Ho visto morire Mandelshtam

Ho visto morire Mandelshtam Dopo 60 anni, un compagno di lager scioglie il mistero sul poeta russo vittima di Stalin Ho visto morire Mandelshtam «Due passi e un grande respiro, poi crollò» JMOSCA UR1J Ilarionovic Mojsejenko pensionato, 12 anni trascorsi fra prigione e i lager di Stalin, ricorda bene il 14 ottobre del 1938, quando entrò per la prima volta nella baracca numero 11 del campo di Vladivostok: «C'erano almeno 300 persone. Grandi tavolacci occupavano buona parte della baracca. Un uomo mi offrì da mangiare. Era già sere, gli chiesi chi fosse quel vecchietto steso 1) accanto. E' di Leningrado" mi rispose. Al mattino notai di nuovo quell'uomo vestito di camicia e pantaloni, molto magro, con le bórse sotto gli occhi. Mi rivolse la parola: "Da dove venite giovanotto?" Da Smolensk, "E come vi chiamate?" Jurij. "Anche voi per l'articolo 58?' (cioè condannato per motivi politici, ndr) Sì. "Come tutti noi qui, non c'è niente da vergognarsi". Fu così che feci la conoscenza con Mandelshtam». Osip Mandelshtam. Una delle voci più alte della poesia russa del '900. Amico di Achmatova e Gumiliov, contemporaneo di Blok e Belyj. Arrestato nel mag- S'o del 1938, morì a 49 anni il 27 cembre dello stesso anno in un lager staliniano a Vladivostok, nell'estremo Est sovietico. Sino ad oggi si sapevano il luogo e la data cu morte, niente altro. Nulla sui suoi ultimi giorni di vita. Non avevano dato risposte neppure i due libri di memorie della moglie Nadezhda Mandelshtam, scomparsa nel 1980. Ma il vuoto fra il maggio e il dicembre del '38 è stato colmato dalla testimonianza di un suo compagno di campo, che aveva taciuto sino ad oia u che si è deciso a parlare dopo avere letto sui giornali, l'anno scorso, del centenario della nascita di Osip Mandelshtam, il poeta che morì per avere scritto sferzanti versi contro Stalin. Condannato una prima volta nel 1934, esiliato a Voronezh, rimesso in libertà, Mandelshtam fu di nuovo mandato in un campo di concentramento nel 1938. Ora sappiamo: il poeta di Tristia e di Pietra, l'autore di /I rumore del tempo e La quarta prosa, lo scrittore che solo a partire dagli Anni 50 ha incominciato ad essere conosciuto anche in Russia grazie al samizdat, morì di tifo fra indicibili sofferenze e privazioni. Arrivato nel lager in autunno, da ottobre a dicembre Mandelshtam trascorse gli ultimi mesi di vita spegnendosi poco per volta come un lumino, circondato dall'affetto e dall'aiuto dei vicini di baracca. Per il suo arresto, questa volta, non fu necessario neppure far ricorso ai famosi versi contro Stalin. Bastarono due lettere infamanti mandate ad Ezhov, il ministro degli Interni di Stalin, dal segretario dell'Unione Scrittori dell'Urss Vladimir Stavskij e da Piotr Pavlenko, lo scrittore che qualche anno dopo sarebbe diventato famoso come sceneggiatore con il regista Ciaureli del film propagandista La caduta di Berlino. E a nulla valse una lettera inviata dalla moglie di Mandelshtam a Berija, il capo della polizia segreta, in cui supplicava una revisione del processo. Questa verità emerge per la prima volta dagli incartamenti riguardanti Mandelshtam, conservati negli archivi del Kgb e dalla inattesa, preziosissima, testimonianza di Mojsejenko; Di tutto ha reso conto, in cinque, lunghe puntate, Eduard Poljanovskij sul quotidiano russo Izvestija. Mojsejenko ricorda quel