TARDELLI quell'urlo di Madrid non è ancora finito

TARDELLI quell'urlo di Madrid non è ancora finito Esattamente dieci anni fa tutta l'Italia era in delirio per il trionfo degli azzurri nel Mundial di Spagna TARDELLI quell'urlo di Madrid non è ancora finito ABRESCIA Bologna vado, eccome. Non posso mancare al revival di Italia-Germania anche se ho le gambe a pezzi. Dolori alla destra, male alla sinistra. Mi davano per morto già dieci anni fa, quando ho dato una mano a vincere in Spagna...». Marco Tardelli è restato nel calcio, con addosso l'etichetta di campione del mondo, la fama di calciatore di temperamento, cuore e cervello. Tutto coagulato in un carattere che spesso ha fatto tremare gli interlocutori, allenatori compresi, i quali alla fine gli perdonavano tutto. Troppo importante Marco in campo, troppo utili la sua carica agonistica e il suo furore. Per il mondo, non solo del pallone, Tardelli è l'atleta che la notte di domenica 11 luglio 1982, al 69' della finale mondiale fra Italia e Germania, chiudeva virtualmente la partita segnando il gol del 2 a 0 (assist di Scirea, stop di destro e botta secca di sinistro) per iniziare la più lunga corsa esultante, per lanciare il più lungo grido di vittoria nella storia dello sport. Cinquanta metri, dalle soglie dell'area avversaria quasi a quella azzurra, per finire nel mucchio dei compagni. Un film che è stato ripetuto mille volte, usato per spiegare cos'è il raptus calcistico, contrabbandato da molti spezzoni pubblicitari. Sono passati dieci anni, e quell'urlo di Tardelli mette ancora i brividi e fa tremare di emozione. Per i tedeschi è ancora un incubo. E' stato un momento di gioia per la vittoria, di disperazione e di rabbia verso i tanti che non credevano più in me - dice -, una liberazione. Cerco di spiegare e di spiegarmi, ma neppure il tempo passato da quella notte mi aiuta a capire. Ho fatto i conti, erano quasi le ventuno e trenta. La data e l'ora mi restano dentro, come quelle di quando sono nato. C'era tutto in quella corsa e in quell'urlo. Un vulcano di cose positive e negative. Venivo da un campionato sofferto per guai fisici, avevo sentito attorno diffidenza e sospetti. "Tardelli non ce la fa più, perché Bearzot non lo lascia a casa?". Poi gli insulti alla squadra durante il Mondiale, il nostro silenzio stampa, il nostro raccoglierci sempre di più. Credo di aver avuto bisogno di quello sfogo. No, non so cosa ho gridato durante quella corsa. Lo giuro. Mi sono rivisto tante volte. L'unica cosa certa è che non mi sono mai vergognato di quello sfogo. Anzi. E semmai mi dispiace soltanto di aver tolto tanto spazio, con quella corsa diventata emblematica, a compagni che meritavano di essere loro, da Zoff a Gentile a Scirea, i protagonisti del trionfo del Bernabeu. Dieci anni passati senza cambiare nulla di Marco Tardelli. Forse mi sono addolcito un poco, lavorare per i giovani è bello. Mi piace quando ne incontro uno che ha un carattere come il mio, che non fa troppi calcoli. Lei non ne ha mai fatti, neppure in quella avventura mondiale. Ricordiamo una sua reazione verbale dura, persino violenta, nel bar del ritiro azzurro di Pontevedra. E' stato il mio primo sfogo, magari l'inizio dell'urlo di Madrid. Gianni Brera nelle sue pagelle di preparazione al campionato del mondo aveva scritto più o meno "Tardelli è finito". Un giornalista che conta, un giudi- zio che mi feriva. Ho reagito scioccamente, con una battuta pesante, quando l'ho visto entrare in quella saletta del nostro albergo-castello. Adesso non rinuncerei a dirgli ciò che penso ma sarei molto più sereno. E anche più duro. Non mi sento cambiato, ma maturato sì. Ho quasi 37 anni. Avete trascorso un mese insieme, voi ventidue scelti da Enzo Bearzot, e dal 25 giugno all' 11 luglio vi siete chiusi, protetti dal silenzio stampa. Veniva solamente Dino Zoff a parlare con i giornalisti. Che cosa vi dicevate, che cosa volevate dirci negandovi, che cosa pensavate? Che c'era solo un modo, quello, di essere noi. Le vigilie erano tormenti, le notti mie da calciatore sono sempre state tormentate. Ero in camera da solo, nessuno mi voleva al suo fianco. Dormivo poco, mi