Vuoi fare il poeta? Paga

Vuoi fare il poeta? Paga Tangenti: la denuncia di Garboli sull'autore da spennare Vuoi fare il poeta? Paga Per un centinaio di pagine da tre a sedici milioni Colpevole la scuola: non insegna ad amare le liriche EE tangenti nell'editoria ci sono: qualche miliardo l'anno. Soltanto che non si chiamano così, si chiamano «contratti». Sono accordi in base ai quali l'autore paga le spese (dai tre milioni in su) e l'editore promette distribuzione e recensioni fantasma. L'ha denunciato ieri in un'inchiesta sulla Stampa Cesare Garboli: «Non vola denaro se non tra quegli pseudoeditori che sfruttano la dabbenaggine dei poeti dilettanti e si fanno pagare. Questa sì è una vera e propria lebbra». E' un arcipelago nebbioso: impossibile contare le case editrici, impossibile contarne la produzione, quasi del tutto estranea al controllo Siae. L'Istat calcola oltre mille titoli l'anno di sola poesia in Italia (su 37 mila, dalla scienza alla narrativa, dalla saggistica alla scolastica). Le grandi collane sono cinque: Mondadori, Einaudi, Garzanti, Feltrinelli, Guanda. Poi editori più piccoli, prestigiosi, come Scheiwiller o San Marco dei Giustiniani, quindi centinaia di marchi seri, meno seri e via via fino agli imbroglioni, che nascono, scompaiono, risorgono. Succede di tutto, dall'onestà alla truffa, ma le truffe non si vedono perché difficilmente chi ha pagato e mai visto il volume in una libreria va dal giudice: sarebbe confessare in pubblico di essere «autore a pagamento». Salvo eccezioni: è recente un caso finito negli studi di Mi manda Lubrano. Ma c'è da vergognarsi? La richiesta di contribuire alle spese nasce da difficoltà obiettive a «vendere poesia». Dice Giovanni Raboni: «Per un poeta affermato duemila copie sono una tiratura straordinaria». Perciò alcuni scelgono di pagare, e pagando si può stampare di tutto. Questo teme Raboni: «L'ondata di non poesia pubblicata ad ogni costo disorienta, scredita tutto. D'altronde ciascuno è libero di spendere i soldi come vuole». Più cupo Andrea Zanzotto: «E' un argomento triste, uno degli ultimi gironi della decadenza del libro. Ma il mercato è strano. La poesia o è di alto livello o non si sa quando sia poesia e quando no». E' tollerante Giuseppe Conte: «Provo comprensione per chiunque si misuri in questo campo. In fondo si esprime sempre un disagio. Capisco il bisogno interiore. Altra cosa è l'innamoramento di sé, la presunzione che fa parte di un sottomondo retorico, manca dei presupposti reali: misurarsi con l'anima e con il linguaggio. Autoqualificarsi poeta è detestabile». Rime, immagini ad effetto, equilibrismi grafici. Poi si rompe il salvadanaio. Ci siamo procurati una serie di contratti: dai 3 milioni a rate (2.700.000 in contanti) ai 16 milioni, da trecento a trenta copie omaggio (seppur già pagate in anticipo). Si promettono recensioni e distribuzione, ma spesso non esistono. Nemmeno le giurie dei premi riescono a leggere tutto. Ma qual è il confine tra partecipazione alle spese e cinico sfruttamento? «E' una distinzione insidiosa», dice Umberto Piersanti, poeta e docente di Sociologia dell'arte e della letteratura all'Università di Urbino, autore di un libro, L'ambigua presenza (Bulzoni editore), sulla lettura della poesia. Spiega: «L'Italia è prima in Europa, seguita dalla Spagna. Nel solo Salento, in dieci anni, sono uscite 4 o 5 mila plaquettes a pagamento. Esistono due tipi di pagamento: uno da cialtroni, ingannevole, un altro serio, fatto da editori minori ma convinti. Il presupposto sono sempre le vendite basse. E' un problema italiano: qui un autore vende mille copie, la stessa cifra delle Fiandre, che hanno sei milioni di abitanti». E un colpevole Piersanti lo individua nella scuola: «Solo un professore di lettere su venti ha in casa una raccolta di poesie fuori dal programma scolastico. Quando ero presidente di commissione, a un esame di maturità, trovai insegnanti liceali che, sentendomi parlare di Caproni, dissero che avevo la mania delle cose strane. In que- sto clima smitizziamo il significato negativo dell'autore che paga: è costretto». Aggiunge Conte: «La poesia è un problema di fede, e per questa fede si fanno delle cose. Io nel '75 spesi centomila lire per una plaquette». Maria Luisa Spaziarli: «Penso ai pagatori storici: Proust, Campana e il meraviglioso Satta del Giorno del giudizio, che si rivolse al suo editore di testi giuridici per lasciare il ricordo ai nipotini. Pagare o restare nell'ombra? Anni fa dicevo: non prestatevi a speculazioni utili soltanto al furbo stampatore. Poi ho incontrato un tale a cui avevo dato questo consiglio quando aveva vent'anni. Ora ne ha quarantacinque e continua a covare il manoscritto nel cassetto. Di che cosa sarò stata responsabile?». A Carlo Levi chiesero: è possibile che un poeta di genio muoia senza aver trovato editore? «Assolutamente no», rispose Levi: «Il genio del poeta consiste nel trovare l'editore». Meglio pagare che rimanere sconosciuti? Qualcuno l'ha fatto, ma la delusione resta. Cocente, disperata. Gian Carlo Mascia, autore del poema