AMADO Una cella garofano e cannella

AMADO Una cella garofano e cannellala memoria. «Estate del 1937: la prima delle undici volte che il mio Brasile mi ha arrestato» AMADO Una cella garofano e cannella il PARIGI ISOGNA fare attenzione aveva detto Jorge Amado al telefono - La casa ha dieci porte tutte uguali. Bisogna cercare la prima sul lato sinistro, e sul campanello non c'è nessun nome». Sbagliare è facile. Il rischio non annunciato era quello di entrare in una inquietante «Accademia di magia» deserta, tutta velluti rossi e dorature, saliscendi, tende, un labirinto impossibile. A giudicare da quanto è divertito, c'è da sospettare che l'abbia fatto apposta. E', in ogni modo, un Amado di ottimo umore. Ottantanni il 10 di agosto, dei più arzilli mai visti, in piena attività. Sono le cinque, dormiva perché dopo aver lavorato dalle cinque del mattino sino alle due e un gran pranzo di quelli che cucina Zelia, non c'è niente di meglio che sdraiarsi in chaise-longue e lasciarsi andare ai ricordi... «1937, è l'estate che per prima si affaccia alla memoria. Quando mi hanno arrestato. Dopo, è successo altre dieci volte, ma fino ad allora mai. Avevo solo venticinque anni, avevo però già pubblicato cinque o sei libri ed ero noto per la mia attività politica. Arrivavo dagli Stati Uniti, dov'ero andato a passare qualche mese. Appena sbarcato a Belem, nel Nord dell'Amazzonia, ho avuto la ptospettiva del colpo di Stato di Vargas, una gran confusione. Ho deciso subito che la cosa migliore era prendere la via del fiume, percorrerlo fino a Manaus per raggiungere poi la Colombia. «Ma quattro giorni dopo la polizia mi raggiunse e con l'accusa imbecille e campata per aria di essere un rivoltoso, mi misero in carcere a Manaus. Dopo un po' mi reimbarcarono e facendomi costeggiare tutto il Brasile mi trasferirono a Rio. Lì fu una pacchia. Eravamo tre prigionieri politici: io, un etnologo che aveva lavorato al ministero dell'Agricoltura e un portoghese arrestato perché era stato suocero di un ufficiale dell'aviazione di Rio. Non lo era neanche più, perché figlia e genero si erano separati, ma bastava che lo fosse stato. «In tre avevamo uno stanzone enorme tutto per noi. Fuori c'erano quaranta gradi all'ombra, noi lì dentro avevamo una doccia e siccome il portoghese era enormemente ncco, da casa gli arrivavano ogni giorno casse di roba buonissima da mangiare e bottiglie su bottiglie di birra. Lui spartiva tutto e poi anche quando fu liberato, prima di noi grazie agli appoggi, continuò a farci arrivare le stesse casse. Voglio dire che non fu per nulla un trauma. La tristezza era nel vedere invece i prigionieri comuni, che dividevano in almeno cento lo spazio che noi avevamo in tre ed erano pieni di malattie, compresa la lebbra. Uno spettacolo terrificante. Feci un grande chiasso, contro lo sprezzo per quei malati. Ma per noi era tutt'altra cosa, i poliziotti addirittura ci offrivano donnine per la notte». Di carcere in carcere per la militanza comunista. Otto anni, un periodo che Amado non può dimenticare ma di cui con pudore evoca di preferenza gli aspetti positivi. 1945, altra estate. Questa volta a San Paolo, '.'estate dell'ultimo arresto. «Sì, sono ormai 47 anni che nessuno mi arresta più, comincio ad abituarmi». «Quell'estate fu di grande importanza storica e culturale per il Brasile. Io ero andato a San Paolo perché si organizzava il primo congresso degli scrittori. La dittatura dello Stato Nuovo c'era ancora, doveva durare fmo alla fine dell'anno, ma durante quel congresso per la prima volta la denunciammo ufficialmente, con un documento. Per me però, molto più di tutto questo, quei giorni sono indimenticabili perché fu in quell'occasione che incontrai Zelia Cattai. Anche lei era a San Paolo per ragioni politiche, figlia di anarchici italiani emigrati poi divenuti comunisti, anche lei militava nel partito. Era lì per aiutare nell'organizzazione di un grande meeting in cui dovevano parlare capi comunisti che erano alla loro prima apparizione dopo dieci anni di carcere. «Lei mi conosceva come scrittore, i miei libri erano stati proibiti per molto tempo in Brasile ma nel '42 avevano cominciato a circolare. Quell'anno avevo pubblicato Il cammino della speranza. Ricordo, era di pomeriggio, quasi sera. L'avevo notata nei giorni precedenti. Le chiesi se poteva restare ad aiutarmi, volevo fare un comunicato stampa. C'era anche un altro uomo, un fisico famoso che le aveva chiesto la stessa cosa. Lei venne con me. Io la sedetti alla macchina per scrivere e cominciai a dettare, serissimo. Lei, candida, mi disse che era ben contenta di aiutarmi ma che non sapeva battere a macchina. Io allora