TESTA il figlio dello spot

TESTA il figlio dello spot padri E figli. Marco ricorda la pesante eredità di Armando, l'uomo che inventò la pubblicità italiana TESTA il figlio dello spot Papà giocava con cavalli, pampa e pistole, e cantava. «Chi mi tocca Carmencita pagherà con la sua vita!» W"ì] TORINO ly RANO gli Anni Cinmi quanta, in una casa to- I ilrinese che a tratti semMél brava un po' il paese dei balocchi: un ragazzino guardava, immobile sulla sua sedia, il papà che all'apparenza giocava tutto il giorno insieme con gli amici. C'erano un fortino, un villaggio del West, cavalli stilizzati, cicli e orizzonti, bellissime pistole in miniatura, macchine da presa. Nella pampa sconfinata, dove appunto le pistole dettano legge, il caballero misterioso cercava la bellissima donna che gli aveva spezzato il cuore. Aveva per corpo un tronco di cono in gesso, era alto una spanna, dotato di nasone, sombrero e occhi a palla. Si muoveva molto lentamente, perché il papà realizzava il film «a passo uno», come nei cartoni animati, fotogramma per fotogramma. Aveva un nemico giurato, il bandito Gargiulo, fazzolettone sul naso ed eloquio essenziale, che aveva rapito la bellissima donna e tuonava: «Chi mi tocca Carmencita pagherà con la sua vita!». II bambino sulla sedia non osava fiatare. Sentiva i «grandi» che cercavano le battute di dialogo, e probabilmente sognava. «Caballero, che pistola, senza lei mi sento sola!». Non coglieva lo sberleffo goliardico, ma si entusiasmava come avrebbero fatto di lì a poco tutti i suoi coetanei e anche quelli più grandi, e tutti i bevitori di caffè e il pubblico della prima televisione italiana, quando il cavaliere misterioso, agitando occhi e sombrero, chiudeva la faccenda con il suo ultimativo «Carmencita sei già mia, chiudi il gas e vieni via». Il bambino sulla sedia si chiamava Marco Testa, e il papà che giocava con quegli strani pupazzi era Armando, il grande inventore di pubblicità, scomparso nel marzo scorso. Adesso, nell'ufficio che fu di suo padre, Marco Testa ricorda come già allora sapesse benissimo che il gioco era terribilmente serio. Lo sapeva oscuramente, ma proprio per questo stava cosi buono. Quel padre era una specie di mago, affettuoso e inarrivabile, troppo bravo, troppo «forte», che lo portava il sabato e la domenica a vedere le mostre d'arte. «Io non gli ero molto grato. Preferivo quando andavamo alle giostre». Ora, che da tempo ha chiuso i suoi conti edipici, guarda la gigantografia che domina lo studio e lo ritrae, bambino di tre anni, sulla scrivania di un papà giovane e sorridente. L'ha messa lui, quella foto sul muro, ed è una delle poche modifiche nell'ufficio. «Dopo la scomparsa di papà, l'ho lasciato chiuso per qualche mese. C'è voluto tempo per entrare qui». Marco Testa ha 41 anni, dall'ottobre dell'8& è amministratore delegato della grande azienda di pubblicità fondata dal padre, la prima in Italia per fatturato davanti aMe multinazionali e ormai internazionale, con alleanze e agenzie controllate in tutta Europa, dall'Inghilterra alla Russia, da Zagabria alla Polonia. E' a capo dell'unico colosso della pubblicità che sia anche un'azienda di famiglia, e rappresenta in questo mondo una curiosa eccezione perché la pubblicità, in genere, non si eredita, non c'è passaggio e successione diretta da una generazione all'altra. Figlio d'arte, ma in un modo tutto suo «Per mio padre era uno scandalo che non disegnassi. A un certo punto si era messo a sperare che almeno facessi fotografie». Nemmeno quello. Marco Testa, davanti all'uomo che ha inventato un nuovo modo di far pubblicità, e che forse in Italia ha anche inventato un mondo della pubblicità, doveva intanto dimostrare che la seconda generazione valeva qualcosa. Una strada tutta in salita: il suo «rito d'iniziazione», dopo l'incanto bambino dei coni di gesso, di