MENOTTI Eterna giovinezza dono degli amici

MENOTTI Eterna giovinezza dono degli amicila memoria. Da Duchamp ajackie Kennedy, da Pound a Horowitz: il maestro ricorda MENOTTI Eterna giovinezza dono degli amici dono aedi amici /Ni SPOLETO L ' ULLA cornice della porm ta, al piano nobile di Pal | lazzo Campello, la scritta *=^J «Ubi Amici Ibi Opes» (Dove ci son gli amici, ci son le opere) sembra fatta apposta per lo stravagante inquilino che viene da qualche anno, all'inizio dell'estate. Allora, nei saloni affrescati con decorazioni in stile pompeiano ma di un verde che si confonde col fogliame al di là delle vetrate, c'è un viavai di gente. Eleganti ragazze di buona famiglia vegliano sul Maestro e fanno i cerberi, ma Giancarlo Menotti finisce col ricevere tutti: seguitando ad occuparsi in modo capillare del Festival, l'«opera» che gli ha dato un successo indiscutibile e una celebrità forse maggiore di quella ottenuta con la sua musica. Vestito con l'elegante nonchalance di sempre - giacca chiara, camicia a righine, cravatta a piccoli disegni su pantaloni scuri e impeccabili church's -, a ottantun anni Menotti sprizza vivacità sfoderando il fascino della sua voce pastosa e di un riso infantile che gli serpeggia negli occhi esplodendo volentieri in risata. Comincia con voce, lenta. Dice di essere stanco e di sentirsi in colpa per non essersi occupato abbastanza della sua musica, l'unica cosa che gli stia a cuore oltre alla famiglia che s'è creato trent'anni fa adottando Francis Phelan. Perciò non fa vacanze e passerà il resto dell'estate nel suo castello di Yester House, in Scozia, a lavorare ad alcune composizioni oltreché alle sue Memorie e ad un romanzo, The Unimployables. «Ormai, è lontano il tempo in cui mi circondavo di amici, soprattutto l'estate. Io non amo il passato, preferisco il presente ma è vero che ho dei buoni ricordi degli anni di Capricorn. Gli ospiti del «Capricorn» «E' stato un periodo di grande creatività. Insieme con Samuel Barber, il primo amico al mio arrivo in America nel 1928, e Robert Horan abitavo a Mount Kisko a poche miglia da New York. La casa aveva una bellissima posizione in cima a una collina disabitata e la sua vista spaziava sul Croton Lake. Era stata disegnata da Lescaze in modo molto funzionale con un grande soggiorno al centro e, ai lati, due ali abbastanza indipendenti che ci permettevano di lavorare in autonomia. La dépendance nella parte bassa della collina sembrava fatta apposta per avere degli ospiti e prestissi mo il Capricorn divenne un punto di ritrovo soprattutto nei fine settimana d'estate. «Venivano Jane e Paul Bowles, Pavel Tchelìtcev, Marino Marini, Matta, Cartier-Bresson e molti giovani poeti surreali sti... e Virgil Thomson, Vladimir Horowitz, Marta Graham, Ba lanchine, Poulenc. Horowitz suonava e qualcuno di noi cantava. Si giocava a bridge, si discuteva e si mangiava in continuazione alternandoci in cuci na. Naturalmente il mio risotto alla milanese era il più richiesto. Le conversazioni a ruota libera a volte diventavano dei veri giochi ma facevamo anche sciarade e disegni che purtroppo sono andati perduti. Un vero maestro di invenzione era Marcel Duchamp, che la prima volta venne al Capricorn insieme alla moglie di Saint-Exupéry, Consuelo. «A Duchamp piacevano i gio- chi con un sottofondo magico e si divertiva a leggere il futuro secondo uno strano procedimento. La notte metteva fuori dalla porta una bottiglia di latte quasi vuota con dentro un uovo fresco. Al mattino s'era formato un amalgama, una specie di albero della vita secondo lui, che tentava di interpretare. E ci fu il periodo delle "bottiglie". Duchamp era molto simpatico e scanzonato. All'epoca, eravamo nel '46, da tempo aveva smesso di dipingere e si interessava solo ai ready made e agli scacchi, naturalmente. Ricordo che stava lavorando alla scatola... Benché non facessimo sedute spiritiche, discutevamo molto di magia». Menotti ne fu influenzato. Compose La Medium. In scena a New York, l'opera fu vista tre volte da Toscanini, il primo ad intuire il talento del giovane venuto da Cadegliano, un paese di confine tra Lombardia e Svizze- «... Al Capricorn discutevamo anche di arte e di poesia - prosegue Menotti -. C'era Spender, qualche volta venne anche Auden e la conversazione procedeva in modo spontaneo e immaginoso. In casa mia ho sempre evitato quell'aria pesante, tedesca, della discussione intellettuale in termini di gravità, di spiegazione meticolosa, che mi pare vada sempre più di moda anche in Italia. Al Capricorn ci ritrovavamo tra