SALVATORES una vacanza da copione

 SALVATORES una vacanza da copionela memoria. Il regista ricorda il viaggio nell'isola greca dove è nato «Mediterraneo» SALVATORES una vacanza da copione «Eravamo anche noi una truppa accaldata e scamiciata. Durante il film sono nati amori, timori, insoffe- renze, amicizie. Ci siamo persi nei suoni, nel sole, nel mare, abbiamo misurato su noi stessi lontananza, spaesamento, memoria, nostalgia, il senso della fuga. Abbiamo vissuto la paura del ritorno». Si è udito perfino il rimbombo della guerra: «Mentre venivamo via, alla fine della nostra estate, gli Fili americani graffiavano il cielo diretti verso le basi turche: Saddam aveva invaso il Kuwait da pochi giorni, cominciava la guerra del Golfo... Siamo cambiati tutti, su quell'isola». Com'è uguale al copione di Mediterraneo l'estate di Gabriele Salvatores passata nell'isola di Kastellòrizba girare il film Mediterraneo, premio Oscar 1992. «Ci siamo arrivati per esclusione. Ognuno di noi conosceva almeno un'isola in Grecia. Era stato per tutti o quasi il luogo della prima fuga, dall'Italia, da Milano, da noi stessi. Sacco a pelo e pochi soldi. Ma tutte quelle isole della nostra giovinezza erano cambiate: alberghi, turisti, ristoranti... Noi invece cercavamo altro, una fuga vera, un posto vero. Per fortuna Thalia conosceva Kastellorizzo». Thalia Istikopoulou, scenografa e amica di Salvatores fin dai tempi del Teatro dell'Elfo, c'era stata in vacanza, per tre anni. E così sono partiti tutti per Kastellorizo, «molto lontana e molto piccola», dove la gente ancora parlava qualche parola italiana, dove si ricordavano degli italiani durante la guerra, dove davvero - come nel copione di Mediterraneo - erano finiti dei soldati italiani occupanti sperduti: «Durante la guerra - rammenta Salvatores - si diceva che ogni famiglia greca era composta da un uomo, una donna e un italiano: mìa fàza, mìa ràza, una faccia, una razza». Il regista Gabriele Salvatores parla tranquillo, con il sorriso saggio di uno che ci sa scherzare sopra, visto che poi alla fine quel gioco d'estate che era il suo Mediterraneo gli ha portato un sorprendente Oscar. E' a Roma per finire di montare Puerto Escondido, manco a dirlo un'altra storia di fuga lontano dall'Italia, nel territorio incerto tra se stessi e l'utopia. In una sala del vecchio hotel Locarno, sotto le lampade liberty, racconta di come si è un po' ritrovato dentro l'avventura di Mediterraneo, in quell'estate calda del 1990, nell'isola sperduta tra Grecia, Turchia e Cipro, in un posto «anarchico», senza polizia, dove non si è mai capito bene chi comandava, rimasta intatta dai tempi della guerra così come l'hanno trovata quelli del set di Mediterraneo. «La Grecia per la mia generazione è stato il primo passo di un viaggio lontano da casa. Lì si viveva con poco e poi si sentiva l'aria dell'Oriente, musiche, odori e sapori. Diciamo la prima tappa di un allontanamento». La generazione di Salvatores, che ha 42 anni, è nato a Napoli, ma da quando ne ha 6 vive a Milano, è quella che è passata dalla politica militante alla fuga militante, dal liceo Beccaria alla Statale, dal movimento studentesco al Teatro dell'Elfo, dalle prime rappresentazioni agit-prop al teatro-teatro. Generazione delusa, ma orgogliosa. Dice Diego Abatantuono mentre sbuccia melanzane alla fine del film: «Non ci hanno lasciato cambiare niente. Allora ho detto: avete vinto voi, ma almeno non riuscirete a considerarmi vostro complice». Lei cosa voleva cambiare Salvatores? «Adesso può far sorridere, ma allora volevo cambiare il mondo». E ora? «Continuo a credere di non potermi rassegnare ad una società ingiusta, dove gli uomini non sono