MARAINI l'amazzone azzurra

MARAINI l'amazzone azzurra la donna dell'anno: 1970. Il fascino di una scrittrice nell'età ruggente del femminismo MARAINI l'amazzone azzurra PER quindici anni almeno, i critici non mi hanno considerato una scrittrice: non mi stima Ivano, non gli piacevo, non gli andavo giù. Il mio lavoro lo giudicavano con supponenza, a volte le recensioni negative erano anche sprezzanti. Soltanto da poco, con La lunga vita di Marianna Ucria, penso d'essere stata accettata nella società degli scrittori», riflette Dacia Maraini. Si può capire, dice. Quando apparve nel mondo letterario a fianco di Alberto Moravia che la amava, le scrittrici italiane (Elsa Morante, Anna Banti, Anna Maria Ortese, Lalla Romano, Natalia Ginzburg) avevano l'età di sua madre. Lei era giovanissima, bella, sensuale, sportiva, di grande famiglia e di modi franchi, senza civetterie e senza paura di parlare di sesso, senza l'amore italiano per il bello scrivere: «I miei romanzi erano più all'americana: contenuti duri e stile diretto». Se ogni anno, nella stagione abbandonata e felice della vacanza, c'è una Ragazza dell'Estate che meglio di tutte condensa la seduzione, rimane esemplare nella memoria e impersona l'aria del tempo, nel 1974 era Dacia Maraini. Attraente e schietta, non alta e fatta benissimo, occhi azzurri e ombretto azzurro sulle palpebre: nessuna volgarità, anzi i comportamenti aggraziati d'una educazione aristocratica. Amazzone amante delle lunghe passeggiate a cavallo, appassionata alla campagna e al mare, capace di vagabondare per ore in bicicletta o di restare per ore al volante dell'automobile, avventurosa nei viaggi scomodi d'Africa e d'Asia. Cosmopolita. Poliedrica: romanzi, teatro, cinema, poesia, giornalismo, impegno sociale. Circondata da una leggenda di scandalo sessuale: per i suoi libri che raccontavano l'amore con realismo, capovolgendo i ruoli tradizionali e guadagnandole sui giornali di destra la definizione «pornografa di sinistra»; per la passione suscitata in Moravia, al quale s'attribuiva la vittoria nel 1963 al premio internazionale Formentor del romanzo di lei L'età del malessere; per i cinque processi con l'accusa di oscenità subiti nei Sessanta a causa d'una poesia, d'un racconto pubblicato (figurarsi) su Paragone, d'un personaggio romanzesco a cui aveva fatto dire che Bagheria era mafiosa. Intellettuale di sinistra, compagna di Moravia e amica di Pasolini, più di loro vicina all'idea d'epoca «che vedeva l'intellettuale come voce di chi non ha mai avuto la parola». E femminista. Partecipe cioè dell'unico movimento, organizzazione o iniziativa di cui, per la prima volta in Italia, gli uomini non avessero il controllo, e dal quale risultassero anzi del tutto esclusi. All'inizio poco conosciuto e male inteso, ridicolizzato, giudicato con sdegnosa ironia dalle associazioni femminili legate ai partiti di massa, considerato con infastidita impazienza dalle donne «arrivate», ignorato dalle forze politiche tranne che dai radicali e dai socialisti, isolato per propria volontà e per arroganza altrui, dal 1973 il movimento femminista aveva cominciato a crescere, a rappresentare il fenomeno politico-culturale più rilevante dei primi Settanta. Cambiava tutto. Attraverso i media, sempre neomani e se- dotti dalle tematiche sessuali, l'ideologia femminista arrivava a milioni di donne: semplificata, distorta, degradata, magari accentata di scandalismo e di stravaganza. Ma alcune idee erano troppo forti per non farsi strada ugualmente: l'analisi e la condanna dei ruoli sessuali, il diritto delle donne a recuperare il proprio corpo, il diritto di scelta della maternità, le proteste contro la violenza quotidiana, diventavano comune sentimento femminile e condizionavano i nuovi rapporti sentimentali o coniugali. Cadevano tabù: l'aborto, sino allora dolore privato, vergogna segreta, comune reato, triste fantasma della cronaca nera, emergeva come nodo sociale e problema della collettività. Per la prima volta in Italia si vedevano strade e piazze invase da migliaia di donne che manifestavano in proprio, al di fuori dei partiti, per rivendicazioni