Carmencita e del cavaliere misterioso, è durato a lungo. Stare a bottega non bastava; e allora, dopo la maturità, se ne andò a fare l'apprendistato in America, e anche a specializzarsi alla New York University. Quando torno, era diventato un po' troppo «smerikano», e lo sguardo ironico del padre lo fulminava nei momenti più imprevedibili, per inarcarsi magari in una delle sue grandi risate. «Ero un ragazzino con poca esperienza. C'erano conflitti, ma solo quando avevo torto. Dopo, è stato molto bello», racconta. Intanto lavorava alla produzione, si occupava degli scritti come «copywriter», si dedicava sotto la guida dello zio materno alla Arno Film, una società collegata. E il padre in attesa, non inarrivabile, non facile, con tutta la sua storia e il suo genio: «Io gli raccontavo le cose che facevo, tutto fino all'ultimo. Lui mi guardava perplesso, ma si vedeva che era anche contento». Armando Testa concedeva poco. «Papà era un artista che aveva una grande visione de) mondo della pubblicità. Io in qualche modo risentivo della scuola americana, pensavo alla comunicazione nel senso dell'evoluzione sociale». Ma forse era solo un problema di linguaggio. C'erano incomprensioni? «No, questo mai». Eppure, a un certo punto, Marco Testa si mette da solo. Decide di misurarsi a distanza con i! grande papà, va a Mila¬ no e apre un'agenzia dal titolo curioso, pieno di risonanze psicologiche: «L'Altra». Il padre lo appoggia, «ma in modo un po' critico». «Mi diceva che non avevo esperienza, e che non sarebbe stato poi un gran successo. Aveva ragione. Ho cominciato con un cliente, e in sei mesi l'ho perso Però è anche vero che a poco a poco ne ho trovati altri. Mi sentivo ancora mollo "americano", ma intanto le cose stavano prendendo la giusta piega». Poi, nell'82, l'offerta di entrare nel consiglio d'amministrazione. «Mi ha detto: vuoi tare come ho fatto io o vuoi cominciare da qui?». Forse è stata una campagna pubblicitaria a convincere quel padre esigente. Forse quel padre troppo bravo aveva fretta di lasciarsi convincere. E così il figlio «predestinato», cresciuto nella pubblicità senza mai prendere un pennello in mano, superò l'ultimo esame di ammissione. E' stata dura? «Bisognava convincere papà, ma anche gli altri: non dimentichi che siamo un'azienda famigliare, fondata da Armando Testa, dalla mamma Lidia De Barberis e dallo zio Franco De Barberis, che ora è presidente». E accanto lavorano le sorelle Delfina e Antonella, la seconda moglie di Armando Testa, Gemma, Mario De Barberis, Andrea Gavotto Eugenio Bona, lo staff creativo guidato da Silvano Guidone. Una multinazionale di famiglia, molto «torinese»: per «ereditarla», è stato necessario andarsene da Torino, girare il mondo e lucidare sempre i cromosomi sabaudi. «Ho vissuto tanto a Milano, ma non ho neppure perso l'accento piemontese. E sono sicuro che papà ha deciso di fidarsi solo quando ha capito che ero "torinese" sul serio», scherza Marco Testa, che da un anno è anche presidente di «Pubblicità progresso». Ma non sta «sparando» un luogo comune venato d'ironia: quella è cultura aziendale. «La nostra agenzia attira per la creatività e poi si tiene i clienti per anni». Fa l'esempio di Pippo, l'ippopotamo azzurro nato con i pannolini Lines, che ha già compiuto 26 anni e non accusa segni di stanchezza, emblema delle campagne «che durano». Per lui, emblema anche della «mentalità piemontese»: «Negli Anni Ottanta, quelli delle scalate finanziarie, noi spingevamo sui servizi per i clienti. Abbiamo sempre tenuto i piedi per terra: la differenza del nostro modo di avvicinarci al mercato è tutta qui». L'idea su cui è nata la Armando Testa era semplice: essere geniali non basta. Ed è passata dal padre al figlio: «Il mio modo di vivere la pubblicità è lo stesso. Lui, che pure era una persona eccezionalmente dotata, mi