agitavo, accendevo e spegnevo la luce, mi alzavo e passeggiavo per la stanza. Al Mondiale, prima di entrarvi, facevo tardi assieme agli altri della Juventus, ma gli ultimi a cedere erano Oriali, Bruno Conti e Selvaggi. Nel gruppo non si guardavano le maglie sociali. Parlavamo di gioco, di tattica. Mi ricordo che aspettando la finale era proprio Selvaggi, che non ha mai giocato, a darmi coraggio. "Tranquillo, i tedeschi vengono sotto e li infilate in contropiede". E' andata proprio così. Un mese di clausura, per vincere un Mondiale. Le famiglie lontane, le donne pure. Le donne, ecco. E' stato un dramma? Si fanno romanzi attorno a questo problema, ma drammi non ne esistono sul piano sessuale. Manca di più la famiglia, per chi ce l'ha. Durante la stagione un calciatore non ha ostacoli, se non il proprio buon senso, nel fare all'amore. La vita del giocatore è bella, pensate ai mille problemi anche di natura spicciola per chi lavora in fabbrica... No, non ho patito certe limitazioni. E poi le giornate del calciatore passano in fretta in un campionato del mondo. Gli intervalli fra le partite sono pieni. Ti alleni, ti curano perché qualche bubù l'hai sempre, non hai finito di ripassare la gara appena passata che già pensi a quella che arriva, discuti con i compagni e con il tecnico. Le nostre giornate saranno sembrate lunghe e vuote a voi, da fuori, ma vi sbagliavate. Ha scordato il tempo che passate al telefono. I calciatori sono i più grandi clienti delle compagnie telefoniche. E' verissimo. Le linee bollivano. Io sono un vip a livello di utenza. Credo che in Spagna mi abbia battuto, nella durata delle comunicazioni via filo, solo Daniele Massaro. Lo capivo. Era più giovane, non giocava, forse lui sentiva delle nostalgie particolari. Ma i libri, i giornali, non aiutano a riempire le ore? Si, c'è spazio per la lettura. Ma dei quotidiani c'è una ressegna stampa, soprattutto quel tamtam che ti avverte subito delle critiche, delle cose cattive. Leggere, però, è un modo di isolarti con te stesso. Sembrerà strano, ma in quei giorni sentivamo bisogno della vita di gruppo, di stare uniti, di parlare. Ecco, magari pensate che giocare a carte sia una semplice distrazione. Invece anche quello è un mezzo per stare insieme. C'era il gruppo Juventus, a dominare. Certo, ma più della militanza in bianconero faceva blocco chi era già stato con Bearzot nel '78 in Argentina. Scirea, Zoff, Rossi, Cabrini, Causio, io... Quell'esperienza ci aveva come vacci¬ nati, legati. Ma aveva qualcuno più vicino, più amico? Con Gentile, Scirea e Zoff parlavo anche di cose private, di piccoli o grandi segreti. Gentile il più amico, se così si può dire. E' quello che sento di più anche adesso, ogni settimana. La voglia di vincere quanto vi ha legati? E' stata la chiave, eravamo tutti uguali. Compresi quelli che sapevano di non giocare. Ci conoscevamo a fondo, sapevamo come caricarci. Nessuno ha consolato Cabrini dopo il rigore sbagliato contro i tedeschi. Andare a dargli una pacca sulla spalla sarebbe stato un gesto plateale, banale, stupido. Però sapevamo tutti che dentro stava soffrendo molto. Ha passato almeno cinque minuti tragici, lo leggevamo sul suo volto. Gli siamo stati vicini nel gioco, offrendogli subito più palloni da toccare, da lavorare. Gli abbiamo fatto sentire così che non era successo nulla, che non gli si rimproverava niente. E siamo andati avanti, per vincere. Cosa le è rimasto, dentro, di quel Mondiale tormentato, cominciato male fra critiche anche feroci e finito in modo trionfale nella magia di Madrid? La convinzione che eravamo nel giusto, che la vita di gruppo e l'amicizia sono le chiavi dello sport e della vita. Il calcio è un gioco troppo bello per chi sta in campo, forse la gente questo non lo capisce. E' un argomento che nessuno tocca. Del calciatore si raccontano i guadagni, i trasferimenti, i divorzi quando accadono, le nuove compagne, le notti di baldoria ormai sempre più rare. Noi soffriamo, fatichiamo ma soprattutto ci divertiamo sul campo. Già, non ci avevo ancora pensato. Quel l'urlo era anche questo. E' sicu ro che ci si diverte di più vincendo. Questo nessuno