artisti, tutti più o meno fra i trenta e i quaranta, ma non avevamo l'abitudine di parlare direttamente di quello che stavamo facendo. Tra di noi l'arte era una specie di musa segreta. D'altronde, io rifuggo dalle analisi perché penso che non si possa parlare seriamente dell'arte che è un mistero. Si può soltanto lavorar sodo per realizzarla...». In quegli anni, oltre a comporre numerosi concerti, Menotti mandò in scena una dopo l'altra II Console, un melodramma che denuncia l'orrore del totalitarismo, Amahl o gli ospiti notturni, un'opera per bambini che Toscanini considerò la migliore, La santa di Bleecker Street; L'Unicorno, la Gorgone e la Manticora. Poi, nel 1958, cominciò l'avventura di Spoleto. «Perché l'ho fatto? Non lo so, ogni volta dò delle risposte diverse perché è difficile afferrare veramente se stessi. Qualche volta penso che il Festival dei due mondi sia stato una scusa per sfuggire al mio tormento di compositore. Qualche altra, che sia stato un modo per sentirmi utile. Forse è un retaggio del mio misticismo adolescenziale. Quando a diciassette anni sono arrivato in America per studiare, ho perso la fede ma ho seguitato a essere affascinato dai santi e da coloro che, "avendo qualcosa in più rispetto agli altri, sanno donarlo... Creando il festival ho evitato quel tormento d'artista che ti perseguita in qualsiasi momento. Mi sono messo a fare un mare di altre cose e ho capito tardi che un artista per servire la società deve per prima cosa servire la sua arte». A Spoleto, Menotti comprò un palazzetto a due piani con sopra una magnifica loggia affacciata sulla piazza del Duomo, che ospitò feste in cui si faceva l'alba. Vi si alternarono artisti già celebri come Jean Cocteau, Saul Bellòw, Henry Moore che nel 1965 fece le scene e i costumi per il Don Giovanni di Mozart, Luchino Visconti, Grotowski, Roman Polanski, Thomas Schippers, l'architetto delle cupole geodetiche Bookminster Fuller e giovani talenti come Antonio Gades, scondito a Roma affamato e senza un soldo proprio dal padrone di casa. «Si facevano giochi di mondo cari a Visconti. Per esempio il gioco della Torre, e lui era perfido, a volte davvero sadico, nel chiedere o nel rispondere. Gli piaceva mettere in imbarazzo i presenti per vedere le loro reazioni e i litigi, le gelosie o i rancori che ne derivavano. Go- deva nel mettere alla berlina qualche povera attrice o qualche povero attore che vedendosi rifiutati scoppiavano in lacrime. Nel gioco della verità, era quello che faceva le domande più imbarazzanti e confesso di non aver mai risposto con sincerità... «Ricordo una serata che si concluse in modo spiacevole. Eravamo sul terrazzo di casa mia e facevamo un gioco che aveva inventato proprio lui. Una persona bendata, dopo aver baciato tre volte sulla bocca, doveva scoprirne l'identità, o almeno dire se si trattasse di un uomo o di una donna. A volte la situazione era comica perché c'erano mariti e mogli che non si riconoscevano mentre indovinavano benissimo i loro amanti. Quella sera, a un certo punto fu bendato Tomas Milian e Visconti lo condusse davanti a una ragazza che aveva molta peluria sul mento e sulle labbra. Milian, con aria decisa, dopo il primo bacio disse: "Questo è sicuramente un uomo perché ha barba e baffi!". «La ragazza restò molto male, allora decisi di smettere quei giochi, che scomparvero del tutto dopo la morte di Visconti. Mi resi conto del loro risvolto di crudeltà e di quanto fossero diversi, nello spirito, da quelli al Capricorn dove la parola d'ordine era la gioia di vivere e i rapporti erano paritari, non tanto tra artisti più o meno celebri quanto tra esseri umani che hanno qualcosa da comunicarsi. «A me la celebrità non ha mai fatto un grande effetto. Ho conosciuto tanti grandi artisti e con quelli che ammiravo di più mi è capitato di mtimidirmi per paura che, conoscendomi, potessero trovarmi meno interessante di quanto io trovassi loro». Lo dice quasi in un soffio, col disagio di rivelare qualcosa di molto intimo. «Pound mi ha commosso non per la sua poesia ma perché anche lui soffriva di senso di col¬ pa. Non parlava con nessuno ma dopo qualche giorno, qui a Spoleto, cominciò a ripetermi: "Non sono nessuno, non merito tutta questa attenzione". «Però c'era in lui anche un tocco di fumismo. Spesso ho sospettato che la sua reticenza e il suo silenzio fossero una maschera più che il segno della follia o la conseguenza dell'internamento che aveva patito... Poi, quest'uomo che aveva finito per rifiutare la poesia, voleva sentire solo Schumann e Schubert. E li amava