FELICE ANDREASI Sturmtruppen funghi e quadri

FELICE ANDREASI Sturmtruppen funghi e quadri la memoria.«Lo giuro: non sono un comico sono un pittore E' tutta colpa di Jannacci» FELICE ANDREASI Sturmtruppen funghi e quadri ASTI DAL NOSTRO INVIATO Cosa mi serve l'estate? Io non mi devo riposare da niente. Continuo a dipingere, andare per funghi, incomincerò a girare nel Cuneese un documentario sul maestro d'Elva, il pittore. Faccio la vita di sempre». Febee Andreasi, uomo dal riso amaro, se ne sta sprofondato nella sua cascina, fra le colline astigiane, tremolanti nella calura di luglio, in attesa che Grazia, la moglie, arrivi con un gelato al melone, una ricetta di casa che prevede albume d'uovo e un pizzico di sale. «L'altro giorno l'abbiamo fatto con mirtilli e lamponi che abbiamo raccolto. Fra tre giorni c'è una buona luna per i funghicosì ho detto no a un film che mi portava via troppo tempo. Un film con Montesano. Ma ci sono state estati faticose e divertentiNel '77 quando con Samperi giravamo, vicino a Roma, Sturmtruppen di Borivi. Eravamo a Pomezia in ima solfatara abbandonata. C'erano 45° e noiCochi, Renato, Corinne Cléryindossavamo divise tedesche di lana e dovevamo battere i denti dal freddo. Una tortura. E dovevamo sentire le urla di un addetto alla produzione che gridava: "Mi avete rovinato: ho già speso otto milioni in acqua minerale!"». Qualche mese fa è morto Cocco, il pappagallo che viveva con Felice e Grazia. Arpino, quando li andava a trovare, non mancava di dire che era lui il cabarettista di casa e che da lui Andreasi «prendeva lezioni». «Arpino - dice Andreasi - lo vidi nella sua ultima estate. Voleva mangiare riso in bianco ma poi ci beveva su bicchieroni di whisky. Un vero suicidio. Veniva qui con discrezione a parlare, a vedere i miei quadri. Non come fa Renato. Ancora poco tempo fa, siamo qui tranquilli e sentiamo un rumore d'elicottero sull'aia. Ci buttiamo fuori e vediamo Pozzetto che ci ondeggia sulla testa. "Cretino - gli grido - puoi cadere. Cosa fai? . E lui: "C'è un posto per atterrare? Ce l'hai una frittatina?". Così, io davanti e lui sopra, lo porto fino a un campo. Ma dopo mezz'ora mi trovo la casa circondata dai carabinieri. Io qui, con mia moglie, sono un clandestino, voglio dipingere e star tranquillo». Ma le estati sul set finiscono per non esserlo mai, vero? «NoCon Sturmtruppen c'era una Corinne Cléry da far girar la testa. Ma faceva caldo e poi a importunarla c'era Teocoli». Lei, sul set non importuna mai? «Una estate giravamo Jus primae noctis. Io facevo il fratacchione. Cercavo di aggrapparmi, per ragioni di ruolo, al décolleté di Marilù Tolo. Il regista era l'adorabile Campanile, che, senza obblighi di parte, prova anche lui a farlo. Marilù invece voleva aggrapparsi a Landò Buzzanca. Che non ne voleva sapere. Diceva di non potere, che aveva famiglia. Poi, un mattino urla di chiamare un dottore, si sente ammalato. Dice, drammaticamente: "Ho ceduto"». Meglio le estati qui, lontano dal mondo caldo e peccaminoso del cinema? «Potrebbero. Ma ima volta cala Pozzetto, una volta sale la Finanza... E' un mattino: bim-bum-bam. Colpi al cancello. Urla: "Siamo della Finanza, apra". Entrano di corsa, come il Vietnam, con la macchina da scrivere. La piazzano sul tavolo. "Cerchiamo la seconda contabilità", dicono. E io a dirgli che non troveranno neppure la prima, perché ce l'ha il commercialista a Milano. Tutta la mattina perdo, non posso andare a funghi e dipingere. Quando se ne vanno dicono: "Ci vediamo fra un mese. Saluti dal suo amico Paolo Conte". Erano andati a mitragliare anche da lui. Che