Zedda rinnova il mito di Semiramide redenta

Zedda rinnova il mito di Semiramide redenta Un trionfo al Rossini Opera Festival Zedda rinnova il mito di Semiramide redenta Un uragano di applausi agli artisti Suggestiva la regia di Hugo deAna PESARO. Passata la mezza delusione dello spettacolo inaugurale il Rossini Opera Festival è subito tornato al livello dei suoi fasti migliori con un grandioso allestimento di «Semiramide» accostata al «Barbiere» nel giusto intento di conferire alla stagione del bicentenario il massimo di responsabilità artistica e di impegno celebrativo. Dopo averci rivelato i mille volti sconosciuti di Rossini, determinando il reinserimento di tanti capolavori dimenticati nel repertorio dei teatri di tutto il mondo, adesso il Festival pesarese s'inventa un'altra funzione: scoprire nuovi talenti e lanciarli come interpreti rossiniani con effetti che si possono prevedere decisivi nel mondo in crisi del teatro d'opera. I cantanti, impegnati in una partitura insidiosa come una parete di roccia, dove il rischio si rinnova ad ogni passo, erano tutti esordienti nelle rispettive parti: alcuni, addirittura nomi sconosciuti che Mariotti ha pescato chissà dove, chiedendogli di cantare «Semiramide» nella stagione del bicentenario; e loro hanno accettato, senza lasciarsi minimamente spaventare, anzi, tuffandosi con sicurezza ed un piacere quasi sportivo nelle mille dificoltà del virtuosismo acrobatico portato qui da Rossini al culmine delle sue responsabilità espressive. Iano Tamar era Semiramide, Gloria Scalchi, Arsace; Michele Pertusi ha incarnato l'impressionante personaggio di Assur in cui sembra già di sentire «Rigoletto», così come, nei due assassini Assur e Semiramide, e nel loro duetto con suoni di marcia sullo sfondo è impossibile non intravedere, in filigrana, la futura coppia del «Macbeth». Ma, accanto a questi cantanti su cui pesano le massime responsabilità esecutive e che hanno attirato su di sé uragani di applausi, i comprimari non erano da meno: Gregory Kunde, ad esempio, ha volteggiato come un acrobata leggero ed elegante nel ruolo tenorile di Idreno e Ildebrando d'Arcangelo è parso un solenne, ieratico sacerdote. Bravi anche Monica Valenti (Azema), Luigi Petroni (Mitrane) e il potentissimo basso Sergey Zadvorny che ha dato voce all'ombra di Nino. Sul podio c'era Alberto Zedda che ha concertato «Semiramide» decine di volte e la dirige, evidentemente, con rinnovato amore. Egli ne coglie esattamente l'essenza drammaturgica che sta nel dilatare il tempo in una vastità di forme diversissime eppur affini, per ampiezza di respiro, a quelle del «Guglielmo Teli». Tempi, quindi, assai lenti, talvolta persino troppo, specie nel primo atto, ma complessivamente ben proporzionati nella loro solenne monumentalità. «Semiramide» è infatti un grande bassorilievo che si snoda orizzontalmente, come un racconto figurato: l'opposto della concezione piramidale che portava Rossini ad innalzare nei pezzi dell'opera buffa costruzioni verticali, dove l'accumulo di elementi musicali sfociava alla fine in una crescita frenetica e inarrestabile. Qui tutto sembra dilatarsi nello spazio, anziché accumularsi nel tempo, uno spazio interiore occupato dalle ramificazioni dei vocalizzi capaci di esprimere tutto ciò che le situazioni richiedono: angoscia, furore, estasi, gioia, fatalità, amore, morte e delitto. E' una selva, barocca e oscura, di intrecci vocali piena di ombre e di presagi segreti, tracce ben visibili dei mille soprasensi che il mito di Semiramide redenta, come ci ha magistralmente spiegato Cesare Questa, non ha cessato di produrre in tutta la letteratura. Perfettamente inserito all'interno del Palafestival, che possiede un'acustica ottima, lo spettacolo di Hugo de Ana è suggestivo e grandioso. Coglie a parer mio con forza tre elementi essenziali: l'idea del gigantesco, del barbarico e del pittoresco che la partitura suggerisce chiaramente evocando l'antica Babilonia e la grandiosità ad essa collegata nell'immaginario dell'Occidente. Grandi pareti di pietra grigia, alcuni frammenti di statue giganti che ruotano, si spezzano, si aprono in spazi interni rappresentano la vastità degli ambienti; la presenza continua di lancieri e guerrieri, disposti ad arte in pose che ricordano gli antichi bassorilievi di Persepoli, alludono ad un mondo di violenza sapientemente stilizzato; i costumi, coloratissimi e fantasiosi, rendono esattamente il carattere particolare dell'esotismo rossiniano, ben diverso da quello fiabesco del contemporaneo Oberon di Weber e tutto impregnato di fantasiosa immaginazione. La regia, pur indulgendo talvolta e qualche ridondanza, è molto precisa nel rendere i nodi essenziali dell'azione e portare alla luce gli elementi fondamentali della vicenda con effetti avvincenti per profondità di prospettive e continue sorprese. Discutibile, forse, ma niente male l'ultimo colpo di scena: quando la parete di sfondo si apre e da un biondo campo di grano irrompe sulla scena il popolo festante a salutare con le spighe, atavico simbolo di fecondità e di pace, la salita al trono dell'eroe. Deliziato dalla grande festa del belcanto acrobatico, impressionato dalla potenza evocatrice e drammatica della musica, grato al Alberto Zedda per l'affetto con cui ha diretto l'ottima orchestra del Comunale di Bologna e il Coro Filarmonico di Praga (maestro: Pavel Baxa), colpito dalla imponenza figurativa, il pubblico ha decretato il trionfo dello spettacolo. Paolo Gallarati Una scena della grandiosa «Semiramide» di Pesaro

Luoghi citati: Babilonia, Bologna, Pesaro, Praga