al punto che quando in Piazza viene suonata questa musica, pare che il suo fantasma vi aleggi attraverso inspiegabili rumori di imposte sbattute... Pound detestava la musica contemporanea, evitava Ginsberg e i poeti della beat generation; è curioso che proprio lui, considerato un pioniere della poesia moderna, avesse gusti in fondo convenzionali». Amante del confort e delle belle maniere, Menotti dice di sentirsi offeso dalla volgarità. Rifiuta l'accusa di frivolezza che spesso gli è stata mossa e ci tiene a dire che apprezza moltissimo la genuinità della gente semplice come Agnese, che da sempre si occupa della casa a Spoleto ed è diventata una di famiglia. Anche nel jet-set al maestro piace chi unisce grande classe e semplicità. E come esempio prende la spigolosa Jackie. «Con Jacqueline Kennedy ho sempre avuto dei rapporti cordiali. E' una donna molto timida in cui non ho mai visto una mossa sbagliata. Ha il terrore della folla. Certo il suo matrimonio con Onassis ha stupito anche me, ma più d'una volta mi aveva detto: "Mio marito mi ha messo in una situazione che non riesco a sostenere... rappresento un idolo che non sono. Io mi sento prigioniera di quegli ideali"». In una delle estati spoletine, e precisamente trent'anni fa, Menotti ha incontrato quello che diventando suo figlio l'avrebbe pacificato rispetto a certi sensi di colpa alleviando le sue croniche «inquietudini metafìsiche». «Nella mia vita di scapolo a un certo punto ho avuto il desiderio di un ancoraggio forte, qualcosa che oltre alla mia musica desse un senso concreto alla mia vita. Chip non aveva famiglia, aveva bisógno di un padre che lo prendesse per mano... Grazie a lui, che si è costruito una vera famiglia, ho dei nipotini che adoro... Ah, vieni vieni, eccola qui una delle mie gioie!» esclama abbracciando Claudio, quattro anni, che gli tende un disegno. «Come me, Claudio ama le fiabe e vuole che gli faccia il gioco del mostro. Allora io lo spavento inseguendolo finché lui mi uccide con la sua spada di plastica. Ma subito dopo mi dà un bacio e io resuscito. Questo gioco mi fa sentire immortale e mi ha fatto perdere la paura della morte... Ahimè non ho il dono della fede... ho soltanto il dubbio.... Ho un'amicizia con Suor Pia, una Carmelitana che vive a Filadelfia e che mi scrive quasi ogni settimana firmando "La tua onibra','r:Cerca di convincermi che debbo rientrare nel seno della Chiesa ma credo che la deluderò...». E le grandi amicizie maschili della sua vita? Menotti, messo un po' alle strette, sorride, stringe i braccioli della poltrona: «Ho sempre considerato l'amore sensuale come una specie di prigione e un sentimento che ha qualcosa di falso perché scompare quando, finito il desiderio del corpo dell'altro, il rapporto si rompe...». Quanto ha pesato quel parroco di Cadegliano che in canonica attaccava cartelli del tipo: «La donna è il demonio... La donna è impura»? Samuel Barber, forse un amore Menotti scoppia a ridere: «Sì, era proprio un misogino come pochi. Ma col mio senso dell'amore non c'entra. Io con le donne ho avuto anche relazioni molto profonde. L'erotismo, quando funziona, è una cosa bellissima, ma è pure una meravigliosa illusione. E' l'argomento della mia Maria Golovin». Ma con Samuel Barber, bellissimo e pieno di talento, l'amicizia durata tutta una vita non è stata anche un grande amore? Menotti ride di nuovo e a questo punto non si sottrae: «La bellezza, a volte, è stata l'irresistibile. Forse, forse è stato un amore... come con Schippers o con le altre persone che sono state importanti nella mia vita, ma di questo parlerò nelle mie Memorie». Mentre mi accompagna alla porta, gli chiedo il segreto della sua eterna giovinezza. «Sono le erbe. Ho una fornitissima collezione di essenze. Le trovo efficaci come il Ginseng, o addirittura miracolose come il chapparal, un'erba indiana che in Italia non si trova e che è straordinaria per la pelle. Mi piace scovarle nei negozi e anche coltivarle io stesso nel giardino di Yester di cui mi occupo personalmente. Ecco, oltre ai giochi con Claudio, quando smetto di comporre o di scrivere è l'occupazione che più mi distende, soprattutto l'estate...». Paola Decina Lombardi mm Dalla villa americana ai giorni di Spoleto: «E Visconti inventava giochi sempre più crudeli» RACCONTI D'ESTATE Sopra, il pianista-Vladimir Horowitz e a destra Jean Cocteau, uno dei primi ospiti a Spoleto. Qui accanto, Martha Graham, un'amica degli anni di «Capricorn». Nella fotografia grande, Giancarlo Menotti con Ezra Pound a Este, e sotto Jacqueline Kennedy