sbottai: "Ma lei è completamente inutile!"». «Sono completamente pazza, altro che inutile». E Zelia arriva adesso da fuori e s'inserisce sorridendo nel racconto del marito. «Lo ero allora e continuo a esserlo. Guarda quanti sacchi di roba ho comprato e ho portato fin quassù sotto il sole». «Ma neanche una baguette», protesta Amado. «Hai stramangiato a pranzo, a cena siamo invitati: non hai nessun bisogno di una baguette adesso». «Facciamo mezza», propone lui. «Non ci Enso neppure» taglia corto Ze, quasi brusca. «E' così, sono 47 anni che mi nega il pane», scherza Amado, mentre Zelia esce di nuovo. «Ma dopo quel mio esordio - vedo ancora gli occhi che fece, era bellissima, lo è anche oggi - tre mesi dopo diventava mia moglie. Anche se per la legge siamo sposati solo dal... mi pare dal '78, è lei che sa le date, dopo le chiediamo. Perché solo allora è stata libera dal matrimonio precedente, il divorzio a quei tempi non esisteva in Brasile. Il che non ci ha impedito di avere due figli, Joào e Paloma, e poi col tempo una tribù di nove nipoti». Sarà forse per uno della tribù la tigre di plastica che campeggia sul tappeto con una zampa alzata a puntare un bronzo lungo lungo pseudo-Giacometti. «Ma non parlavo dell'ultimo arresto?» riprende Amado, che è attaccatissimo ai nipotini ma nonostante l'età continua a considerarsi nonno malvolentieri. «Quella volta mi arrestarono con l'inganno. Me e cinquecento altre persone. Un pomeriggio mi aveva telefonato il mio editore per dirmi che un grande proprietario terriero aveva appena acquistato tutti ì miei libri usciti fino a quel momento ed era a San Paolo, avrebbe avuto piacere di incontrarmi per una dedica. Risposi che mi andava bene il giorno dopo alle quattro e diedi un appuntamento là vicino agli urtici dove lavoravamo, in pieno centro. Quando il giorno dopo rni presentai con un po' d'anticipo, c'era sì il mio lettore ma anche il commissario della polizia politica che tutti conoscevamo bene, celebre per la sua brutalità. «Venni arrestato e quell'altro, il proprietario terriero che non c'entrava nulla, anche. Ci portarono alla centrale e là, nel patio, c'erano almeno cinquecento persone. Avevano fatto una retata. Mi trattennero poi per poco, mi rilasciarono senza nessuna spiegazione come senza spiegazione mi avevano messo dentro. Appena arrivato a casa, cominciò la sfilata dei famigliari di quelli che erano ancora dentro. Volevano sapere perché e come ero stato liberato. Mi ricordo soprattutto una spagnola di una certa età. Era madre di un'attivista sindacale bellissima, Isabel, di cui ero amico. La madre venne da me, urlava come un'ossessa. "Mia figlia è vergine!", non so di che cosa mi considerasse responsabile, della verginità di Isabel o del fatto che io ero libero e lei no. «Comunque sia, in breve tutti furono messi fuori. Tutti, tranne il mio povero lettore che veniva da non so che paese lon> --• :«>, non c'erano famigliari che si desse.o da fare nell'immediato. Restò dentro più di tutti. Poi i suoi non avendo più notizie cominciarono a farlo cercare negli ospedali e negli obitori. Finì per venire rilasciato. Credo che abbia buttato i miei libri e non ne abbia mai più comperato nessuno». «Ma non hai ancora finito di raccontare storie?». E' Zelia che ritorna fresca, con il bel sorriso largo e un vassoio di spremute d'arancia. Al centro, in bella mostra un'intera baguette. «Solo perché andando dal fotografo ho incontrato una panetteria... Ieri è venuto a trovarci un pezfco grosso, uomo di fiducia dell'ex Presidente del Brasile, mentre era qui ho scattato tutto un rullino». Mostra il risultato: sono, dalla prima all'ultima, foto di Jorge. Parlando con l'ospite era infervorato e gesticolava come un pazzo. Tenendo la mazzetta di fotografie con una mano e facendole scorrere rapidamente con l'altra si vede Amado come in un film, agitarsi e battere i pugni sul tavolo, poi anche ridere e fare smorfie. «Nel '48 venni in Italia», riprende lui, tutt'altro che stanco di raccontare. «Fu per le elezioni, Zelia era ancora in Brasile perché Joào aveva pochi mesi. Io ero a Parigi e lì con un gruppo di amici brasiliani - eravamo in molti, esuli in Francia - decidemmo di affittare un pullman per venire ad assistere alla presa di potere dei comunisti. Sicuri. C'era con noi anche un grande pittore brasiliano accompagnato dalla moglie, la Braga, nota giornalista. Avevamo un entusiasmo da ragazzini, vedemmo la fine della campagna elettorale. «In quei giorni conobbi persone con cui poi sono rimasto sempre in contatto: Carlo Levi, Pratolini, Rossellini, Guttuso. E Zavattini, un grande amico. Per seguire i risultati in tempo reale, ci eravamo riuniti