uguali, dove non c'è rispetto per la persona e per la vita. O, per parlare dell'Italia, dove vince soprattutto l'arroganza». Ma com'è andata quell'estate, Salvatores? «Siamo arrivati a fine giugno, in due gruppi. Io e Diego Abatantuono in aereo; gli altri in nave». Proprio come i soldati della storia di Mediterraneo, mandati nel giugno del 1941 a presidiare un'isola senza valore strategico e lì dimenticati fino alla fine della guerra. «Volevo che gli attori cominciassero a conoscersi e a sopportarsi così, dal vivo, come accade nel film. Nell'isola risiedono abitualmente una cinquantina di persone. L'unico albergo aveva due stanze. La prima operazione è stata quella di trovare una sistemazione per tutti». I quarantacinque della Colorado Film si ritrovarono sparsi per l'isola a cercare una camera, come i soldati di Mediterraneo, nelle prime scene del film, in perlustrazione di conquista dopo lo sbarco. «E' successo come quando si arriva in un posto e ci si deve accampare. Chi sceglie l'ombra, chi sceglie il sole. E' stato difficile l'inizio. Italo Petriccione, direttore della fotografia, un ragazzo che conosco da quando aveva otto anni, per dieci giorni non ha chiuso occhio: aveva due topi in casa e di notte facevano scorribande. Altri si lamentavano per gli insetti, per le stanze strette, per tutto. Nei primi giorni abbiamo seriamente rischiato una crisi di rigetto collettiva dell'isola. E' stato come quando si fanno le vacanze di gruppo in barca a vela e nel giro di poche ore si scoprono tutti i problemi. Abatantuono, che era stato uno di quelli più convinti dell'idea di girare il film su un'isola, è stato quello che si è adattato con più fatica; e poi, quando abbiamo finito tutto, è rimasto due settimane più degli altri... Ma questa è stata la malattia contagiosa di Mediterraneo)). Il programma di lavoro pre¬ vedeva che su quell'isola si rimanesse almeno due mesi, condannati ad adattarsi, a mimetizzarsi nell'ambiente, a prenderne i ritmi, il respiro. «Alla sera ci trovavamo tutti nella piazzetta della chiesa dove è stato girato il matrimonio per fare yoga. Niente di filosofico, solo fisico. A farci da maestro, da yogi, Memo Dini. Abatantuono era il più indisciplinato: si tratteneva a stento dal ridere. Poi a cena. Il primo periodo nell'unico ristorante dell'isola, poi a casa di ciascuno. Abbiamo preso un ritmo di turni rigidi: stasera venite da me, domani sera andiamo da te. Nella seconda fase è cominciato lo sport. A calcio giocavamo nell'unico posto piatto, l'aeroporto, proprio come avviene nel film. In paese, nel campo di pallavolo, Ugo Conti, il marconista Colasanti, organizzava partite di calcio-tennis». Come una vacanza? «Sì, con in più l'obbligo del lavoro, con la vita scandita come in un villaggio-vacanze dove nascono nuove coppie, si sciolgono le vecchie, amori si consumano, altri no, dove si sviluppano intrecci curiosi, fra persone di tutte le età. La fine del film è stata proprio come la fine di una vacanza in cui eravamo stati tutti bene e per questo una fine più dolorosa perché il lavoro sul set costringe a rapporti più forti del semplice gioco. Non dimenticherò l'ultima sera, una notte di caccia, a tuffarsi e rituffarsi vicino alla nave che ci avrebbe portato via per esorcizzare la malinconia del distacco». Partiti dall'Italia con la sceneggiatura di Enzo Monteleone, i quarantacinque della troupe di Mediterraneo si sono trovati a intepretare se stessi, una vicenda vera e non soltanto verosimile, la loro storia di stranieri occupanti l'isola di Kastellorizo: «Molte volte le scene sono state adattate al momento, reinterpretate, modificate e influenzate dal nostro stato d'animo, dalla nostra vita