vecchietto che «viveva dentro di sé», che chiamavano poeta: «Ma io il suo nome non 1 avevo mai sentito. Conoscevo Majakovskij, Esenin, Demjan Bednyj. Mandelshtam per me era sconosciuto». Intorno allo scrittore si era stretto un gruppo di reclusi, tra i quali Ivan Nikitich Kovalev, un apicoltore che diventerà l'amico più vicino. Lo aiuterà, si prenderà cura di lui quando, assalito dalla malattia, sarà costretto a restare tutto il tempo privo di forze disteso sul tavolaccio. Ricorda Mojsejenko: «Noi tutti chiamavamo Mandelshtam con nome e patronimico, Osip Emilevich, e gli davamo del voi. A volte un nuovo arrivato gli chiedeva, come bisogna chiamarvi Osip o Josif? e lui rispondeva,. "Chiamatemi Osip Emilevich" e dopo una pausa aggiungeva: "A casa mi chiamavano Osja" è sorrideva a questo suono dolce, mentre redi tutu ridevamo». I prigionieri nella baracca sono vecchi bolscevichi, giovani iscritti al partito, commercianti, ufficiali dello zar, preti greco ortodossi. Mandelshtam si sente lontano da tutti, anche nel gruppo ristretto di vicini di tavolaccio. La sveglia è alle otto. Si alza un po' dopo gli altri, si siede sul tavolaccio, si stira con la mano le maniche della camicia, si abbottona, si inchina verso gli altri e pronuncia «Buon mattino». La gente passeggia per la baracca. Tutti aspettano il rancio. Al mattino pane e due zollette di zucchero. A pranzo brodaglia con qualche pezzo di pesce, e cascia cioè polenta. Alla sera ancora brodaglia. Il tavolaccio è l'unico appoggio per mangiare. «Osip Emilevich voleva sempre rag¬ giungerlo per primo, ma si muoveva lentamente, e noi aspettavamo che si sistemasse. Non mangiava subito, aspettava che finissimo prima noi/forse aveva paura che lo avvelenassero». I prigionieri sono chiamati a compiere piccoli lavori, come pulire il cortile. Ma Kovalev evita a Mandelshtam i lavori più pesanti e si fa carico dei suoi turni. Le stranezze di Mandelshtam sono evidenti sin dal primo minuto: «Poco socievole, chiuso, se usciva dalla baracca si guardava attorno con circospezione. Sino a quando ne aveva le forze camminava rapido e nervoso. Parlava da solo. Andava alla palizzata dietro la quale si sentiva parlare cinese, oppure raggiungeva un punto della zona da dove si vedevano la strada e gli orti. Non amava parlare dei suoi giorni neri. Chi fosse il suo giudice istruttore. Come fossero andati gli interrogatori. Una sera gli chiedemmo per quale motivi lo avessero condannato; una cosa che in lager non si domanda mai. E lui rispose "per nessuna ragione". E poi cambiando d'umore "volete che ve li reciti?" e ci disse i versi su Stalin. Li pronunciava piano, tanto piano che nessuno li sentiva, la baracca rimbombava di voci. Volevo imparare a memoria la strofa sui baffi-scarafaggi di Stalin, gli chiesi di ripeterla; e lui, subito in un altro tono: "A cosa ti serve?". Gli chiedevamo di recitare dei versi e lui attaccava con Pushkin e Lermontov. Gli piaceva quando 10 incitavamo: "Ancora, ancora". Si fermava, faceva una pausa, disteso sul tavolaccio, con le mani sotto la testa guardando il soffitto, e recitava. Da lui venni a sapere di Achmatova, di Gumiliov, del loro figlio Lev. Recitava Merezhkovskij, Belyj. I suoi versi? Qualche volta, ma erano diffìcili per noi. Ne scriveva anche. I Era proibito tenere un quaderno, ma lui lo aveva». Alla fine di ottobre arrivano le piogge, poi la neve. Le