La disperazione corre sul filo

La disperazione corre sul filo i dolori dell'unificazione tedesca: ricominciare una vita La disperazione corre sul filo A Lipsia l'ex Ddr si consola al telefono LIPSIA DAL NOSTRO INVIATO Hanna L. telefona ogni giorno, da due anni: ha i figli grandi, abita un «casermone socialista», i prefabbricati dell'epoca di Ulbricht uguali in tutte le periferìe dell'Est. Pino alla Svolta ha lavorato e poteva mantenersi bene, racconta, ma subito dopo l'unificazione l'hanno licenziata perché la fabbrica ha chiuso. Assieme al lavoro ha perso le abitudini: quelle che non capiva più di avere, ma che la legavano alla vita, alle persone come lei. Si è accorta all'improvviso di «essere sola», perché tutti i contatti e le amicizie dipendevano soltanto dal lavoro. Adesso, ripete ogni giorno che le sembra di essere «caduta in fondo a una voragine» perché deve «cominciare tutto da zero». Ma a 53 anni «riaprire i conti con la vita» è difficile, un affanno. Hanna L. non sa se riuscirà a resistere. Di storie disperate, il Telefono dell'unificazione - sei psicologi in una casa che fu patrizia, alla periferìa di Lipsia - ne raccoglie a centinaia in tutto l'Est, ogni S'orno una catena di uomini, di mne e di bambini, perfino. Chiamano «perché non rimane altro», adesso che il «loro» mondo è caduto o è tanto cambiato da non poterlo riconoscere. Chiamano perché le famiglie si sono divise con la Svolta e i figli - o i genitori - che erano scappati all'Ovest non sono più tornati; perché la disoccupazione mette in crisi i matrimoni; «perché bisogna all'improvviso riformare la propria vita» ora che «non c'è più nemmeno il collettivo di lavoro» in grado di far incontrare le persone fuori della fabbrica; perché bisogna «vivere in un modo nuovo, diverso» e «secondo altre regole», ma quasi sempre «da soli e chiusi in se stessi», come raccontano due assistenti del Vertrauenstelefon, Irene Wimsch e Monika Muller. O ancora, perché il «nuovo sistema» è visto soltanto cerne costrizione, ostile: lontano come quello precedente che è stato sepolto dalla storia, ma senza il vantaggioso rìschio dell'assuefazione alia mediocrità, senza la negazione della competizione individuale che ha devastato due generazioni di «tedeschi socialisti», all'Est. Come succede a Einrich W., un uomo giovane - sui quarantanni forse - padre di quattro figli e sposato a una donna che, dopo l'unità, è riuscita a trovare lavoro in un'assicurazione. «Prima», tornando dall'ufficio, «lei stava regolarmente in casa», lamenta ai telefono Einrich; adesso il lavoro la tiene spesso fuori. Per lui invece «non c è più lavoro», le giornate passano «tutte uguali dietro ai figli» e «nel terrore che lei si trovi qualcun altro fuori»: un uomo più brillante, «qualcuno che non è costretto a fare il baby sitter». E poi, se pure Einrich trovasse un occupazione, dovrebbe rinunciarvi forse, Krché mandare quattro figli al silo costerebbe più dello stipendio. E' un circolo vizioso, una situazione abituale soprat¬ tutto per le donne, confida Irene Wùnsch, e di quelle «senza uscita»: le chiamano «la coda del diavolo» perché non sai dove comincia il peggio, se nella disoccupazione che impedisce di mandare all'asilo i Tigli, o se nei figli esclusi dall'asilo che impediscono di trovar lavoro. «Una volta era diverso», telefonano in tanti: «prima», negli anni di un regime che opprimeva e mandava gii oppositori in carcere, gli asili non costavano neanche l'un per cento del salario medio e ce n'erano per tutti. Adesso «l'Ovest ha importato anche questo», posti contati e «cari almeno dieci volte», oltre agli affitti già aumentati cinque volte dopo 1 unificazione e pronti a raddoppiare di nuovo, it prossimo gennaio. Ma c'ò chi «non vuol provare a uscire». Herta F. chiama per chiedere che cosa vuol dire essere depressi, se c'ò rimedio: il marito, che prima della Svolta aveva «lavorato allo stremo» per aprire un ristorante e «diventare indipendente», adesso che c'ò competizione è quasi alla rovina. La sua reazione è l'apatia, il rifiuto di lottare. Da mesi «non fa che stare in un angolo, seduto». Non si muove, non si alza, «non ha più slancio per niente: i soldi sono finiti, guadagniamo appena per sopravvivere», racconta al telefono Herta, terrorizzata che «lui si faccia del male perché ha paura del futuro», perché «non ha più speranze», non era preparato a quello che ò successo. Capita anche ai più giovani: ci sono ragazzi di appena dodici anni che chiamano