Questa Milano come Saigon E gira la ronda della Lega

Questa Milano come Saigon E gira la ronda della Lega RIBELLIONE SOTTO LAMADUNINA min ili Klnnrv Questa Milano come Saigon E gira la ronda della Lega MILANO DAL NOSTRO INVIATO Ma è la gente che fa impressione. Dovreste vedere Milano. Il ghigno. La voglia di patibolo. Quelli che stringono le labbra, guardano per terra e ridono. Ridono di che? Del tonfo. Del tanfo. Ma sono, si comportano come degli insorti che si passano la parola, la parola viene dai telegiornali, è un'aria greve, irragionevole, insofferente. C'è anche chi ha paura, perché l'elemento razionale sfugge e non si riacchiappa più. Milano si sente anche sotto l'occupazione dai leghisti più arrabbiati che sono un po' come i norvietnamiti infiltrati nella Saigon delle puttane e della cocacola, ma anche come lanzichenecchi luterani, più che calvinisti neocapitalisti, ed arrivano dalla Brianza, da Cantù, da Saronno, sono le truppe di Varese. Vedono, riferiscono, si preparano ad ammainare la bandiera dei fuggiaschi e ad alzare la loro. Per loro Milano è melma. Peggio che Roma. Milano è melma perchè ha sopportato di farsi imbastardire fino a tollerare un regime infingardo, di rais féneants, di assessori di pizzolungo. Ciò che ha fatto saltare la santabarbara, a prescindere dalla tenacia petrosa di Di Pietro (ricorrenza delle assonanze, ricordate Petrosino?) è stato, per dirla col Piero Bassetti presidente della Camera di commercio, il sistema improduttivo della mazzetta, più ancora che l'immoralità della tangente: «Passi qualche goccia d'olio per oliare il motore - scherza - ma qui si scopre che il motore va tutto ad olio e per di più non cammina un accidente. E' allora che la gente dice basta e scende in piazza». In altre parole: passi la questione morale come linea di principio, va bene che i ladri debbano stare in galera come linea di principio, però sappiamo anche che il meccanismo va oliato. Ma va oliato perché funzioni. Qui invece, vacca bestia, non funzionava più niente. E allora che vadano a ramengo, che vadano all'hotel San Vitùr. L'arresto del Ligresti ha fatto impietrire la gente. L'edilizia di regime entra in prigione. Una svolta: con Ligresti il cuore della politica milanese è dentro fino al collo. Da adesso non si scherza più, ammesso che prima si giocasse. La botta è di quelle che non ti rialzi più. E anche la città è stravolta. La gente va meno al ristorante: il Savini è semideserto, e i camerieri ridacchiano. I negozi fanno meno affari, il superlusso cafone è sparito. E gira la ronda della lega. Il libraio di piazza Cavour, che mi pilota nel suo splendido museo di carta stampata, ascolta la novità e dice: «Sa, quando il Bossi ha detto la battuta sul Kalashnikov, lui forse scherzava, ma la gente era tutta per il mitra. La gente sarebbe pronta a prendere le armi, almeno dai discorsi». C'è molta isteria. L'ho colta nelle sale di dibattito, in certe conferenze amicali con quadri aziendali, alla presentazione dei libri «I tangentomani» di Antonio Carlucci e «I saccheggiatori» di Cinzia Sasso e Giuseppe Turani, e poi in tutta quella vasta area da sinistra anabattista e postcomunista che va dalla Rete a Rifondazione, con un fronte di grande odio e aggressività, rivolto essenzialmente contro i sociaUsti, ma poi contro tutto e tutti. Così, per fare un esempio, su «La società civile», settimanale che si stringe intorno a Nando Dalla Chiesa, il matrimonio di Tony Renis («dimmi quando tu verrai, dimmi quando quando quando») con Elettra Morini celebrato da Bobo Craxi, è descritto come una cerimonia sghignazzabile da basso impero. Poi incontro Bobo Craxi al bar Brera, a due passi dal circolo Turati e vedo questo ragazzo spaesato, con quell'aria da vecchio giovane dirigente di sinistra, e che è avvilito. Alza le spalle: «Ma che discorsi. Mi hanno chiesto di sposarli e li ho sposati. Ormai, qualsiasi cosa venga da casa mia è demonizzata, guardata con schifo». Chiede sigarette leggere, una spremuta. Gli dico: ma siete in mezzo alla tempesta, parlano di voi come dei dèmoni di Milano. Bobo con gli occhialini tondi mi guarda e si stringe nelle spalle: «Vuoi venire a vedere casa mia? Vuoi vedere la casa dei miei, la stessa casa del nonno dove in cantina Pertini, Carla Voltolina e Lelio Basso,prepararono il 25 aprile? Cosa vogliono vedere? Il nostro tenore di vita, i nostri lussi?». Ironizza sui titoli dei giornali a proposito delle visite notturne in casa: «Gli stessi che sono entrati da me e da mio padre, sono quelli che a casa di mia sorella hanno lasciato il regalino, credi a me». E' così. Tutti sono convinti che quel che sta accadendo a Milano, alla fine porti a Craxi. Intanto tutto