insegnpva che la creatività si coltiva sul vasino: grande impegno e lavorare. Così abbiamo compiuto due piccoli miracoli: siamo diventati la fi ima azienda italiana partendo da Torino, e adesso anche gli unici italiani "muliinazlcnali"». Il segno più vistoso è la campagna in utta Europa per la Lancia, 'ultimo grande acquisto, il più ecente. Marco Testa ne è giustamente fiero, i «clienti importanti» sono un messaggio postumo al padre. Solo quando cominciò a catturarli da sé Armando Testa si convinse che andava bene così, che quel figlio refrattario ai pennelli aveva scelto la giusta materia d'esame. «Nel periodo della mia agenzia milanese, "L'Altra", andavo a caccia di creativi» e cioè di «artisti» come il padre, quelli che inventano il disegno, l'idea semplice ed efficace destinata a infilarsi come un cuneo nell'immaginazione della gente. Non era sempre facile, i creativi a volte sono ombrosi. «Romano Bettola, fier esempio, bisognava andarci a cercare di notte». Aveva nventato una pubblicità celeberrima dei tempi «eroici», il cartone animato con le avventure di Jo-Condor: «In tutto il mondo, in tutto il mondo, nessuno è cattivo come Jo-Condor». E naturalmente aveva lavorato con Armando Testa. Era difficile sottrarsi al confronto. «Poi, con i miei creativi, vinsi una campagna dedicata alle sigarette Milde Sorte per conto dell'agenzia romana di papà. Inventammo una sigaretta che respirava». Era una pubblicità che stava a pennello nella tradizione e* nella «scuola» del padre, fu il passaporto per Torino. «Non mi bastava dimostrare a mio padre che ero bravo. Dovevo convincere tutti gli altri, la famiglia». C'è riuscito? Marco Testa sorrìde, ricorda che uno dei prìncipi della «torinesità» è l'imperativo categorico di non ostentare mai. Però c'è riuscito. «Il passo di grande crescita è venuto proprio negli ultimi anni, durante i quali l'agenzia si è ristrutturata. Ma ciò non ha impedito che, quando è mancato Capa, gli americani abiano subito cercato di convincermi a vendere: mi dicevano che non ce l'avremmo fatta, che la pubblicità non si può ereditare. Io li ho ascoltati tutti, dimostrando interesse, e così sono riuscito anche a studiarli, a conoscerli meglio». Lei ritiene di aver «ereditato» una scuola? «La scuola di papà è molto riconoscibile, soprattutto quando si tratta di pubblicità a beni di largo consumo. Negli altri casi - pensiamo alle banche o ai grandi enti - le sfaccettature sono molte, si cerca di mantenere e di innovare giorno per giorno. La nostra scuola creativa deve continuare, di questo sono certo, e ad essa, alla sua logica, devono attenersi le nostre campagne pubblicitarie». La Armando Testa è ora un gruppo che fattura più di 68 miliardi e ne amministra 525 e mezzo. Ha 400 dipendenti, una struttura complessa e internazionale, un'identità precisa, ancorata al nome del fondatore e una storia ormai lunga alle spalle. Nell'ufficio di Marco Testa, proprio dietro la scrivania, c'è una celebre immagine del padre, il feltro nero nella mano destra, la sua risata dilagante e contagiosa. E' un'immagine pubblica, agiografica, o c'è anche una verità privata e famigliare? «Guardi, una delle cose su cui insisteva mio papà era che dovevo imparare a ridere». Lui era sabaudo ed io amerikano: ci furono conflitti Misi su un'agenzia a Milano: mi volle con sé quando capì lamiatorinesità «Alla sua morte, dagli Usa si sono fatti avanti: la pubblicità non si può 1 ereditare, venda a noi. Ho resistito, sono felice, anche se non so disegnare» W RACCONTI D'ESTATI ana, fu di core beerripeva per Quel ago, bile, rte», a doostre lt A destra: la famosa coppia degli albori della pubblicità televisiva: il Caballero e Carmencita Sopra: Marco Testa Sotto: Armando Testa con i figli Marco e Delfina peratostenpubbre. Imostno riconoLeto» upapàprattpubbsummo a- le si cenovanostr