quotidiana sull'isola, dai sentimenti nati lì. Il matrimonio tra Vassilissa e l'attendente è stato rifatto secondo il rito dell'isola; riscritta anche la scena di Cederna, l'attendente Farina, che al momento di tornare in Italia a guerra finita si nasconde dentro il barile delle olive e decide di rimanere». Pezzi di storie vere. Racconta Salvatores che a film uscito si è rifatta viva la sua vecchia amica, Chiara Strohmenger, dei tempi milanesi del Teatro dell'Elfo, che in Grecia, a Rodi, era andata in vacanza, ma davvero ci era rimasta e aveva aperto un ristorante: «Come ti permetti di raccontare la nostra storia?». E sull'isola di Santorini, da qualche parte, dovrebbe ancora esserci il negozio di Johnny Gable, un altro dell'Elfo. Un'isola, la fuga; il calcio, la squadra. Esiste una foto che spiega molte cose su Salvatores, i suoi amici dai percorsi incrociati e su questi sentimenti: è l'istantanea di una vacanza vera, sull'isola di Stromboli, una decina di anni fa. Una formazione di sette uomini, vestiti, stanchi, accaldati, solidali. Proprio come i soldati del film Mediterraneo: c'è Salvatores, ci sono Gino & Michele delle «Formiche», Silvio Orlando, l'attore, c'è Gigio Alberti, lo Strazzabosco del film. Salvatores, in Mediterraneo quanto torna della sua vita? «La mia generazione ha creduto nel collettivo, il calcio è il gioco del collettivo, della squadra. Io non sono mai stato un gran giocàtóreTinà mie sèmpre piaciuta molto quell'atmosfera, lo spogliatoio prima e dopo la partita, una squadra di persone che lavorano perché uno faccia gol». Niente donne nelle sue squadre? «Siamo un po' cresciuti tra maschi, e le donne, come diceva Mao, sono rimaste l'altra metà del cielo. Ma per me i rapporti più importanti sono con le donne: con loro non ci si ferma all'amicizia, si va più in profondo, la donna ti costringe a dare di più. Invece le squadre maschili dei miei film sono composte da maschi amici che probabilmente preferirebbero non crescere. Ho affetto per le squadre di maschi della mia generazione, ma riconosco i loro difetti e racconto i loro limiti». In che senso vi ha cambiato Mediterraneo! «Ero in fuga, era un'estate di passaggio nella mia vita, fuga esistenziale, cercavo di evadere. Quell'isola lontana mi è anche servita, il film è stato in un certo senso terapeutico. Dopo, la mia vita è cambiata: sono andato in India, dove non ero mai stato; da allora vivo quasi sempre in campagna. Ma non è accaduto solo a me: alcuni di noi sono tornati sull'isola, tra quelli che hanno fatto parte del gruppo c'è un bisogno di cercarsi, di riascoltarsi. Irene, la pastorella, telefona spesso: mica per altro, solo per segnalare la sua presenza». Cos'ha trovato chi ci è tornato? «L'isola sta cambiando. Dopo J successo del film le agenzie turistiche hanno ricevuto richieste di organizzarci gruppi di vacanza. Mi hanno detto che al porto, appena sbarcati, c'è un cartello che dice "Mediterraneo, per informazioni rivolgersi a Chico, ai due platani". Gli americani ci hanno letteralmente torturato per sapere dove si trovava». Lei c'è tornato? «No». Ci tornerà? «Forse, ma d'inverno. Non bisognerebbe mai tornare nei posti dove si è stati bene. Confesso, mi fa paura perché a differenza che nel cinema, nella vita non esiste il replay». Cesare Martinetti Siamo sbarcati come i militari delfilm «occupando» tutte le stanze disponibili: sotto quel sole sono nati amori e amicizie Ho paura a tornare in quel luogo felice perché nella vita il replay non esiste Qui a fianco, le due «formiche» Gino & Michele Sotto, foto di gruppo a Stromboli; da sinistra: Taiuti, Catania, Gino, Michele, Salvatores; davanti: Orlando e Alberti RACCONTI D'ESTATE