può ne garlo. Bruno Perucca TARDELLI quell'urlo di Madrid non è ancora finito Esattamente dieci anni fa tutta l'Italia era in delirio per il trionfo degli azzurri nel Mundial di Spagna TARDELLI quell'urlo di Madrid non è ancora finito ABRESCIA Bologna vado, eccome. Non posso mancare al revival di Italia-Germania anche se ho le gambe a pezzi. Dolori alla destra, male alla sinistra. Mi davano per morto già dieci anni fa, quando ho dato una mano a vincere in Spagna...». Marco Tardelli è restato nel calcio, con addosso l'etichetta di campione del mondo, la fama di calciatore di temperamento, cuore e cervello. Tutto coagulato in un carattere che spesso ha fatto tremare gli interlocutori, allenatori compresi, i quali alla fine gli perdonavano tutto. Troppo importante Marco in campo, troppo utili la sua carica agonistica e il suo furore. Per il mondo, non solo del pallone, Tardelli è l'atleta che la notte di domenica 11 luglio 1982, al 69' della finale mondiale fra Italia e Germania, chiudeva virtualmente la partita segnando il gol del 2 a 0 (assist di Scirea, stop di destro e botta secca di sinistro) per iniziare la più lunga corsa esultante, per lanciare il più lungo grido di vittoria nella storia dello sport. Cinquanta metri, dalle soglie dell'area avversaria quasi a quella azzurra, per finire nel mucchio dei compagni. Un film che è stato ripetuto mille volte, usato per spiegare cos'è il raptus calcistico, contrabbandato da molti spezzoni pubblicitari. Sono passati dieci anni, e quell'urlo di Tardelli mette ancora i brividi e fa tremare di emozione. Per i tedeschi è ancora un incubo. E' stato un momento di gioia per la vittoria, di disperazione e di rabbia verso i tanti che non credevano più in me - dice -, una liberazione. Cerco di spiegare e di spiegarmi, ma neppure il tempo passato da quella notte mi aiuta a capire. Ho fatto i conti, erano quasi le ventuno e trenta. La data e l'ora mi restano dentro, come quelle di quando sono nato. C'era tutto in quella corsa e in quell'urlo. Un vulcano di cose positive e negative. Venivo da un campionato sofferto per guai fisici, avevo sentito attorno diffidenza e sospetti. "Tardelli non ce la fa più, perché Bearzot non lo lascia a casa?". Poi gli insulti alla squadra durante il Mondiale, il nostro silenzio stampa, il nostro raccoglierci sempre di più. Credo di aver avuto bisogno di quello sfogo. No, non so cosa ho gridato durante quella corsa. Lo giuro. Mi sono rivisto tante volte. L'unica cosa certa è che non mi sono mai vergognato di quello sfogo. Anzi. E semmai mi dispiace soltanto di aver tolto tanto spazio, con quella corsa diventata emblematica, a compagni che meritavano di essere loro, da Zoff a Gentile a Scirea, i protagonisti del trionfo del Bernabeu. Dieci anni passati senza cambiare nulla di Marco Tardelli. Forse mi sono addolcito un poco, lavorare per i giovani è bello. Mi piace quando ne incontro uno che ha un carattere come il mio, che non fa troppi calcoli. Lei non ne ha mai fatti, neppure in quella avventura mondiale. Ricordiamo una sua reazione verbale dura, persino violenta, nel bar del ritiro azzurro di Pontevedra. E' stato il mio primo sfogo, magari l'inizio dell'urlo di Madrid. Gianni Brera nelle sue pagelle di preparazione al campionato del mondo aveva scritto più o meno "Tardelli è finito". Un giornalista che conta, un giudi- zio che mi feriva. Ho reagito scioccamente, con una battuta pesante, quando l'ho visto entrare in quella saletta del nostro albergo-castello. Adesso non rinuncerei a dirgli ciò che penso ma sarei molto più sereno. E anche più duro. Non mi sento cambiato, ma maturato sì. Ho quasi 37 anni. Avete trascorso un mese insieme, voi ventidue scelti da Enzo Bearzot, e dal 25 giugno all' 11 luglio vi siete chiusi, protetti dal silenzio stampa. Veniva solamente Dino Zoff a parlare con i giornalisti. Che cosa vi dicevate, che cosa volevate dirci negandovi, che cosa pensavate? Che c'era solo un modo, quello, di essere noi. Le vigilie erano tormenti, le notti mie da calciatore sono sempre state tormentate. Ero in camera da solo, nessuno mi voleva al suo fianco. Dormivo poco, mi agitavo, accendevo e