Dai Madonia minacce alla Del Ponte

La mafia pronta a sparare su Di Pietro La denuncia in un rapporto dei carabinieri. Scorta rafforzata, super protetti i famigliari La mafia pronta a sparare su Di Pietro «Lo vuole morto, come Borsellino» MILANO. E' allarme rosso per il giudice Antonio Di Pietro. Giovedì 16 luglio, 72 ore prima che l'innesco elettronico facesse brillare l'esplosivo in via D'Amelio a Palermo uccidendo Paolo Borsellino e i 5 uomini della sua scorta, un rapporto supersegreto dei carabinieri di Milano metteva in allerta su due possibili, imminenti attentati. 11 primo contro il giudice antimafia siciliano, il secondo contro il giudice antitangenti Di Pietro. Quattro cartelle dattiloscrìtte, intestate Ros - raggruppamento operativo speciale. Si tratta di «informazioni confidenziali». Nel mirino delle cosche il magistrato palermitano, «memoria storica» delle inchieste contro la mafia, e il giudice milanese arrivato al ter/o livello delle tangenti, quello che svela i legami tra politica e affari; pista che porta in Svizzera, nelle banche dei conti cifrati, dove accanto ai soldi delle tangenti, finiscono pure le naitolire. Nel rapporto inviVo dù carabinieri compaiono < nomi di due famiglie, quella di Totò Riina capo indiscusso delle famiglie vincenti di Cosa Nostra - e quella di Gaetano Fidanzati da due anni in carcere a Buenos Aires, indicato come l'uomo di collegamento tra la mafia e i narcotrafficanti colombiani. Cosa lega questi due nomi a Di Pietro? Alla famiglia Riina - dice il rapporto - sarebbe direttamente da collegare un'impresa di Milano. T titolari sono «pesci piccoli» del clan, tutti incensurati. E' un'impresa «pulita», ma dietro alla facciata di comodo c'è una intensa attività di riciclaggio di soldi sporchi. Da Milano verso la Svizzera. La stessa strada che il giudice Di Pietro sta battendo per le tangenti. Canali diversi? Quanto vicini? Il boss Gaetano Fidanzati non è un nome nuovo ai giudici milanesi. Anche lui ha interessi molto vicini a Milano. Due mesi fa, in una villetta di Olda, in Val Taleggio, vicino a Bergamo, il giudice Francesca Marcelli ha scoperto una raffinerìa di cocaina che serviva tutto il Nord Italia. Ventuno le persone arrestate. Tra loro i figli di don Tano, Guglielmo e Giuseppe, trovati con 16 chili di coca, fucili, pistole e 100 milioni in contanti. «Pinha colada», il nome in codice dell'operazione compiuta dal Ros dei carabinieri, gli stessi che hanno stilato quelle 4 cartelle di informativa che non hanno salvato la vita al giudice Borsellino, ma ora hanno messo in allarme il giudice Di Pietro. C'è anche il nome di un politico in quel rapporto. E' un politico dell'hinterland milanese, anche lui un «pesce piccolo», ma che potrebbe portare lontano, ai vertici del suo partito. Cosa sa di lui il «confidente» che ha avvertito dei due attentati in preparazione? Che ruolo ha questo personaggio? Esiste davvero un collegamento tra le cosche e il mondo politico? Sì, è proprio allarme rosso per il giudice Antonio Di Pietro. A scortarlo adesso c'è un plotone di uomini, nuove auto blindate, una infinità di controlli prima di arrivare al suo ufficio, quarto piano del Palazzo di Giustizia. E' dai primi di maggio che Di Pietro è sotto scorta. Prima due uomini con mitraglietta in vista. Poi l'auto blindata. Poi la transenna davanti al suo ufficio. Filtravano notizie di minacce telefoniche. Ma è proprio da quel 16 luglio, giorno dell'informativa, che la sua è una vita blindata. Adesso, dopo il massacro di Palermo, Di Pietro è tenuto sotto sorveglianza 24 ore al giorno da almeno venti persone. Presidiata la sua villetta di Cumo, provincia di Bergamo; scortata la sua famiglia. In questi ultimi due giorni il suo ufficio è stato ispezionato millimetro per millimetro dagli specialisti della scientifica a caccia di micro¬ spie. Per due volte sono stati «bonificati» i suoi telefoni. Precauzione estesa ad altri uffici, sempre lì, al quarto piano del Palazzo di Giustizia. Tra tante attenzioni, voci di possibili talpe al lavoro. Indiscrezioni che non trovano conferma, ma finiscono per rincorrersi, appesantire il clima, renderlo elettrico. Francesco Saverio Borrelli, procuratore capo, interviene a metà pomerìggio con un lungo comunicato scrìtto che getta acqua sul fuoco: «Non è stato rilevato alcun legame tra l'inchiesta sulle tangenti e fatti di mafia; non è vero che Borsellino o Falcone si siano mai avvalsi della collaborazione di Di Pietro; né è vero che il giudice Di Pietro si sia mai occupato di denaro sporco in Italia o all'estero; non è vero che Di Pietro si sia mai occupato di procedimenti che riguardino Gaetano Fidanzati o la criminalità organizzata». Scrìve: «Queste informazioni ingenerano inutile angoscia nei familiari di chi fa il proprio dovere, ma aumentano tensione e confusione in un momento drammatico della vita del Paese». Tutto vero, resta la preveggenza di quel rapporto segreto che annuncia la strage palermitana del 20 luglio. E qui a Milano, per il giudice Di Pietro, resta l'allarme. Pino Coi ila* Fabio Potetti