assolutamente specifiche. Il femminismo diventava un trend culturale invadente l'editoria e il giornalismo, influenzante il cinema, la moda, il costume e l'amministrazione della giustizia. L'espressione «donna oggetto» suonava come un'insolenza o un'accusa. I comunisti rivedevano le proprie posizioni sulla questione femminile. La Chiesa riapriva la riflessione dei cattolici sulla condizione e natura della donna. Gli uomini si vergognavano un poco di sé. Dacia Maraini era già entrata nel 1968 nel primo gruppo femminista formatosi a Roma per iniziativa di Elvira Banotti, Rivolta Femminile: «Ma per me erano troppo mistiche, io preferivo un approccio più marxista e pragmatico. Non mi ci trovavo, me ne sono andata». Dopo un'esperienza nel gruppo femminista romano di via Pompeo Magno («I gruppi a Roma erano due: via Pompeo Magno e via Pomponazzi»), nel 1973 costituì il Teatro della Maddalena, sempre battezzato dal nome della strada in cui si trovava, la cui sede ospitò poi anche una libreria-biblioteca femminista, la redazione del mensile femminista Effe: «Attorno al progetto lavoravo con Catherine Spaak, Biancamaria Frabotta, Edith Bruck, Barbara Alberti, Marida Boggio, Annabella Cerliani... Volevamo fare un teatro di donne non per settarismo né per rifiuto degli uomini, ma per dare spazio alle donne: autrici, registe, attrici, musiciste, scenografe, tecniche. La sala del teatro ospitava poi tante iniziative, di cultura in senso antropologico. Incontri, riunioni di donne autodenunciatesi per aborto (me compresa), dibattiti, discussioni, gruppi di autocoscienza (io ne feci uno bellissimo con Maria Rosa Cutrufelli e Elena Gianini Belotti). Veniva dall'Inghilterra Germaine Greer, veniva Kate Millett, veniva Giselle Halimi da Parigi. Venne il primo gruppo americano di Self-Help, per insegnare alle donne ad esaminare da sole il proprio corpo, a farsi autovisite ginecologiche c autoesplorazioni per il tumore alla mammella (i giornali beceri sostenevano sghignazzando che le femministe mettevano uno specchio sul pavimento per guardarsi la vagina), oppure a insegnare l'aborto per aspirazione, per suzione con un tubicino». C'erano profughe politiche cilene e argentine (una di loro, Prudenzia Molerò, ebbe l'idea di «Suor Juana», spettacolo su una monaca scrittrice), c'era la cantautrice Fufi Sonnino: «Questa è di Marinella la storia vera/lavava i piatti da mattina a sera/e un uomo che la vide così brava/pensò di farne a vita la sua schiava», oppure: «E' la storia di una cosa/nata sotto un fiocco rosa». Nella militanza femminista: «Io mi tenevo sempre nel mio campo, che era il teatro», racconta Dacia Maraini. «Avevo già fatto militanza politica col teatro di strada: al mercato, in piazza, in borgata, alla Garbatela o a Centocelle Parlando con le donne coglievamo i problemi locali più urgenti, mancanza di casa o di fogne, scuole o strade dissestate, poi li spettacolarizzavamo: una tedesca suonava il flauto e io il tamburo, mia sorella cantava... Umanamente era un impegno enorme. Ero sempre via di casa ma Moravia, uomo raro, aveva un atteggiamento delizioso, un tale rispetto: un giorno che c'erano da noi il poeta americano Robert Lowell con la giovane moglie incinta e io avevo uno spettacolo in piazza, disse "Andiamo tutti", restarono a guardarci per cinque ore». Pasolini, invece: «Detestava il femminismo, così come detestava le as¬ sociazioni gay e non ha mai voluto averci che fare. Discutevamo litigando per notti intere, ma restando amici e continuando a lavorare insieme, per esempio alla sceneggiatura de Le Mille e una notte. Io non ero fanatica. Jean Genet sì, che era fanatico: rinnegava la letteratura, con Moravia parlava soltanto di Palestina, una volta che gli si chiese d'autografare i propri libri li buttò via gridando: "Non sono io che li ho scritti, lo scrittore Genet è morto, io sono al servizio della causa palestinese"». Maraini non era fanatica nella dedizione esclusiva al femminismo: «Ma allora pareva che ci fosse sempre energia e tempo per tutto», per i viaggi, gli amori, il lavoro, la militanza, lo sport, la vita letteraria, i libri, per l'estate operosa