Schygulla tragica per allegria

Sdiygulla, tragica per allegria Incontro con l'attrice tedesca impegnata a Gibellina in «Metamorfosi di una melodia», regista Amos Gitai Sdiygulla, tragica per allegria «Senza radici la vita è molto più bella» GIBELLINA DAL NOSTRO INVIATO «La mia generazione è quella che ha intaccato la rimozione dell'olocausto, durata in Germania più di 25 anni - dice Hanna Schygulla, con voce fredda e vibrante, scuotendo i lunghi capelli nel vento della notte -. Dentro di noi non avevamo amore per la patria. Non ci identificavamo con la storia e la cultura tedesca. Non sentivamo colpa per quello che era successo. Eravamo contro le autorità che avevano fatto calare il silenzio su quella ombra terribile. Per questo abbiamo potuto ricominciare a tessere i fili della memoria e della riflessione. Forse quella rimozione era stata necessaria per continuare a vivere. Ma èra durata anche troppo. La gente non voleva sapere, teneva aperto un occhio solo... Così come facciamo noi oggi... Stiamo vivendo un processo apocalittico, ma andiamo avanti come se niente fosse: non pensiamo alla catastrofe ecologica, all'aumento della popolazione nel mondo, ai ricchi che diventeranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri...». Nella luce dei riflettori la sua faccia è intensa e bianca, come di cera. Per due ore è stata immobile, su un dosso di rovine. Alle sue spalle c'era un muro sbrecciato, tutto quello che è rimasto di una casa inghiottita dal terremoto del '68. Davanti aveva il palcoscenico misterioso e suggestivo della vecchia Gibellina ricoperta dalla gettata di cemento disegnata da Alberto Burri. Nello spettacolo diretto da Amos Gitai (e recensito sulla «Stampa» di domenica da Masolino d'Amico), «Metamorfosi di una melodia», impersona «l'anima dell'esilio», è una presenza ieratica, una voce che grida e canta lo strazio della guerra e della morte. Lei che i critici di tutto il mondo hanno salutato come «la più moderna ed eccitante attrice del nostro tempo», «l'attrice che ha creato un capitolo nell'autobiografia della donna europea», ora è emozionata. Si guarda intorno e dice: «Qui c'erano dolore e distruzione. L'uomo ha saputo trasformare un luogo così in arte, nell'arte che diventa fatto, vita». Il pubblico continua ad applaudire e i pescatori della tonnara di Favignana ancora levano il loro canto, quando lei scende agile fra i cavi elettrici, gli sterpi e il camminamento che attraversa il «cretto» ideato da Burri. Si toglie il mantello di panno scuro e la fascia nera che le cingeva la testa. Si spoglia e strucca, insieme con gli altri, in un capanno di lamiere. In una borsa di tela mette i suoi indumenti e portandola ciascuna per un manico, lei e un'amica venuta da Cuba - si avvia verso il tendone dove sono stati preparati i tavoli per la cena. Dice: «All'inizio mi chiesi: un'altra cosa ancora sulla guerra? Me lo proponeva Gitai, un regista israeliano che ha scelto l'esilio per parlare del suo Paese. Si rileggevano le "Guerre giudaiche" di Flavio Giuseppe, che duemila anni fa ha raccontato l'inizio della diaspora degli ebrei senza il peso delle ideologie in cui le chiese e i partiti irrigidiscono la verità. E allora ho visto in questa collaborazione fra ebrei e tedeschi la possibilità di elaborare il passato. Lo spirito dell'esilio mi riguarda. Io sono nata a Katowice, la città polacca che sino al '21 era stata tedesca e che i nazisti occuparono nel '39. La mia era una famiglia di profughi, fuggiti a Monaco con l'ultimo treno per l'Occidente. Fin da bambina mi sentivo con un'anima doppia: ero una che stava con gli altri, come gli altri, e una che non apparteneva al mondo in cui