Alla Convention il protagonista è Perot
Alla Convention il protagonista è Perot Preoccupazione tra i democratici, la scomparsa del miliardario avvantaggerebbe Bush Alla Convention il protagonista è Perot Crollano i consensi, voci di un imminente ritiro NEW YORK DAL NOSTRO INVIATO La scena ancora piuttosto vuota della Convention democratica al Madison Square Garden è stata un po' animata, ieri, da alcune voci riguardanti un possibile ritiro dalla corsa di Ross Perot, 0, per l'esattezza, di un suo clamoroso rifiuto ad entrarvi dopo tanti preparativi e tanto rumore. Il miliardario texano, infatti, è ancora un «undeclared candidate», avendo avvertito tempo fa che avrebbe sciolto la riserva, annunciando ufficialmente la sua candidatura oppure declinandola, entro la fine di luglio. La scadenza si avvicina e a Perot le cose vanno sempre peggio: ha perso sei punti nei sondaggi solo negli ultimi 20 giorni; infila una «gaffe» dietro l'altra, sui gay, i neri 0 altro; i suoi «volontari» cominciano ad abbandonarlo e, ultima notizia, i suoi due pagatissimi consiglieri e professionisti delle campagne presidenziali, Ed Rollins e Hamilton Jordan, minacciano di dimettersi. Insomma, la «banda Perot» si sta sfasciando e, se le voci si rivelassero fondate, per i democratici si aprirebbe uno scenario nuovo, forse più preoccupante che consolante. Ieri, attraverso i loro portavoce, sia Rollins, che guidò la campagna di Ronald Reagan neh'84, sia Jordan, che impostò quella di Jimmy Carter nel '76, hanno assicurato che «resteranno» con Perot. L'hanno dovuto fare perché molte, troppe, notizie erano trapelate ai giornali, ma, in questo modo, hanno confermato che ci sono dei problemi seri. La ragione principale è che Perot è ingestibile. La sua frase preferita è: «Quando lo decido io» e, intanto, il miliardario inanella collane di errori. Tanto che, secondo il «Washington Post», Rollins e Jordan gli hanno detto chiaramente che, di questo passo, avrà presto un indice di gradimento «a una cifra sola». Jordan non nasconde di rimpiangere i tempi in cui doveva maneggiare il diligente Carter ed è arrivato a un centimetro dalle dimissioni, scegliendo poi, anche se poco convinto, di fare un altro tentativo. Rollins, che era abituato a parlare fuori dai denti anche con Reagan - peraltro un maestro nel gestire la sua propria immagine -, non ha digerito il licenziamento di Hai Riney, assunto per realizzare «spot» televisivi, dopo essere diventato famoso per la sua serie «Morning in America» a favore di Reagan. «E' il migliore nel suo campo - ha commentato Rollins acidamente - ed era stata la prima assunzione che avevo fatto». A Perot il suo lavoro non piaceva e gli sembrava troppo caro. Lo ha sostituito con Murphy Martin, pensionato di Dallas. Mentre, con trasparente disprezzo, chiama «cosmetologi» i due consiglieri da lui stesso assunti, Perot sente che le cose non vanno. «E' completamente frustrato - ha confessato un suo collaboratore.- Non si.era mai trovato in una situazione così». «Sta cominciando a capire che cos'è una campagna», ha detto un altro. Poiché, come era scritto ieri sul «Washington Post», «Perot è malato di arroganza allo stadio terminale», l'ipotesi di un abbandono è plausibile: abituato a comandare e vincere, il miliardario non è tipo da infilarsi in una battaglia persa in partenza per fare la comparsa. Può essere un problema per i democratici. E' vero che esiste un «partito Perot» anche al loro interno: Doug Wilder, se Perot gliel'avesse chiesto, forse avrebbe accettato di presentarsi come suo «vice» e forse anche Mario Cuomo ha più simpatia per il texano che per Clinton. E poi c'è il problema Jerry Brown, che non accetta di appoggiare Clinton, a costo di non poter parlare alla Convention, perché lui, ha detto, non accetta i ricatti, «come hanno fatto Jackson e Tsongas». Resta però il fatto che il grosso dei voti Perot li ruberebbe a George Bush e Clinton ne ha bisogno, perché, anche secondo il migliore dei sondaggi, pur avendo avvicinato il Presidente uscente, il candidato democratico avrebbe la maggioranza in soli cinque Stati più Washington D.C.: solo 58 dei 270 voti elettorali necessari per diventare Presidente. Paolo Passarmi New York: foto ricordo per poliziotti e ballerine, vicino al Madison Square Garden [FOTOAP]
Luoghi citati: Dallas, New York, Washington D.c.
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