vita, l'estate». Arriva, con Grazia, un meraviglioso gelato al melone. Andreasi mangia e ride. «Questo freddo mi fa venire in mente dice - Renato che va a cercare Thoeni. Gli era venuta voglia di conoscerlo. Va in Cadore, cammina e cammina,- arriva a una baita. Toc-toc, bussa. Dopo un po' Thoeni, in vestaglia, gli apre. Renato gli dice: "Uei, sai chi sono?". Thoeni ci pensa un po' e gli dice: "Lei è Cochi e Renato". Lo dice serio, con quella faccia che ha. Renato, che ha fatto tutta quella strada, gli dice: "Andiamo a mangiare un boccone?". Thoeni, ci pensa su e dice: "No". E chiude la porta». Più orso di lei? «Io ho da fare, devo dipingere, farmi i colori, scrivere. Oddo disperdermi. Ho i miei funghi, quando ne trovo uno ringrazio i folletti del bosco di quel dono. Mi fermo a parlargli. Odio il funghicidio, chi calpesta i funghi velenosi. Il fungo è un'opera d'arte. Ho trovato qualche giorno fa tre reali. Mi sarei messo a piangere dall'emozione. Prima di raccoglierli sono rimasto inginocchiato, commosso. Poi, a casa: olio, pepe e sale. Questa è l'estate della vita: guardare una tela, entrare nel quadro. Pensare ai colori, ai volumi, alla luce, alla partitura tonale. Ah, i miei Rembrandt, Tiziano, Rubens. Io voglio fare !il pittore non l'attore. «I bei tempi di Torino, via ;Moncalvo. C'era il Pit, il Picci;nelb, sigaretta all'angolo della bocca. Disegnava con il lucido da scarpe, costava meno. Poi andava a Genova dai Sutter, che avevano una fabbrica di lucidi da scarpe, a fargli vedere "le opere". C'era Gim, il Gaspardo Moro, lui amava Hemingway e scriveva I monti della luna, c'era la trattoria dei Goffi con la bella Rosin che cantava. «C'era Ceronetti che traduceva i Salmi e il padre, che l'adorava, gli diceva: "Hai finito con i nuovi salumi?". Ceronetti si presentava alla laurea con una tesi su se stesso, sulla poesia "teoidetica" e diceva ai professori: "In parole povere" e quelli lo sgridavano dicendogli: "Non dica "in parole povere" siamo tutti togati". Bei tempi, io dipingevo la Gran Madre, i Cap- puccini, ritratti di Bertolt Brecht. Carniccio aveva stima, di me. Potevo essere solo un pittore». E invece arrivarono le «cattive compagnie»? «Proprio così. Maurizio Jona, il jazzista mi portò al cabaret "Los Amigos", in uno scantinato, vicino a Mirafiori. Dopo sette whisky mi trovai in pedana a dire: "Salve o Piemonte". Da lì, perché fui applaudito, la china. Il proprietario, un disegnatore di insetti, mi scritturò e poi, un impiegato dall'aria frustrata, dicendomi: "Bravo signore", mi portò al Derby di Milano. Era l'adorabile, pazzo, Enzo Jannacci. E io andai sempre più giù, verso il mestiere dell'attore. «Vivevo in una stanza con Toffolo, recitavo con Cochi e Renato, con Enzo. Recitavamo fino alle tre poi facevamo gli stupidi fino alle sei. Loro dormivano poi dodici ore. Io dopo due, da buon piemontese, ero in piedi "per lavorare". Dopo qualche mese credevo di impazzire: non dormivo più, non riuscivo più a dormire. «Così, Jannacci mi disse di andare a casa sua che mi avrebbe guarito. Viveva con la madre, la madre è uguale a lui e parla come lui. Due pazzi. Cercarono di uccidermi. Lei offrendomi "le polpettine dell'Enzo", carne con dentro la marmellata. E gelati con sopra filetti d'aringa. Lui dandomi, la chiamava "terapia d'urto", delle pastiglie colorate, che mi fecero sfiorare il coma profondo. Enzo è per gli esperimenti». Fu l'addio alle estati di sola pittura? «Sì, però imparai a difendermi. Telefona Renato e dice: "Andate a Roma a casa mia, fatevi aprire dalla Pina, cosa aspettate?". E noi andiamo, e io mi vado a vedere Scipione. L'ho