Strepitoso, ho uno zio in America di Osvaldo Guerrieri
Strepitoso, ho uno zio in America Gli spagnoli di Els Joglars hanno chiuso con successo il festival di Chieri Strepitoso, ho uno zio in America Quel manicomio ha scandalizzato Barcellona CHIERI. Tre spettacoli come questo e avremmo avuto un grande festival, pensavo l'altra sera nel cortile di San Filippo, mentre il pubblico si spellava le mani applaudendo gli spagnoli Els Joglars che avevano concluso la rappresentazione di «Yo tengo un tio en America». Ma, ripensandoci, non aveva molto senso quell'ipotesi, poiché non basta presentare buoni spettacoli per avere un buon festival. Occorre che un festival sappia coagulare intorno a sé curiosità, dibattito, consenso, dissenso. E' significativo che in questi giorni, in una Chieri molto distratta, gli spettatori meno giovani rimemorassero antiche edizioni: ti ricordi di Perlini? e di Quartucci? Che risse! Lanci di uova, scenografie sfasciate, carcasse d'auto riempite di letame e messe in piazza. Altri tempi, altre passioni. Ora Chieri è una torpida città che non sembra neppure scalfita dalla follia stracciona del teatro. Forse ritiene di non averne bisogno, tuttavia lascia che il festival bruci i suoi bengala. Frequenta con entuasiasmo piazza Cavour, sede gratuita degli spettacoli di cabaret. Per il resto, non si fregia neanche di uno striscione. Così all'avventuroso spettatore restano gli spettacoli e la consolazione che, per lo meno, non vedrà le cose che, alla ripresa della stagione, invaderanno i teatri; vedrà dei pezzi unici, ciò che giustifica, anche negli errori, l'esistenza di un festival. Fra gli ultimi titoli presentati a Chieri, due si sono rivelati di particolare impatto emotivo e spettacolare: «Columbus» del gruppo tedesco Kulturetage e, come si diceva, «Yo tengo un tio en America». «Columbus» ripropone l'impresa del 1492 con macchine, pupazzi, travestimenti sontuosi e con una spietata rimeditazione critica. L'impresa perde la leggendaria grandezza e si propone come spedizione mercantile nata da una megalomania e da un cinismo che giustificano, tra le violenze e le rapacità, anche l'amore tra Colombo e la regina Isabella. Gli attori trascinano con fatica i simboli proprii e della Storia, portano una grande arpa di campane che è anche strumento di tortura, si muovono su strane macchine a ruota, mentre lo spazio si riempie di fantasmi e di sangue. Spettacolo colmo di fantasia, percorso da deliziosi ordigni alla Tinguely, «Columbus» risente purtroppo di qualche lungaggine e, qua e là, di una severità molto tedesca. Mezz'ora di meno lo avrebbe reso magnifico. Strepitoso, invece, «Yo tengo un tio en America». Censurato dal Teatro Municipal di Barcellona che avrebbe dovuto produrlo, immette i conquistatori del nuovo mondo nella metafora di un ospedale psichiatrico. La lezione del «Marat-Sade» non è lontana, ma viene rivissuta con originalità. A scopo terapeutico, i malati s'inventano una storia di conquista, si identificano con gli indios, vivono all'interno di ima foresta formata dalle corde che piovono dal soffitto. I nemici sono i medici dell'ospedale. Arrivano travestiti da guerrieri, in sontuosi abiti cinquecenteschi; le donne indossano gli abiti delle ballerine di flamenco. Gli uni e le altre comunicano con la danza, mentre i reclusi si esprimono con le parole, i gesti, la musica. Resistono fin che possono, ma i più forti sono i medici-conquistatori, che al posto delle spade hanno le siringhe dei calmanti. Violenza, complicità, turpiloquio, flamenco... Lo spettacolo ingoia durezze e tenerezze, urla la sua disperazione travestendola di humour. E si conclude con l'immagine degli odierni colonizzatori che, con sega elettrica, abbattono le foreste. Tutte le corde che piombano contemporaneamente al suolo creano un bell'effetto. Ma, se si vuole, è un finale posticcio, un di più che sporca, turbandola, la superba autonomia del resto. Osvaldo Guerrieri Una scena tratta da «Columbus» del gruppo tedesco Kulturetage Si tratta di un altro avvenimento teatrale proposto quest'anno al Festival di Chieri >
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