Medio Oriente ecco lo via della pace

Medio Oriente, ecco la via della pace La chiave è l'autonomia dei Territori: pochi anni di coesistenza e un'evoluzione sarà inevitabile Medio Oriente, ecco la via della pace Due tappe per creare uno Stato arabo Ma Israele rischia più dei palestinesi alla vigilia dell'incontro F RA quattro giorni il presidente Bush e il premier israeliano Rabin si incontreranno in un momento che offre inedite possibilità al processo di pace in Medio Oriente. Il collasso dell'Urss e la sconfitta dell'Iraq hanno ridotto, se non eliminato, le prospettive di successo della linea radicale fra gli arabi. I Paesi arabi moderati, in particolare quelli del Golfo, sono stati disillusi dal comportamento ostile dei palestinesi verso di loro durante la crisi del Kuwait, e non sono più pronti a sostenerne eventuali richieste estremiste. E dalle elezioni in Israele è emerso un leader capace di prendere le decisioni necessarie. Non esiste in Israele una mente analitica migliore di Yitzhak Rabin. E' tenace quanto intelligente. Nel 1975, durante il suo primo incarico da premier, un giorno mi fece avere una lista di 12 richieste da sottoporre ad Anwar Sadat. Dal presidente egiziano ottenni un sì a dieci, lasciandone fuori solo due che mi sembravano di secondaria importanza. Quando gli riferii del mio successo, Rabin rispose impassibile «perché ci hai deluso così?». Non ho mai saputo se scherzasse. I leader americani e arabi non troveranno in Rabin un facile compagnone nel loro viaggio attraverso la selva della diplomazia mediorientale. Ma Rabin è inflessibile nel distinguere l'inessenziale da ciò che è davvero importante. Questa dote gli tornerà preziosa, perché i protagonisti hanno ora bisogno di districarsi da quegli atteggiamenti che hanno prodotto l'attuale impasse. Per quasi mezzo secolo i palestinesi hanno coltivato la speranza di riuscire a creare, un giorno, una combinazione di pressioni arabe e internazionali tale da di- struggere lo Stato d'Israele. Per le pressioni internazionali contavano soprattutto sull'Unione Sovietica, e in parte sull'Europa occidentale; sul versante arabo hanno fatto assegnamento, di tempo in tempo, sull'Egitto, la Siria o l'Iraq. E dato che avevano un diritto di veto sui piani arabi dopo tutto i palestinesi sono fra gli arabi i più penalizzati -, tali piani contenevano precondizioni che Israele avrebbe potuto ottemperare solo rinunciando alla propria esistenza. Di fronte a un atteggiamento del genere, Israele ha adottato la procrastinazione come la migliore delle strategie. Il suo premier Ben Gurion riportò sul suo diario un'affermazione di Abba Eban: «Ci è sufficiente un armistizio. Se puntassimo alla pace, gli arabi ci domanderebbero un prezzo: in termini di confini, di rifugiati o di entrambi». Il modo in cui è evoluto il processo di pace sembra-confermare questo giudizio. Nel 1947, i vicini arabi scelsero la guerra piuttosto che accettare lo Stato ebraico. Negli Anni 50 e 60 alcuni di loro cominciarono ad accettare le frontiere del '47, ma non quelle che esistevano all'epoca. Per esempio, nel 1954 il presidente egiziano Nasser chiese che Israele si ritirasse nelle frontiere del piano di spartizione Onu del 1947. Negli Anni 60 e 70 diversi regimi arabi moderati (ma non l'Olp) accettarono le frontiere allargate del '67 rifiutando però, ancora una volta, quelle allora esistenti (dopo la guerra dei Sei giorni, ndr). Di fronte a queste offerte progressivamente migliori, Israele aveva tutto da guadagnare a procrastinare. Poneva l'accento sul¬ le procedure, in particolare chiedendo trattative dirette a livello di governi. Ma non c'era alcun interlocutore disponibile sul versante palestinese, avendo un vertice arabo assegnato questo ruolo all'Olp con cui Israele rifiutava di negoziare. Entrambe le parti hanno ora buoni motivi per cambiare le loro posizioni. Israele è abbastanza potente da mantenere lo statu quo, indefinitamente, con la forza. Ma non è così autosufficiente da sopportare l'isolamento morale e politico in cui incorrerebbe in tal caso, con un'America sempre più isolazionista. Per cui, entrambe le parti sono davanti a una «finestra di opportunità» - o forse si dovrebbe dire di necessità. I palestinesi devono convincersi che Israele è lì per restare. Israele ha imparato - alla dura scuola delle pressioni americane - che da uno stallo di cui possa essere imputato scaturisce l'isolamento morale, politico ed economico. Un accordo complessivo che definisca tutte le questioni non è negoziabile al momento. Né Israele né i palestinesi possono prendere decisioni definitive sulle frontiere. Non possono mettersi d'accordo sul futuro di Gerusalemme. Israele non è pronta ad accettare uno Stato palestinese pienamente sovrano, mentre i palestinesi non possono firmare un accordo definitivo che non contempli un loro Stato sovrano. L'opportunità che si offre a entrambi è negoziare un accordo ad interim per imparare a vivere insieme, e rinviare una definitiva sistemazione a quando tale possibilità sarà stata verificata. A questo fine, Israele dovrà garantire un autentico autogoverno a un'area dei Territori tanto vasta quanto è compatibile con la sua sicurezza. Per i palestinesi, ciò implica accettare qualcosa meno della piena sovranità - pur ottenendo un controllo sostanziale sugli aspetti civili della loro vita. Devono essere così saggi da capire che una volta che l'entità di autogoverno esisterà, un'ulteriore evoluzione sarà inevitabile. Le nazioni amiche in tutto il mondo rafforzeranno sicuramente il suo status. Sulla sovranità limitata, Israele corre molti più rischi dei palestinesi; essa dovrebbe essere considerata come un serio contributo israeliano a smorzare l'animosità e le recriminazioni. In tale negoziato, si dovrebbe correggere il tiro da «pace in cambio di territori» a «pace in cambio di tempo» - il tempo di vedere quali schemi di coesistenza possono essere sviluppati. Quanto alla Siria, si può usare lo stesso approccio. Fermo restando l'obiettivo di raggiungere più tardi una sistemazione definitiva, potrebbe essere negoziato un accordo ad interim sulle alture del Golan che contempli qualche aggiustamento territoriale. E' probabile che il presidente Assad preferisca tale soluzione a un trattato di pace formale, che potrebbe firmare solo dopo la definitiva soluzione della questione palestinese. In tale tipo di accordo, Israele ottiene di allentare una tensione finora permanente; i palestinesi ottengono dignità e la prospettiva di una ulteriore evoluzione. Henry Kissinger Copyright «Los Angeles Tirnes Syndicate» e per l'Italia «La Stampa» Una scena di Intifada nei Territori Occupati [FOTO ANSA) Il premier israeliano Yitzhak Rabin La sua elezione ha suscitato nuove speranze per la pace in Medio Oriente [FOTO APJ