UN CLOCHARD CHIAMATO CAVALLO di Bruno Quaranta

UN CLOCHARD CHIAMATO CAVALLO UN CLOCHARD CHIAMATO CAVALLO «Mezzo secolo d'Italia nelle mie vignette» ATORINO me gli occhi! Giorgio Cavallo ha quell'espressione un po' innocente di chi si offre senza- armature alla realtà. Salvo filtrarla sulla pagina, meglio: sul foglio da disegno, con tratti di arsenico stupore. Un esercizio attempato, quarantennale o giù di lì, con il sigillo di mille «stanze»: dal Travaso all'Europeo, da Satyricon a Tuttolibri. Inconfondibile, il segno di Cavallo. Raro, unico, lo stile di questo pudico signore, a iniziare dal fondo, dalla firma. Con quella seconda «1» a passo di fuga, a rompicollo, eco di una lancia donchisciottesca. E con quell'ultima «o» che a sorpresa raddoppia, si trasmuta in un paio di lillipuziani, implacabili occhiali. Le inseparabili lenti hanno tracciato una linea veneta nel destino di Cavallo, fino al 31 agosto «vedetta ad honorem» del Cadore, pregiata fabbrica di «caramelle», pince-nez, bifocali. Si inaugura domani a Domegge, nel Bellunese, a cura di Mario Serenellini, una mostra del sessantacinquenne disegnatore torinese (moncalierese), «A quattr'occhi»: duecento vignette in bilico fra ecologia, Papi, letteratura, Aids, politica («1492-1992: ci sono ancora tutti», ovvero «Andreotti e dintorni»). Duecento «tavole» scelte fra quante? «Quante? - tende l'orecchio Cavallo, appeso all'inseparabile sigaretta -. Mah! Se dico di averne messe insieme diecimila non sbaglio di molto». Esordi nel dopoguerra: «Inviavo cartoline alla Domenica del Corriere, spesso venivano pubblicate». Poi la discesa nel caveau: «Magari - sorride con antico aplomb -. C'è anche un salto in banca, oltre lo sportello, nel mio curriculum. Però breve. Un randagio, un anarchico, un bastian contrario come può sopravvivere a lungo fra le scartoffie?». Cavallo è reduce da un trasloco che lo ha stordito, affezionato com'era a ogni mattonella, a ogni spiffero della «fu» officina. Ma nella nuova casa fresca di tinteggiatura ha ritrovato presto lo smalto, l'unghiata: a sinistra il telefono e la macchina per scrivere, sulla lampada una coniglietta di «Playboy», a destra la fotocopiatrice e il fax l«regalo natalizio d'una fanciulla»), negli scaffali immacolati tanti dischi (jazz e musica classica), libri (dal Capitale alla Pizza rossa di Forattini con dedica suscitata da una vignettarecensione per Tuttolibri: «A Giorgio che mi fa salire le vendite»). «Il mio livre de chevet o de cheval? Il piccolo principe. Lo leggo e lo rileggo: non sono ancora riuscito ad afferrarne il bandolo» concede, schierando pupille docilissime. Il vetriolo, l'angelico Cavallo (ecco chi è: un angelo al vetriolo) lo tiene in serbo per i suoi «quadri» o «ex-voto» (la satira che riscatta il nostro quotidiano viaggio nell'insensato). «Ancora due passi nella preistoria?» invita, facendo scorrere la mano gentile sui capelli folti, ondulati, lunghi con garbo, «stile latin lover Costa Azzurra» Anni Cinquanta-Sessanta e dintorni. I ricordi si mescolano: «Guareschi mi chiese di collaborare al Candido. Esitai: "Non la penso come te". Ma lui mi convinse: "L'importante è essere contro il governo, o da destra o da sinistra"». Volteggiano nuvole azzurro fumo, Cavallo le fissa con infantile, avida curiosità: «A metà dei Sessanta raggiunsi l'Europeo di Fattori, rimanendovi sino all'esaurirsi dei Settanta. Una vignetta di al¬ lora? La corredava questa didascalia: "Il caso Pinelli è chiuso. Rimane aperta la finestra". Lasciai la matita appena colsi nell'aria l'odore della censura. Una parentesi di cinque anni, nei panni del clochard, tra un vicolo e una mensa affidata a suore giovani come le novizie del mio amico Arpino. Ripresi sulla Domenica del Corriere, ingaggiato da Maurizio Costanzo. Nel frattempo erano apparsi gli Altan, i Chiappoli, i Forattini, fustigatori a ruota libera del personaggio, il politico, in particolare. Un rodeo vietato alla mia generazione, assediata dal codice penale, dal reato di vilipendio». Non è dunque casuale (la forza dell'abitudine) che gli «Illustri» compaiano di rado nelle vignette di Cavallo: «E' pure vero - aggiunge - che ritraendoli a raffica se ne rafforza la popolarità». E' più dignitoso mettere in scena la gente comune, occhialuta, beninteso: «Perché gli occhiali? Io li porto, mi viene naturale disegnarli. E insieme servono per vedere meglio; i vizi, le miserie, gli scandali del nostro sciagurato Paese» elenca con stoica malinconia, intonata a un pensiero di Flaiano: «Non possiamo rifiutare la vita come ci si presenta, ma il luogo per accettarla non è più quello adatto». Cavallo vorrebbe porgere un caffè. O un «cordiale». Perché no un dolcetto? «Come non tengo famiglia, non tengo vino, almeno tra le pareti domestiche» finge timidezza. Afferra l'agenda: «Per il nettare di Einaudi vediamoci in trattoria, presto». E già assapora le sfide con il pittore Ettore Fico sulla genesi del vocabolo «dolcetto», duelli che liberano immancabilmente surreali verdetti (le vigne a forma di dosso, ad esempio: dosso rinvia a dossèt, dolcetto, in piemontese). Si leva gli occhiali, Cavallo. Un attimo e torna a scrutare il mondo da dietro le lenti affumicate. Alza e abbassa spesso il leggerissimo schermo. Forse pedina l'esatta visione. Forse è lui il cliente dell'ottico di Spoon River a cui tocca, dopo mille esperimenti, la felice sorte: «Luce, ora vedo soltanto luce che trasforma tutto il mondo in giocattolo». Là dove, va da sé, il giocattolo è Cavallo, finalmente pacificato. Un Cavallo a dondolo, insomma. Bruno Quaranta

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