alla redazione de l'Unità. Non volevamo credere, come succede in questi casi. Si continuava a dire "è parziale", "non si può ancora dire"... Ma a un certo punto arrivò Togliatti. Ricordo che quando entrò ci fu un momento di tragico silenzio, alla fine del quale lui disse: "Abbiamo perso". Solo allora ci rassegnammo alla disfatta. «Noi però, che eravamo venuti apposta, andammo lo stesso a festeggiare in trattoria. C'era anche il carissimo Dario Puccini, il mio primo traduttore italiano. E poi andammo a casa di Guttuso, e c'era tantissima gente. La sola davvero afflitta del gruppo era la Braga. Aveva scritto in anticipo gli articoli per il suo giornale sul trionfo comunista, e dovette a tarda ora ricominciare da capo. Io invece ero molto allegro, anche perché pensavo che uscendo sarei partito per Genova dove Ze Ha e il piccoletto, venuti a rag giungermi con una nave argentina, stavano per sbarcare». L'estate successiva Jorge e Ze lia tornarono in Italia. «Quella volta lì, nel '49, rischiò davvero di finire male. Fu quando sco urinimi) il ferragosto, la parola e la cosa. Forse saremmo ancora in prigione per debiti, non fosse sta to per il conte, voglio dire Valen tino Bompiani. Grand'uomo, fu l'unica volta che lo vidi di persona, ma l'ho qui davanti agli occhi o a o a ro e n u i come fosse ora. «La casa editrice mi doveva una sommetta. Poca cosa, ma per noi che eravamo poverissimi era molto importante. Per evitare lunghi giri, rischi e ritardi, dissi che preferivo venire io a ritirarla a Milano. Arrivammo agli uffici Bompiani, tranquilli e contenti, il mattino del 15 di agosto. Non c'era un'anima in tutta la città e noi, furbi, eravamo venuti senza un soldo pensando che ci saremmo serviti di quelli che dovevamo riscuotere. Per giunta, eravamo scesi in un bell'albergo, che mai ci saremmo potuti permettere normalmente. Non avevamo neppure degli spicci per un panino. «Per fortuna, il guardiano della casa editrice si prese a cuore la situazione. Io non parlavo una parola d'italiano, ma Zelia gli spiegò tutto con tale accoramento! Era la prima volta che la sentivo esprimersi nella lingua delle sue origini, la parlò come non ne avesse mai usata un'altra. Quel santo guardiano riuscì a raggiungere il conte Bompiani nella sua residenza di campagna: il pomeriggio stesso ce lo vedemmo arrivare, proprio lui, il conte, squisito, in albergo. Con la somma in contanti, come avevo chiesto, siccome le banche erano chiuse. Lo vedemmo come un angelo salvatore, e nella mia mente è rimasta quell'immagine. Ogni anno, finché è stato vivo, gli ho telefonato per salutarlo e ricordar gii quella data». La vita vagabonda finì poi nel '52, e nel '55 anche la militanza politica. Amado lasciò incarichi e partito («ma non sono mai diventato anticomunista», ci tiene a precisare) per dedicarsi tutto alle sue storie e farsi grande cantore del popolo brasiliano. Là, chiunque ha letto Gabriella, garofano e cannella. A Ilheus, la città dove si svolge il romanzo, tutto si chiama Gabriella: ristoranti, alberghi, strade. Ogni anno c'è il concorso per la Gabriella più bella, che vince un viaggio in Portogallo. «Mio figlio è nella giuria. Zelia sostiene che è molto rigoroso, secondo me almeno un po' se ne approfitta». A Bahia non c'è nessuno che dica «Amado», basta «lui». E' un nume tutelare, con il vantaggio rispetto alle divinità comuni di avere un indirizzo, una casa in cui chiunque può entrare per parlargli. «E' per questo - dice che sono venuto a Parigi: per finire il libro. A Bahia è impossibile lavorare, sono sempre circondato di gente». Nel Marais, con i maghi nella porta accanto, Amado sta correggendo le bozze di un libro di memorie atipico: Navegacao de Cabotagem, sottotitolo «Note per una autobiografia che non scriverò». Ma deve tornare presto in Brasile. A Ilheus, per gli ottantanni, è prevista una settimana intera di festeggiamenti. A Bahia quindici giorni, e tutti vorrebbero averlo presente. A cominciare dalle suore orsoline, che danno il via con una messa solenne in suo onore. «E' una cosa che mi tocca molto, non si può proprio dire che io sono cattolico, ma loro sono sorelle molto progressiste». Questa volta Zelia lo interrompe senza parole: si presenta portando una cravatta, un paio di vere scarpe chiuse e una giacca nera. E' ora di prepararsi per la cena all'ambasciata. Di fronte alla mise, Amado torce il naso: «La giacca almeno non potrei metterla blu?». o . l a i o , r a i n ' i i a «Zelia era matta: voleva aiutarmi ma non sapeva battere a macchina. Perciò la sposai» «Togliatti entrò all'Unità e mormorò: abbiamo perso» «Quella volta che Bompiani mi portò i soldi in hotel» W RACCONTI D'ESTATE