sue forze si affievoliscono sempre più: «A metà novembre Mandelshtam non era più quello di prima. Mangiava poco, cedeva il suo rancio a Kovalev, becchettava qualche cosa come un passerotto. Ivan Nikitich gli portava il cibo sul tavolaccio. "Per me e per 11 vicino" diceva ai secondini che distribuivano il rancio. E loro: "Non sarà mica morto?". Succedeva che i prigionieri lasciassero sul tavolaccio un recluso morto per prendere la sua razione. I secondini andavano da lui e gli dicevano: "Ehi, se sei vivo alza la testa!" e lui, alzava debolmente il capo». Fanno la loro comparsa nella baracca le cimici. Incominciano a diffondersi i sintomi del tifo. Il 2 dicembre la baracca viene messa in quarantena. Ogni mattina i reclusi vengono obbligati ad uscire, spogliarsi e liberare gli indumenti dalie cimici. «Sino al 20 dicembre Mandelshtam ce la fece ad alzarsi e ad uscire con noi. Poi, l'ultima sua settimana di vita, rimase disteso sul tavolaccio». I malati gravi vengono portati ufficialmente in infermeria, ma i reclusi sospettano che siano trasportati diret- temente alla fossa comune. Quando passa l'infermiere i malati piangono e implorano di essere lasciati nella baracca. Anche Mandelshtam si ammala di tifo. Lo assalgono forti febbri e un insopportabile mal di testa. Ricorda Mojsejenko: «Il 27 dicembre arriva l'ordine: "La vostra baracca va alla disinfezione, preparatevi a gruppi di 20 persone". Il nostro gruppo uscì per terzo, intomo alle undici e mezzo. Per la disinfezione non c'era sapone, né spugna, né acqua. Ci facevano semplicemente riscaldare ad altissima temperatura gli indumenti. La chiamavamo camera di riscaldamento"». A fatica Mandelshtam scende dal tavolaccio e sorretto per le braccia dai compagni si avvia lentamente verso la «camera di riscaldamento». «Ci fecero entrare e svestire. Mandelshtam si spogliò con difficoltà. Camminavamo in continuazione. Faceva freddo come in mezzo alla strada. Noi tremavamo, ma ad Osip Emilevic scricchiolavano le ossa, era ridotto a uno scheletro. Gridavamo: "Sbrigatevi, stiamo congelando!". Aspettammo una quarantina di minuti, poi ci dissero: "Entrate a vestirvi" e ci fecero entrare nell'altra parte della costruzione. Osip Emilevich, come era sua abitudine entrò prima di tutti. Ci colpì un odore forte di zolfo, era impossibile respirare. Mandelshtam compì due o tre passi, poi si girò, alzò il capo, emise un grande respiro, fece in tempo a portare la mano sinistra al cuore, stese la destra e crollò a terra, col volto in giù, il corpo un po' di lato. Il pavimento era di legno, sporco. Gridammo: "C'è un uomo che si sente male!". Qualcuno lo sollevò e lo voltò sulla schiena. Gli occhi erano già chiusi, la bocca semiaperta. Arrivò una dottoressa, or1 dinò di coprirlo, rìì ascoltò il polso, estrasse dalla tasca uno specchietto e glielo portò alla bocca. Poi si rivolse all'uomo che era con lei e gli ordinò. "Che cosa state a guardare? Andate a prendere una barella"». Sergio Trombetta In cella leggeva versi sui baffi-scarafaggi del tiranno. Il tifo lo uccise fra grandi sofferenze I Osip Mandelshtam, morto nel lager di Vladivostok. Qui sopra: Berija. In alto: Stalin AJeksandr Pushkin. Quando gli amici chiedevano a Mandelshtam (foto accanto) di recitare I suoi versi, lui iniziava con quelli dell'autore di «Evgenij Ortegin»

Luoghi citati: Berlino, Ezhov, Leningrado, Russia, Urss