è fermo. La magistratura ha voluto mettere le mani nel gesso della burocrazia, e ha trovato che dentro c'era sol- tanto marciume. In parole povere: non soltanto tutto andava a tangenti, in ogni campo, su ogni terreno, per ogni cosa. Ma si è anche scoperto che questo sistema mostruoso di sottrazione di ricchezza non produceva nulla. Neppure l'avanzamento dei lavori, niente. Riunione mattutina alla Bocconi un paio di giorni fa in cui ascoltiamo interventi a mezza bocca di questo tenore: «Chi me lo fa fare, a me funzionario, che prendo due milioni al mese, di dare una licenza se non mi dan- no tre milioni di mazzetta». La discussione è di alto livello, si fa notare che la mazzetta consente alle forze politiche di far funzionare il consociativismo (governo e opposizione uniti nella greppia: uno a te, uno a me e uno a mamma che fa tre), a quelle industriali di realizzare il trust perfetto, la morte della libera concorrenza, e di far marcire e marciare così la sgangherata marcia di Radetzki della Milano post-teresiana, e semmai regredita ai tempi spagnoli, alle plebi infuriate che reclamano pene supreme, mentre l'autorità accenna benevolmente: «Si es cupable, si es cupable...». Ma qui i cupables sono carrette: già hanno visto le manette trenta politici e altrettanti imprenditori, la gente fa la conta, il telegiornale è una festa, ad ogni nome si leva alto un nitrito di gioia. Giacobinismo, forse. Ma giansenismo e moralismo calvinista anche. E viene più che dalla Milano degli affari, dalla grande Milano corrotta e mazzettara, viene dalla provincia in cui ancora la brava gente arrossisce, e ricorda Maria Teresa. «Sa, mi dice un vecchio professore, è dai tempi dei piemontesi che in questa città manca una amministrazione di funzionari. Prima avevamo avuto quella degli austriaci e di Maria Teresa, ma poi nulla. I terroni, mi scusi l'espressione, hanno portato il funzionario corrotto, borbonico, una mano lava l'altra...». Mi permetto di replicare: «Di Pietro è uno sbirro e un cafone, e vi sta sbattendo tutti in galera. Quello è come un contadino che finché non ha tirato via tutti i sassi dal suo orto, non molla». Ragazzi leghisti acconsentono. Uno ricorda che Di Pietro cominciò scavando nel giardino di un tale che era scappato in Germania con l'amante finché non trovò i tre cadaveri di moglie, figlia e suocera che quello aveva ammazzato. No, Di Pietro scava, altro che se scava. E chi lo ferma. Vado in via della Spiga. Chiacchiero nei negozi. Tutta gente che è stata tenuta a mazzetta, i bar, le licenze, le vetrine. Come a Reggio Calabria. Peggio. Imbufaliti neri. Il grande cerchio che adesso si sta stringendo come il cappio del boia intorno al collo della nomenklatura è partito da queste storie minime. Roba che dipendeva da Al Capone, cioè l'assessore Angelo Capone. Ma Milano non è Reggio Calabria non soltanto e non tanto per ragioni teresiane, ma perché la gente ragiona sempre sui costi: pagarti? In cambio di che? Qual è il vantaggio? Quello ti risponde (come fa a Locri, come fa a Palermo): «In cambio del fatto che ti lascio vivere». E qui scatta la ribellione moral-commerciale: «Eh, no! caro il mio mafioso. Non c'è vantaggio e non mi fai nemmeno paura». Di qui la ribellione nel piccolo, e l'allargamento nel grande. Chiesa finisce dentro non soltanto perché si fa beccare con sette milioni controfirmati da Di Pietro, ma anche perché sul suo conto si sono già accumulate registrazioni nate da altri fattarelli minori. E di lì è cominciata la scalata. Perché Milano, che non è una santa, che è imbastardita da una classe di nuovi ricchi, può sopportare la tangente finché può passare come «commissione», mediazione, il prezzo di un favore. Ma quando la tangente è puro parassitismo di prima spremitura e basta, scatta la vitalità commerciale che precede anche l'indignazione morale, scatta il meccanismo dei fratelli Verri, uno che viaggiava e uno che teneva la bottega, scatta l'insurrezione. Non che possa scorrere il sangue, ma la provincia, testarda, lombarda, brianzola, leghista, moralista, savonaroliana, assedia e sperona la trippa cittadina, e tutto è un brusio, un protestare, un tam tam di minacce sconnesse o ben connesse. Certamente qui, ora, si apre un nuovo capitolo della storia d'Italia, perché un punto di non ritorno è varcato, e a che cosa porterà staremo a vedere. Paolo Guzzantì Città sotto choc dopo gli ultimi arresti paralizzati il commercio e l'edilizia Bassetti: la gente non ne può più dice basta e scende in piazza Sopra Piero Bassetti e a destra Bobo Craxi Sopra, Nando Dalla Chiesa, rappresentante delia Rete I giudici Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo. Nella foto grande Ligresti