Pinis e poi l'Iri non fallirà

Pinis e poi l'Iri non fallirà Pinis e poi l'Iri non fallirà «L'Istituto non è alla bancarotta e sulle vendite andiamoci piano» ROMA. «Chi dice che la Cee boccerà la rivalutazione del patrimonio Iri? Guarino lo esclude. E' il ministro dell'Industria: saprà quel che dice». Massimo Pini, esponente socialista del comitato di presidenza dell'Iri, ostenta la massima tranquillità. L'istituto, dice, è tutt'altro che sull'orlo della bancarotta. Dottor Pini, ma com'è possibile con i debiti che avete? L'indebitamento complessivo del gruppo è di 60 mila miliardi che però va messo a fronte di un patrimonio netto di oltre 40 mila miliardi. Non dico che la situazione sia rosea, ma non è nera. Ma da dove li prende questi dati? Dal nostro bilancio consolidato. Per l'Iri holding e le controllate industriali abbiamo 14.681 miliardi di debiti per la parte di competenza di terzi e 10.840 di competenza Iri; per le aziende bancarie 5175 di competenza di terzi e 9637 di competenza Iri. Il rappor¬ to debiti patrimonio è quindi 6040, meglio di quel che si dice. E gli oneri finanziari? Non dimentichi che 20 mila miliardi di debiti gravano sul settore delle telecomunicazioni, che è in attivo: il che vuol dire che la redditività industriale del settore supera il costo della provvista. Insomma, tutto bene: non sarà che avete paura di questo nuovo vento di privatizzazioni? La conclusione del mio ragionamento è che la possibilità di una rivalutazione del patrimonio è legittima, e va fatta con perizie giurate che possono anche, se necessario, ridurre le stime, evidenziare cioè la vera ricchezza e i veri buchi. Il tutto va gestito al di fuori dell'attuale clima di isterismo. Dunque Uri non fallirà... No, ed è gravissimo che i nostri dipendenti, clienti e creditori abbiano avuto questa impressione, per colpa della nostra incapacità di comunicare... L'altra conclusione è che lei rifiuta le privatizzazioni. No, però credo che in materia si debbano bandire gli ideologismi. A mio avviso bisogna ristrutturare le conglomerate Iri ed Eni, con accordi incrociati e poli industriali, per far emergere la redditività e creare nuove entità appetibili per il mercato finanziario. Fatto questo, bisogna che le holding emettano titoli a reddito fisso garantiti dallo Stato convertibili in azioni delle società redditizie, per fare raccolta finanziaria diretta. E lo Stato cosa ci guadagna? Per esempio consentendo l'acquisto delle obbligazioni mediante conferimento di Bot. E poi, per far affluire denaro all'erario, si po- trebberò anche ipotizzare emissioni di titoli di Stato con warrant su azioni di aziende controllate dalle holding pubbliche o delle holding stesse. Ma perché lo Stato non deve vendere, ad esempio, l'alimentare? Non citi il caso Sme, che è la coscienza critica dei privatizzatoli. Se fosse stata venduta nell'85, lo Stato avrebbe subito un danno gravissimo. Valeva 4 volte il prezzo che fu stabilito ed oggi macina utili. Ciò detto, è giusto interrogarsi su quali settori siano più o meno strategici per lo Stato: vogliamo dare ai privati l'industria bellica, l'acciaio, la cantieristica, le infrastrutture? E' una scelta politica. Non teme di stare parlando da vero boiardo di Stato? Indubbiamente anch'io dovrei rientrare in questa categoria, ma le assicuro: non parlo per corporativismo. Di mestiere faccio l'editore, privato. [s. lue] A sinistra Massimo Pini esponente socialista nel comitato di presidenza dell'Istituto per la ricostruzione industriale

Persone citate: Massimo Pini

Luoghi citati: Roma