Il giorno più lungo di don Salvatore di Ugo Bertone

Il giorno più lungo di don Salvatore L'ascesa di Ligresti, da Paterno all'impero costruito all'ombra del Duomo e dei potenti Il giorno più lungo di don Salvatore Così Di Pietro ha messo in crisi Mister mille miliardi MILANO. «Bel lavoro, però». Chissà, forse «Turi u mottu», Turi il morto, ha cominciato così, ieri mattina, il suo incontro con il giudice Di Pietro. Perché Turi da Paterno, ovvero Salvatore Ligresti, quei locali di palazzo di giustizia li ha rimessi a nuovo lui, con la sua Grassetto, pochi anni fa, come tante altre cose di Milano, tipo la sede provvisoria della Borsa. E don Salvatore, quei piccoli occhi furbetti che sanno nascondere i segreti, ama i lavori ben fatti. Ma è difficile che Antonio Di Pietro si sia ammorbidito di fronte al Paperone di Paterno, più di mille miliardi in Borsa, secondo le classifiche. Anche se pure lui, un briciolo di curiosità deve averlo: come ha fatto don Salvatore, sessantanni, a passare da un reddito imponibile di poche decine di milioni (anno 1978) a un patrimonio di migliaia di miliardi? Un uomo, Salvatore Ligresti, che nessuno, fino ad oggi, ha saputo inquadrare per davvero: finanziere di grido, nel salotto di Mediobanca, eppur buon frequentatore, fino a pochi mesi fa, del meno nobile salotto del dottor Sergio Sommazzi, quell'ex dirigente del Comune di Milano che, in cambio di mazzette, sveltiva le pratiche del «signor Rossi», pseudonimo banale scelto da Ligresti per le sue visite clandestine. Non ama la pubblicità, don Salvatore. Gli unici strappi am- messi sono per la famiglia. C'è chi se lo ricorda al fianco della primogenita, Jonella, quando, a metà Anni Ottanta, fu lei la regina delle feste delle debuttanti alla villa reale di Monza. Oppure, nell'88, pretese che pure Giulia, secondogenita, fosse presente all'assemblea della Sai che lo incoronò presidente. Troppo giovane, a quei tempi, il figlio maschio, Paolo. Adesso fa il servizio militare anche perché (età 21 anni) l'erede non dimostra la passione e tenacia del padre negli studi. Padre affettuoso, marito esemplare anche se, nel suo passato, c'è qualcosa da don Giovanni. «Perché ho finito disse tempo fa - l'università a Padova? Ho fatto un biennio a Catania, ero studente, viaggiavo. Mi sono fermato a mangiare in una tavola calda e si è avvicinata una bella figliola che mi ha detto: comandi, signore. Quell'accento tutto veneto, dolce... E' stato un fulmine, ho capito che ero arrivato». Il fulmine, nel tempo, si è rivelato l'acquisto della Grassetto, colosso padovano delle costruzioni, ora nel mirino delle inchieste. Gran lavoratore, con poche debolezze. Amico di potenti (fu lui a presentare Craxi ad Enrico Cuccia), ossessionato dalla riservatezza. Di lui, in realtà, si è saputo ben poco fino all'81 quando, il 5 di febbraio, tre «picciotti» siciliani gli rapiscono la moglie, la signora Giorgi- na «Bambi» Susini, figlia del provveditore capo alle opere pubbliche di Lombardia. Finisce con un riscatto da 600 milioni, dopo 40 giorni. Ma finisce male per i «picciotti»: dopo qualche tempo due vengono uccisi, un terzo, sparisce. «Qualcuno parla di mafia? Quante sciocchezze - spiega - e allora come farei ad essere socio di gente come De Benedetti o i Ferruzzi?». E di tanti altri, si può aggiungere, perché don Salvatore ha sempre privilegiato la strategia delle alleanze, da Pirelli al gruppo Pesenti, alle Generali. Ma tutto questo avviene negli Anni Ottanta, quando il caso Ligresti esplode. Lui, zitto zitto, si è in pratica assicurato il monopolio del mercato immobiliare di Milano. Gran fre¬ quentatore degli uffici pubblici, è il maestro dell'«edilizia contrattata». In pratica, l'imprenditore cede un terreno al Comune in cambio del permesso a costruire su un altro. Il sistema s'inceppa il 27 ottobre '86 quando il pretore Francesco Dettoli sequestra i cantieri di don Salvatore. Salta, sull'onda dello scandalo (detto delle aree d'oro) la giunta Tognoli, ma Ligresti tiene duro. La Cassazione gli darà ragione nel '91. Prima, grazie a Cuccia, la Borsa fornirà alle società i quattrini sufficienti per superare la prova dei sequestri dei cantieri, 32 in tutto. Ora, la tegola più pesante. E infamante. Per Turi, il ragazzo dell'Etna, la prova di San Vittore è un'infamia, una macchia in un curriculum da uomo d'ono¬ re, orgoglioso dei suoi inizi. «Tutto cominciò - raccontava in Borsa nell'87 - da un sopralzo. Via Savona a Milano, nel '62. Lo comprai per 15 milioni, grazie a una banca. Lo rivendetti a 50». Facile? Non per tutti, ma quel trentenne siciliano aveva capito tutto. Si associa a un architetto, Achille Cutrera, vicino al psi e a un costruttore, Brenta, che costruisce a pieno ritmo. E lui progetta, lavora, studia i meccanismi della pubblica amministrazione. La finanza? La scopre grazie a un compaesano: Antonino La Russa, poi diventato parlamentare missino. E' lui che gli presenta il più illustre figlio di Paterno, Michele Virgillito, il re di Piazza Affari negli Anni Sessanta. Gran personaggio, già muratore, maschera di cinematografo, venditore di cravatte. E gran finanziere. «Quello spiegò Ligresti - che mi insegnò a non far debiti e a comprare in Borsa. Anche se spesso io facevo l'opposto». E da Virgillito lavora Raffaele Ursini, l'ex impiegato della Liquigas giunto ai vertici della società e capace di rilevare la Sai dagli Agnelli. Quando Ursini fa crack è Ligresti che rileva la Sai. E balza sulla scena della grande finanza. Il resto è storia di ieri e di oggi, anche la causa intentata da Ursini per riavere indietro la Sai. Ma alle grane Turi u mottu è abituato. Ugo Bertone