«Adesso il tritolo è pronto per me» di Francesco La Licata

«Adesso il tritolo è pronto per me» Caponnetto gli disse: «Stai attento, evita gli spostamenti abituali. Non andare da tua madre» «Adesso il tritolo è pronto per me» morire PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Una partita a scacchi. E la vita come posta in palio. Quanto devono essere stati penosi, per lui, i suoi figli, la povera moglie, gli amici, gli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino. Consapevole di essere segnato, in lotta contro il tempo, preoccupato di non scoprire le carte, muoveva le sue pedine per ribaltare la sorte. Ma, puntualmente un nuovo indizio, un segnale allarmante lo ricacciava indietro. Fino a chiuderlo in un vicolo cieco: la certezza di «dover morire». Dove, quando? Solo su questo Borsellino ne sapeva poco. Ma che fosse ormai un morto che camminava l'aveva capito. Gliel'avevano detto, anche. Con tanto di relazione di ser- ' vizio controfirmata dai servizi di sicurezza. Eppure nessuno lo ha potuto salvare. Borsellino si è avvicinato, giorno dopo giorno, alla sua fine. Spettatore impotente, l'ha sentita arrivare, fino a cederle nella tragica domenica di via D'Amelio. Sabato ne aveva parlato con il confessore, solo qualche ora prima della sua morte annunciata, aveva confidato all'amico Pippo Tricoli: «Lunedì scorso il tritolo è arrivato anche per me». Avevano trascorso gran parte della mattinata insieme, Borsellino e Tricoli. Proprio quella domenica le due famiglie avevano ripreso la consuetudine del pranzo a Villagrazia di Carini, nella casa della villeggiatura estiva. Una consuetudine che si era allentata per le vicende umane e personali del giù• j dice, sempre più coinvolto nelle indagini e sempre più demoralizzato, specialmente dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo. L'allarme per l'incolumità del procuratore giunse sotto forma di «notizie attendibili» raccolte dai servizi di sicurezza. Ce voci parlavano di qualcosa che si preparava e indicavano una serie di «possibili bersagli», si dico fossero cinque, naturalmente tenendo conto delle maggiori o minori probabilità. All'esame degli esperti i più esposti risultarono Paolo Borsellino e l'ex sindaco Orlando: «Cosa Nostra li vuole morti». Non fu una sorpresa, per Borsellino. Della sentenza di morte emessa nei suoi confronti aveva già avuto un drammatica conferma, interrogando il pentito Vincenzo Calcara. Ad un certo punto il mafioso si alzò, chiese di interrompere l'interrogatorio, volle abbracciare e baciare il giudice, dicendogli: «La mafia lo ha condannato a morte. Io stesso dovevo eseguire la sentenza, uccidendola con una fucile di precisione». Ma quella segnalazione, accompagnata da un'altra dei carabinieri del Kos (Reparto operazioni speciali) dello stesso tenore, significava qualcosa di più. Significava che da «soggetto a rischio». Borsellino si trasformava in «soggetto in pericolo». E lui sapeva cogliere la differenza. Con chi confidarsi? Non c'è più Giovanni Falcone, ma c'è sempre il «padre» dei giudici palermitani, il vecchio Antonino Caponnetto. Borsellino lo chiama al telefono e gli racconta. Da Firenze l'ex consigliere istruttore cerca di dargli consigli. «Stai attento, evita gli spostamenti abituali». Borsellino, che proprio in quel momento si accinge ad intraprendere i contatti con Leonardo Messina, un nuovo pentito, sa di non poter restare immobile. E va ripetendo: «Devo far presto, la mia è una lotta contro il tempo». Spiega a Caponnetto che diffìcilmente potrà evitare l'impatto che è in arrivo. Dall'altro capo del filo una raccomandazione: «Paolo, almeno evita di andare da tua madre, per il momento». Borsellino si schernisce e bisbiglia: «Per quello che può servire!». Già, la casa della madre. Un posto «a rischio», tanto da meritarsi la «zona rimozione», un piccolo accorgimento antibomba sperimentato dopo l'attentato a Rocco Chinnici. C'erano state parecchie segnalazioni d'allarme in via D'Amelio. A parte il «covo» dove il boss Antonino Madonia teneva il «libro mastro» delle estorsioni, proprio di fronte al portone dell'abitazione della signora Borsellino, più d'una volta erano stati notati strani movimenti. E un pentito aveva raccontato di cunicoli che collegavano la via D'Amelio con alcune strade molto distanti. Borsellino sente sul collo il fiato della mafia. Raccoglie la testimonianza dell'ultimo pentito in un clima da «Fort Al amo»: con tre funzionari della questura di Caltanisetta nascosti di fretta per sottrarli ai killer e tra una certa indifferenza per il fiume di notizie che Leonardo Messina comincia a riversare sui verbali. Indifferenza? Si, come se dalle parole del pentito, la cui attendibilità e conoscenza della mafia non sarebbero proprio da sottovalutare, potesse giungere qualche «grossa grana», dal momento che il giovanotto dimostra di sapere molto di mafia e politica e troppo di collusioni tra criminali e apparati giudiziari. Va in Germania, Borsellino. I primi di luglio, come conferma ufficialmente la polizia di Mannheim. La pista gliela «regala» Messina, parlando degli assassini! dei giudici Livatino e Saetta e del maresciallo Guazzetti. E il pentito gli «regala» anche un'altra notizia: un mafioso originario di Palma di Montechiaro, che vive in Germania, è disposto a collaborare. Borsellino rientra dalla Germania, convinto di tornarci presto: cosa che avrebbe dovuto fare lunedì, se non lo avessero ucciso. Va a Roma, a parlare con l'Alto commissario, Finocchiaro. Incontra i «suoi» pentiti: Spatola e Giacoma Filippello. Forse proprio a Roma riceve i particolari che lo convincono di essere quasi alla fine della partita. E' inquieto, il giudice. La signora Agnese, adesso, lo ricorda «assente» e «irrequieto». Borsellino non vuole allarmare la famiglia, ma non può fare a meno di parlare del pericolo che sta correndo. E' ancora la testimonian- L'allarme era stato lanciato da un rapporto dei servizi di sicurezza Nel mirino anche Orlando za di Pippo Tricoli a chiarire: «Me lo hanno detto i figli. Sabato scorso, Paolo aveva confessato che la sua posizione era diventata davvero pericolosa». E domenica pomeriggio, trenta minuti prima di andare a morire, saluta l'amico abbracciandolo. «Ci siamo stretti - ricorda Tricoli - e ci siamo scambiati uno sguardo intenso che voleva dire tutto». Poi lo scoppio, la strage. Francesco La Licata Caponnetto porta la bara di Borsellino. Sono a sinistra il giudice ucciso e Pippo Tricoli