viveva. Sono sempre stata attratta dalle cose estranee. Mi chiamavano "la polacca", la "bambina fuggitiva". Questo, per me, non era motivo né di orgoglio né di umiliazione o imbarazzo. Era così e basta. Forse è una delle ragioni per cui sono diventata attrice, una che fa vivere personalità e storie diverse. Quando ero piccola e con la scuola andavamo in gita o in vacanza, la sera le altre bambine piangevano, avevano nostalgia. Io no, mai. A volte penso che a me manca qualcosa, forse l'attaccamento a una radice, un'identità. Oggi ho chiesto a Masha, questa grande cantante russa che è con noi: "Sei contenta di essere qui?". Lei ha detto: "Sì, sì. Però, quando sono lontana dalla mia terra, io non sono io: è come se dormissi". Per me è il contrario: quando sono in un luogo estraneo, mi sveglio, sono creativa, sento la vita appartenermi. Anche per questo, da dieci anni, abito a Parigi. A Monaco torno solo per fare visita ai miei genitori. In particolare a mia madre, che è molto malata, che amo moltissimo e che mi ha insegnato - proprio lei che ha perso l'uso della parola - il linguaggio dell'amore». Sotto il tendone servono la cena. Lei assaggia un po' tutto, dai nostri piatti, con allegria e golosità. «Io sono una donna allegra. Le figure tragiche dei miei film non mi toccavano. A volte ho rifiutato dei ruoli perché non sopportavo il peso di storie cariche di dolore o violenza. Ad esempio, ho detto no a David Lynch quando mi ha chiamato per "Blue Velvet". Uno dei miei errori professionali. Ma il cinema non sta in cima a tutto. La mia vita conta di più. Il successo è bellissimo, è magico. Ma c'è una magìa più segreta e importante che è alla base dell'arte: saper ascoltare se stessi. Io pratico molto la solitudine. Che è diversa dall'isolamento. Quando torno a casa la sera, e tutto è silenzio e mi chiudo dietro la porta, allora ricomincio a caricarmi». Un ragazzo viene a chiederle l'autografo. Le dice: «L'ammiro moltissimo. Ho visto tutti i suoi film. Mi è piaciuto tanto "Veronica Voss"». Lei lo ringrazia, aspetta che si allontani e ride: «Quel film non l'ho fatto io!». Respira i profumi della notte siciliana. Parla della bellezza, che era convinta di non avere e per cui ha smesso di crucciarsi: «Adesso mi sono finalmente liberata! Non me ne importa niente», annuncia. Parla del matrimonio, che ha sempre schivato con cura. E dei ricordi che la inseguono: «Tutti mi chiedono di Fassbinder! Non ne posso più. Mi sembra di essere diventata un pezzo di museo!». S'iUumina quando parla della maternità come esperienza fisica e psichica che avrebbe amato viversi, «un terremoto nella vita di una donna, immagino». Spiega però che considera maternità «il rapporto col bambino, la cura del suo corpo, l'attenzione alla sua crescita perché sia felice». Fare questo, dice, è un progetto che ha messo nel suo futuro. Progetto immediato, invece, è un film che girerà in Turchia, la storia di un'attrice che finisce a metà fra Europa e Oriente: «Sempre la stessa melodia, con variazioni!», commenta ironica. Le suggerisco: vada a visitare Aphrodisia, in Turchia, una bellissima città romana .. ((Aphrodisia, Aphrodisia... Certo che me lo ricorderò...», ripete, con gli occhi colmi di riso e di un'ombra di lacrime. Liliana Madeo La mia generazione è quella che ha cominciato ad avere coscienza dell'olocausto. La Germania lo aveva rimosso per 25 anni Tutti mi chiedono di Fassbinder Non sono un pezzo di museo Hanna Schygulla in una immagine di Xavier Lambours (foto G. Neri), sotto in «Lili Marleen». Qui accanto il regista Amos Gitai A sinistra una immagine sexy di Hanna Schygulla protagonista di molti film di Rainer W. Fassbinder (sopra)