikhasevic, «iscritto al partito, istruzione media, sposato con due figli, meccanico di sovkhoz, con ottimi precedenti» e che partecipava perfino, come volontario, alle ronde della polizia locale. Fin qui tutto «normale». Ma il «bello» arriva a questo punto, quando Mikhasevic confessa. Bisogna tornare indietro, all'anamnesi dei processi celebrati per dieci dei 38 delitti. Ed è giocoforza scoprire che c'è già una lista di dieci colpevoli. O. Glushakov è stato condannato nel 1974 a 15 anni per il primo cadavere; V. Gorelov ha avuto dieci anni, nello stesso anno, per il secondo cadavere; dal 1974 al 1985 è in carcere V. Matskievic, condannato per il terzo cadavere. Per tre anni la magistratura di Vitebsk riposa. Nel 1977, quando si trova un'altra vittima, varca le soglie della galera N. Oriol, avrebbe dovuto restarci 15 anni. Nel 1980 altre due condanne: L. Kalushkin si prende 15 anni e S. Terelia viene condannato a morte. Sentenza ovviamente eseguita. L'elenco di Rekunkov si allunga, sembra, all'infinito. Nel 1982 tocca a V. Lushkovskij (10 anni). Nel 1984 è la volta di O. Adamov (15 anni). Tutti i condannati si erano proclamati innocenti. E emerge che gli inquirenti non hanno fatto alcuna indagine, la polizia ha scelto a caso i «colpevoli» e la magistratura ha semplicemente formalizzato la condanna con processi sommari dove le regole più elementari della difesa erano state violate. Rekunkov annuncia che un'inchiesta è stata aperta per verificare l'entità delle «volgari violazioni delle norme» che <(hanno inferto un danno irreparabile alla legalità socialista e ai cittadini che ne hanno sofferto». Se il caso di Vitebsk fosse stato un'eccezione non ci sarebbe nulla da aggiungere. Invece il Politburo veniva solennemente informato della regola, assoluta e universale, che regnava in tutto il sistema. Sotto tutte le latitudini magistrati, inquirenti e polizia facevano esattamente come a Vitebsk. Anche loro, come i metalmeccanici, dovevano «adempiere il piano» dei colpevoli scoperti. Ne andavano di mezzo, al¬ trimenti, l'onore e lo stipendio e i premi di produzione. Poiché i cadaveri non si potevano nascondere, si dovevano trovare gli assassini. Ma senza troppo sforzo, secondo la produttività media del socialismo, cioè senza sprecare tempo nelle indagini. Quando non c'erano cadaveri ingombranti la polizia, semplicemente, non registrava denunce. Anche questo avrebbe guastato il piano di proci'1 >ne, avrebbe mostrato che in zona c'erano troppe illegalità. Così funzionava il «sistema», mentre il membro del partito Mikhasevic continuava a strangolare le sue vittime. La controprova, a edificazione del Politburo, la porta il memoriale del viceprocuratore generale di Russia, che racconta del caso di Zelenogorsk, Repubblica di Tataria. Un trio diabolico Un certo A. Sukletin ha ammazzato sette giovani ragazze. L'inchiesta accerta che è stato aiutato dalla convivente e da un amico. Portavano a casa le ragazze, con pretesti diversi, le ubriacavano, violentavano e uccidevano. «Alcune parti del corpo delle vittime - cita il rapporto, senza entrare nei dettagli per non turbare l'augusto circolo dei lettori - venivano usate come cibo». Sukletin viene fucilato. Tutto sarebbe finito qui se la pubblica accusa non avesse protestato per la mitezza della pena inflitta ai due complici (qualche anno di galera). La riapertura dell'inchiesta permette di accertare che la polizia di Kazan aveva ricevuto le denunce dei parenti di tre vittime, che segnalavano la loro sparizione. E quei fogli pieni di disperazione erano stati nascosti in qualche cassetto, non figuravano in nessuna statistica. Queste storie non hanno mai figurato in nessuna cronaca. Sono rimaste anch'esse chiuse in qualche cassetto, in attesa che i supremi reggitori del Paese trovassero una spiegazione e scegliessero la loro decisione, irrevocabile come il destino. Storie che sembrano lontane, se non fosse che si ripetono anche oggi, ogni giorno. Si fa presto a core Russia, come si fa presto a dire «mercato» e «Stato di diritto». Adesso, lassù, il Politburo non c'è più, ma gli uomini, in basso, sono ancora quelli. Giuliette Chiesa Mostro cannibale nella Tataria e tante denunce insabbiate In Bielorussia 38 vittime: e un innocente al patibolo

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