davanti al mare e sulle dune eleganti di Sabaudia, per la felicità. Non era fanaticamente separatista rispetto agli uomini: «La bisessualità era quasi una prassi, allora: partecipare alla vita delle donne voleva dire parteciparvi anche con la propria sensualità. Per me era un modo di praticare una sessualità diversa, non limitata alla genitalità, non ridotta alla coppia: un erotismo più diffuso, più corale». Non era fanatica artisticamente: «Il mito dell'ugualitarismo era terribile, nel momento artistico. Chi scriveva portava alla Maddalena il proprio testo, lo si leggeva ad alta voce in assemblea, si decideva tutte insieme se metterlo in scena oppure no. Ma nessuna voleva sentirsi dire che il suo testo era brutto: fioccavano le accuse di aristocraticismo, di discriminazione. C'era pure un'idea solipsistica della creatività: pareva che ciascuna dovesse esprimersi e nessuna recepire l'espressione delle altre, che tutte dovessero creare e nessuna dare attenzione alla creazione altrui». Fanatismo e dogmatismo restavano estranei alla bella scrittrice nata in una famiglia dove tutti scrivevano: la nonna paterna, polacca naturalizzata irlandese, scriveva in inglese libri di viaggi; il nonno paterno, scultore, scriveva d'arte e d'estetica; il nonno materno, siciliano, scriveva di filosofia e pubblicò nel 1912 un libro di ricette vegetariane; il padre, etnologo, scriveva i libri sul Tibet e sul Giappone che tutti conoscono. Lei aveva cominciato a scrivere da bambina, anche commedie comiche per burattini domestici o drammi storici rappresentati in collegio: per il primo romanzo, La vacanza, l'editore Lerici le suggerì di procurarsi una prefazione di qualche scrittore famoso. Lei la chiese a Moravia, Moravia scrisse piuttosto una presentazione «per introdurti nella società (degli scrittori) alla quale da oggi apparterrai». Diceva: «Ricordo benissimo la prima volta che mi portasti una tua novella, quella che fu poi pubblicata in Nuovi Argomenti. Eri ancora una studentessa di liceo, o meglio non lo eri più da poco tempo perché eri stata respinta agli esami di licenza e questo aveva provocato in te quasi un trauma e al tempo stesso una volontà decisa di sormontarlo... Volevi renderti indipendente: studiavi dattilografia e stenografia; pensavi di diventare hostess di qualche linea transatlantica... Tu volevi, in realtà, come si dice con termine volgare ma energico ed esatto, "sfondare"...». «Io volevo, in realtà, campare, sopravvivere: Moravia non lo capì, non avevo un soldo», commenta oggi Dacia Maraini. La giovane donna femminista ora è meno giovane, ma ragazza per sempre: scarpe da tennis, calzoni di tela bianca, giacca a vento azzurra e ombretto azzurro, cavalli, cani e gatti nella casa rurale di Campagnano. Il femminismo non è più un movimento di piazza, le sue idee sono in parte passate nelle leggi e nella realtà del costume collettivo. Moravia e Pasolini non ci sono più. Dacia Maraini è finalmente accettata nella società degli scrittori, vince premi letterari, prepara un nuovo romanzo. Non si rinnega: «Ripenso a quel 1974, ai primi Settanta, come a un momento bello, di grande vitalità. La gente voleva lavorare, discutere, conoscere, esprimersi, tirava fuori la propria spiritualità, era idealista, si dava. L'atmosfera era leggera: di speranza, di voglia di cambiare. Adesso grava un'aria pesante, la mancanza di generosità è totale». Lietta Tornabuoni Apparve a sorpresa nel mondo letterario con una leggenda di scandalo sessuale Le battaglie delfemminismo nel Teatro della Maddalena con la Spaak e le compagne. «Ma versogli uomini non ero separatista fanatica: per noi la bisessualità era una prassi» Attraente senza volgarità capace di suscitare la passione di Moravia. E per la destra era «la pornografa di sinistra» Catherine Spaak e (sotto) Barbara Alberti. Con loro Dacia Maraini lavorò al progetto del Teatro della Maddalena Alberto Moravia e Pasolini. Ricorda la scrittrice: «Pier Paolo detestava il femminismo. Litigavamo per notti intere, ma restando amici» in un immagine giovanile. Due numi tutelari del femminismo: Germaine Greer (a fianco) e sopra Kate Millett