per gridare la propria rabbia, per dire che non torneranno più a casa perché non sanno stare in famiglie «tanto diverse» da com'erano una volta, cosi cambiate adesso che il padre ò senza lavoro e beve, la madre urla che scapperà e insulta i figli, i vicini sospettano legami con la Stasi, la polizia segreta del regime, e stendono un cordone intorno. Secondo la dottores¬ sa Mttller, ò il problema più grave per la nuova società dell'Est: giovanissimi e bambini che «devono cambiare due volte», in casa dove i rapporti abituali sono stravolti, e a scuola dove sono caduti gli idoli di ieri, abitudini di insegnamento e disciplina si sono capovolte. Helga T., un'insegnante delle elementari, conferma al telefono che molti giovani vivono un gravissimo disagio: restano a scuola e non c'ò modo di mandarli via neanche dopo le lezioni. «Che devo fare con loro?» chiede, senza aspettarsi una risposta, e ricorda che di male di prima» non arrivava a questo, perché allora «i giovani erano protetti dalle istituzioni» e nell'apatia sociale che circondava il regime c'era la sicurezza di «continuare», almeno. E poi le donne, ferite soltanto per il loro «esser donne». Angela H. racconta una storia che sanno tutti molto bene perché ò fra le Eiù comuni, all'Est: non ha più ivoro, ma restare a casa non si- gnifica soltanto rinunciare ai soldi. Vuol dire anche «perdere la propria affermazione»: «Siamo sempre state uguali agli uomini anche nel lavoro, e questo riconoscimento dello Stato ci dava una grande consapevolezza di noi stesse. Eravamo piuttosto indipendenti, non vivevamo in situazioni d'emergenza». Adesso Angela e tante altre come lei devono «tornare alla famiglia», e con un ruolo inedito per loro: «fare soltanto la madre» e a tempo pieno, per via della scarsità di asili e il loro costo. Fare «anche la moglie» e magari in situazioni di disagio: perché i legami, in famiglia, sono spesso a rìschio, «appesi all'alcol e alla disoccupazione», come racconta un'altra «ragazza invecchiata presto», Michaela. La sua storia è fra le più drammatiche raccolte al Telefono di Lipsia, e ancora non si è conclusa. Quando ha chiamato la prima volta, Michaela viveva ancora in casa, insieme ai tre figli piccoli e al marito senza più lavoro e senza più la voglia di tentare un'occasione: il Comune gli aveva offerto di frequentare un corso di addestramento, ma lui ha rifiutato perché «la sua qualifica era un altra», e subito ha perduto il sussidio pubblico di disoccupazione. Senza quei soldi, anche l'asilo è diventato impossibile: all'improvviso si sono ritrovati tutti a casa, il marito ha cominciato a bere. Finché lei ò scappata, ha telefonato a Lipsia dicendo: «Li lascio soli perché non riesco più a vivere con loro». Due giorni dopo ha richiamato, «disperata ormai»; ha chiesto agli assistenti del Telefono di occuparsi dei figli, perché «almeno i bambini fossero curati da qualcuno». Per lei, «l'unica via di scampo» restava il suicidio: nessuno sa quel che ò successo dopo. Accade spesso, che i genitori scappino. Ursula M., a quasi 70 anni, telefona per raccontare del nipote dodicenne e di sua madre, che dopo la Svolta ò «andata all'Ovest» a lavorare col marito senza più badare a lui, ma portandosi insieme l'altro figlio, più piccolo, n ragazzo ò rimasto con la nonna, ma ha cominciato a fumare e «a far di tutto», a non impegnarsi a scuola, a sparire per giornate intere senza che Ursula potesse imporsi, frenarlo. E* finito in un istituto, perché i genitori rifiutano di prendersene cura. Ma in certe storie conta soprattutto il confronto con se stessi: Monika S. ha chiamato spiegando di essere disoccupata da un anno ma di non averlo confessato mai a nessuno. Viveva senza soldi con un bambino piccolo, ma ad ogni costo voleva difendere l'«immagine» che si era creata «prima», non voleva apparire «un'altra». Finché ò crollata. Ha richiamato, ha detto: «Ho già la corda al collo, adesso mi impicco». Le hanno parlato tutta la notte, l'hanno convinta. Il giorno dopo ha ringraziato, ha scrìtto: «Mi avete aiutato a passare la notte, la prossima chissà». Disoccupazione e solitudine dopo il crollo del regime. «Sono in una voragine devo ripartire da zero» P;;' -••••!■ tè-» fi T-b- ■ A sinistra, il «Muro dei lamenti» a Lipsia. A destra, la gioia dopo l'unificazione, Sotto, una manifestazione di protesta

Persone citate: Angela H., Hanna L., Helga T., Herta F., Irene Wimsch, Irene Wùnsch, Monika S., Muller, Ulbricht

Luoghi citati: Ddr, Lipsia