spegnevo la luce, mi alzavo e passeggiavo per la stanza. Al Mondiale, prima di entrarvi, facevo tardi assieme agli altri della Juventus, ma gli ultimi a cedere erano Oriali, Bruno Conti e Selvaggi. Nel gruppo non si guardavano le maglie sociali. Parlavamo di gioco, di tattica. Mi ricordo che aspettando la finale era proprio Selvaggi, che non ha mai giocato, a darmi coraggio. "Tranquillo, i tedeschi vengono sotto e li infilate in contropiede". E' andata proprio così. Un mese di clausura, per vincere un Mondiale. Le famiglie lontane, le donne pure. Le donne, ecco. E' stato un dramma? Si fanno romanzi attorno a questo problema, ma drammi non ne esistono sul piano sessuale. Manca di più la famiglia, per chi ce l'ha. Durante la stagione un calciatore non ha ostacoli, se non il proprio buon senso, nel fare all'amore. La vita del giocatore è bella, pensate ai mille problemi anche di natura spicciola per chi lavora in fabbrica... No, non ho patito certe limitazioni. E poi le giornate del calciatore passano in fretta in un campionato del mondo. Gli intervalli fra le partite sono pieni. Ti alleni, ti curano perché qualche bubù l'hai sempre, non hai finito di ripassare la gara appena passata che già pensi a quella che arriva, discuti con i compagni e con il tecnico. Le nostre giornate saranno sembrate lunghe e vuote a voi, da fuori, ma vi sbagliavate. Ha scordato il tempo che passate al telefono. I calciatori sono i più grandi clienti delle compagnie telefoniche. E' verissimo. Le linee bollivano. Io sono un vip a livello di utenza. Credo che in Spagna mi abbia battuto, nella durata delle comunicazioni via filo, solo Daniele Massaro. Lo capivo. Era più giovane, non giocava, forse lui sentiva delle nostalgie particolari. Ma i libri, i giornali, non aiutano a riempire le ore? Si, c'è spazio per la lettura. Ma dei quotidiani c'è una ressegna stampa, soprattutto quel tamtam che ti avverte subito delle critiche, delle cose cattive. Leggere, però, è un modo di isolarti con te stesso. Sembrerà strano, ma in quei giorni sentivamo bisogno della vita di gruppo, di stare uniti, di parlare. Ecco, magari pensate che giocare a carte sia una semplice distrazione. Invece anche quello è un mezzo per stare insieme. C'era il gruppo Juventus, a dominare. Certo, ma più della militanza in bianconero faceva blocco chi era già stato con Bearzot nel '78 in Argentina. Scirea, Zoff, Rossi, Cabrini, Causio, io... Quell'esperienza ci aveva come vacci¬ nati, legati. Ma aveva qualcuno più vicino, più amico? Con Gentile, Scirea e Zoff parlavo anche di cose private, di piccoli o grandi segreti. Gentile il più amico, se così si può dire. E' quello che sento di più anche adesso, ogni settimana. La voglia di vincere quanto vi ha legati? E' stata la chiave, eravamo tutti uguali. Compresi quelli che sapevano di non giocare. Ci conoscevamo a fondo, sapevamo come caricarci. Nessuno ha consolato Cabrini dopo il rigore sbagliato contro i tedeschi. Andare a dargli una pacca sulla spalla sarebbe stato un gesto plateale, banale, stupido. Però sapevamo tutti che dentro stava soffrendo molto. Ha passato almeno cinque minuti tragici, lo leggevamo sul suo volto. Gli siamo stati vicini nel gioco, offrendogli subito più palloni da toccare, da lavorare. Gli abbiamo fatto sentire così che non era successo nulla, che non gli si rimproverava niente. E siamo andati avanti, per vincere. Cosa le è rimasto, dentro, di quel Mondiale tormentato, cominciato male fra critiche anche feroci e finito in modo trionfale nella magia di Madrid? La convinzione che eravamo nel giusto, che la vita di gruppo e l'amicizia sono le chiavi dello sport e della vita. Il calcio è un gioco troppo bello per chi sta in campo, forse la gente questo non lo capisce. E' un argomento che nessuno tocca. Del calciatore si raccontano i guadagni, i trasferimenti, i divorzi quando accadono, le nuove compagne, le notti di baldoria ormai sempre più rare. Noi soffriamo, fatichiamo ma soprattutto ci divertiamo sul campo. Già, non ci avevo ancora pensato. Quel l'urlo era anche questo. E' sicu ro che ci si diverte di più vincendo. Questo nessuno può ne garlo. Bruno Perucca