Eumenides (Genesi editrice), ha collezionato centinaia di lettere di critici, poeti, direttori di collane: «Lei sarà pubblicato da noi, ma chissà quando», «Considero il suo lavoro uno dei pochi grandi autentici poemi del nostro tempo», «I risultati sono davvero esemplari e grandiosi, degni di Proust». Firme notissime. Nessuno però ha speso due parole dopo la pubblicazione a pagamento. E Mascia ha scritto alla Stampa: «Il suicidio è la soluzione definitiva di mi problema temporaneo». Si riferisce a Remo Pagnanelli, poeta e critico marchigiano (Mursia ha raccolto postumi i suoi saggi), che si uccise nell'87. Aveva 32 anni. E scrive Dario Bellezza su Nuovi Argomenti: «Se un giovane poeta dovesse oggi cercarsi un editore si troverebbe veramente in difficoltà. L'unica via da seguire è quella del silenzio, o del suicidio. Ogni giorno ci sono dei suicidi: poeti che si sono suicidiati: da ultimo Pagnanelli, e prima Nadia Campana a Milano, la patria dell'editoria influente e ter¬ rorista, e Beppe Salvia a Roma». Pagare per non morire? Risponde Maurizio Cucchi: «Il genio incompreso potrà sempre esistere, ma sarà sempre un'eccezione. Alla fin fine, nomi di poeti ce ne sono a bizzeffe. Qualcuno è dimenticato, è triste per lui, ma è così. La poesia, comunque, non gioca sul successo immediato, gioca sulla durata. C'è una vita per farsi vedere». Ma come illudersi che la critica guardi nella palude di carta per distinguere l'esibizionismo dal talento? Cucchi: «Questo sì, è un problema. Molta produzione è legata al libro vissuto come un feticcio. Ma lasciamo da parte chi specula sulle frustrazioni, parliamo di poesia: pagare non è un'infamia». Sostiene Valentino Zeichen: «Il genio passa tra le maglie dei vari meccanismi, non rimane oscuro. Nella poesia c'è qualcosa del trattamento analitico, c'è bisogno di comunicazione, ma anche di autoanalisi. In buona percentuale è frutto di solitudine. D'altro canto c'è la letteratura ancora vista come una stazione del prestigio sociale. Magari, nella scala, non è l'attico, ma è già il terzo piano su sei. E' qui il punto: molti si accostano senza rendersi conto che prima di salire le scale bisogna lavarle, fare il portiere». E' più àuro Giorgio DelTArti: «La poesia è praticata solo nella parte attiva. Scrivono e non leggono. E' la coda di un atteggiamento culturale: si cerca imo status. Al massimo si leggono fra loro, non conoscono neppure la vera poesia». Dell'Arti cura sul mensile Wimbledon una rubrica che ospita poesie a pagamento e altre gratis, senza dire al lettore chi ha pagato e chi no. Ne sono arrivate duemila in due anni. Di- ce: «Gli scopi erano due: saggiare l'oscuro mondo degli autori e spingere i primi numeri del giornale. Ma non abbiamo potuto sopprimere l'iniziativa». La rivista Scrìvere, invece, è tutta a pagamento, annuncia ben chiare le tariffe: 20 lire a battuta per la prosa, 100 lire per la poesia, 150 mila un'intera pagina. E chi paga scrive quello che gli pare (salvi i limiti del codice penale). Arrivano migliaia di testi, il teatro che prende il sopravvento sulla poesia. Secondo il direttore, Michelangelo Coviello, «la qualità è abbastanza buona». E che beneficio hanno gli autori? «Di 3 mila copie tirate, alcune vanno ai critici, agli editori: è una vetrina, dalle regole chiare». Sandro Gros Pietro, editore, titolare di Genesi, pubblica autori noti e sconosciuti, e a questi chiede un contributo: «I conti sono presto fatti: un quarto delle spese rientra dalle vendite. Il resto da qualche parte deve venire. L'editore onesto dice come stanno le cose, spiega le spese, la tiratura, la distribuzione». Gli arriva di tutto: «La più praticata è la poesia civilistica, razzismo, droga; poi quella memorialistica, dove si parla di sé, dei propri ricordi; quindi il crepuscolarismo lacrimoso, gente convinta che la poesia è tale soltanto quando fa piangere; infine gli esperimenti linguistici». E come si sceglie fra povero di talento e ricco insulso? «Non si sputtana il nome della casa editrice, si fa una scelta. I criteri sono due: uno di qualità, l'altro di occasione mondana, il personaggio, che so? la Tamara Baroni del momento». Conclude Dell'Arti: «Il talento può uscir fuori, qualunque sia la strada. Pagare o no? E' indifferente. Quello che conta è capire che si ha in sé mi atteggiamento professionale autentico, non una smania esibizionistica. La vanità è una brutta bestia. Faccio un paragone sportivo: gli atleti devono saper soffrire, altrimenti non tagliano il traguardo». Marco Neirotti tu e on» nto: i» Andrea Zanzotto è drastico: «E' uno degli ultimi gironi del libro». Qui sotto: Giuseppe Conte, comprensivo «per chiunque si misuri con I anima e il linguaggio» La poetessa Maria Luisa Spaziarli: ricorda i «pagatori storici come Proust, Campana e Satta». Accanto: un disegno di André Francois tratto da «Art of the times» Giorgio Dell'Arti. Pubblica sul mensile «Wimbledon» poesie a pagamento: «Duemila arrivate in due anni» Raboni: «Così si scredita tutto». Zeichen: «Il genio non rimane oscuro»

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