La «via italiana» al Sud America di Aldo Rizzo

La «via italiana» al Sud America OSSERVATORIO La «via italiana» al Sud America ER tanto tempo si è detto Sudamerica e s'intendeva democrazie traballanti o regimi militari, e soprattutto dissesto economico, tra l'iperinflazione e un gigantesco debito estero. Da noi la «via italiana al Sud America», poi in parte percorsa, era un avvertimento, un monito, una minaccia. Insomma il Sudamerica - o, diciamo meglio, l'America latina - come modello negativo. Ebbene, questo non è più vero. A Sud degli Stati Uniti, tra il Messico e la Terra del Fuoco, è in atto un grande cambiamento, politico ed economico. Nessuno può dire dove porterà, se cioè avrà un completo successo, ma che si tratti di una svolta è indubbio. E anch'essa va messa nel conto di questo faticoso mondo nuovo che si sta cercando, o sperando, di costruire. Intanto va detto che non da tutta l'America latina arrivano notizie confortanti. E' di pochi giorni fa la strage di Lima, in un Perù stretto tra l'ultima guerriglia comunista, anzi maoista, della storia e un singolare presidente golpista, quel Fujimori che dopo aver vinto regolari elezioni si è fatto, per così dire, confermare al potere dai militari. Ed è di cinque mesi fa l'attentato alla democrazia in Venezuela, con un colpo di Stato fortunatamente fallito. Rigurgiti, o meglio tic golpisti continuano a manifestarsi fra i militari argentini e brasiliani. Ma si tratta di episodi ormai marginali, sulla scala politica del subcontinente. Se si pensa che quindici-venti anni fa l'America latina era una mappa quasi uniforme di dittature di destra, anche come reazione al tentativo cubano di esportare la rivoluzione, si vede quali e quanti progressi sono stati compiuti sulla strada democratica. La stessa Cuba, che resta una vistosa anomalia di segno contrario, non ha alcun futuro apprezzabile, salvo l'uscita dal comunismo t dall'isolamento. Ma le novità più importanti sono quelle economiche. Paesi che sembravano condannati al sottosviluppo e al disastro finanziario (400 miliardi di dollari di debito estero, complessivamente) sembrano ora avviati, se non verso un «boom», verso un serio risaI namento, premessa del rilanI ciò produttivo. Prima c'era un circuito perverso: il Fondo Monetario Internazionale e le grandi banche creditrici chiedevano misure concrete di austerità; se qualche governo si adoperava seriamente, scattavano i contraccolpi sociali, con l'appoggio automatico delle sinistre politiche; per mettere fine al «disordine» intervenivano i militari. E si ricominciava daccapo. Ora, finalmente, succede questo: che governi generalmente democratici affrontano il nucleo duro della crisi (riduzione dei deficit, lotta all'inflazione, riforma fiscale e così via) e resistono ai contraccolpi, quanto basta perché si vedano i primi risultati, e quindi si coaguli un consenso, interno e internazionale. E infatti ritornano i capitali fuggiti all'estero, e arrivano gli investimenti stranieri. Sono sempre più numerosi i compromessi con le grandi banche sul debito: il più recente è il caso del Brasile (44 miliardi di dollari). Il che ha fatto dire a Paul Volcker, l'ex presidente della Federai Reserve, sul «New York Times», che «la crisi del debito latino-americano non è più una crisi». Messico e Argentina, più che lo stesso Brasile, sono all'avanguardia del risanamento, con un'inflazione ridotta al 20 per cento, quando due anni fa, in Argentina, era del 1400. Ma il fenomeno, a livelli diversi, è pressoché generale. E intanto il Messico sta per associarsi agli Usa e al Canada in un'area di libero scambio, premessa di un fantastico mercato unico, che dovrebbe o potrebbe estendersi dall'Alaska a Capo Horn. Una risposta, fra l'altro, alla Cee. Sono prospettive, in una zona che resta socialmente esplosiva. Ma sono prospettive concrete. Per cui la «via italiana al Sud America» potrebbe acquistare per noi, per la nostra crisi, un significato diverso, anzi opposco. Aldo Rizzo czoJ

Persone citate: Fujimori, Horn, Paul Volcker