fatto, ultimamente. Il ritratto di Ungaretti è annerito, irriconoscibile. Vado a Parigi a vedere Modigliani, me lo ristudio. Ha grande qualità pittorica, non è mai decorativo. Dove non riesco invece ad andare è ad Arles, sui luoghi di Van Gogh, un pittore che mi prende al cuore. In lui c'è il dramma dell'esistere sotto un cielo sereno. Dico a Grazia di andarci, di raccontarmi. Io non ce la faccio». Com'è la comicità di oggi? «Ci sono tanti battutisti veloci. Vanno a tempo di spot. Mi sembra che manchino di spessore. Oggi per far la satira ti pagano, una volta ti tagliavano la testa. Che senso ha farla?». Lei cosa fa? «Io faccio l'uomo solo. Punto la lente d'ingrandimento su di me, cerco vizi e assenze di quotidiane virtù. Per esempio, io che odio parole come: perlinato, angolo cottura, ferie, pensione, ho un telefonino. Lo chiamo il "telefunin da piciu", ma ce l'ho. E ce l'ho perché quando vado in Val Maire, dove abbiamo una baita, siamo fuori dal mondo. Io non guido e se succede qualcosa quel "telefunin da piciu" è l'unica ancora di salvezza. Io però mi vedo, mentre cerco di orientarlo e farlo funzionare. Non è come se facessi volare un aquilone ma come se tenessi su un dirigibile. Ho un bel cercare la frequenza. «E quando vado all'unico bar e con il "telefunin da piciu" cerco di farmi mandare i messaggi dalla mia segreteria telefomca vedo le facce dei giocatori di carte come mi guardano. Io ho la "parola codice" devo dire: "pronto". E posso dirlo venti volte se ci sono venti messaggi. E quelli scrollano la testa e qualcuno dice: "Ma non capisce che non c'è nessuno!". Mi prendono per fesso e io cosa devo fare? Spiegare le nuove tecnologie? Gb faccio vedere che so trovare i funghi reali». Vacanze con gli amici? «Se non dipingo. Andiamo sui laghi a vedere le azalee di Renato, a Roana d'Asiago o a Murano dai Toffolo a mangiare risi e bisi o le moecche. Non andiamo dalla mammà di Enzo per non sentirmi dire: signor Andreozzi, Andreucci, Andreazzi. E a Enzo: "Hai messo le scarpe gialle?". No, ci spostiamo poco. Adesso mi interessa capire questo maestro d'Elva, questo pittore misterioso dal gusto di troubadour. C'è una valle incantevole, fresca. Starò lì, elicottero di Renato permettendo». Senza musica, senza cinema? «Sono rimasto a Les enfants du Paradis e a Edith Piai', la voce del secolo. E alla musica dei funghi, mentre nascono dal terreno». Fuori, sull'aia, c'è l'ombra del grande ciliegio. Un ciliegio che faceva ridere Giovanni Arpino: quando era solo un rametto era stato annodato e così è cresciuto. E lo scrittore l'aveva preso a simbolo dell'Andreasi: «Pittore da un parte, con religione e pudicizia mai abbastanza lodate, e fa satira dall'altra». All'ombra di quel ciliegio c'è il bunker dei colori, una casetta di mattoni rossi piena di terre e fusti di cobalto. Una montagna di colori da poter ridipingere tutta la verde campagna dell'Astigiano. «Tenetemi alla larga dalla Finanza, da Renato, dal suo elicottero e dalla madre di Enzo» «Sì, ho il cellulare, il "telefunin da piciu' eodioilperlinato e l'angolo cottura» RACCONTI D'ESTATE Felice Andreas! con Katalin Murany Nella foto grande: monologo con chitarra In alto a destra: Toffolo e Jannacci Sopra: Cochi & Renato e la fetale Corinne Cléry Insieme hanno lavorato nello Sturmtruppen di Bonvi Andreasi: «Eravamo a Pomezia in una solfatara abbandonata C'erano quarantacinque gradi, indossavamo divise tedesche di lana e dovevamo battere i denti dal freddo» mfUsMgmilccuacsVbOuCsmsemfnppremd"avbecdvcl"vEqcdregvnaRTlmm Marilù Tolo Andreasi faceva il prete e doveva attaccarsi alla sua scollatura