Polonia, in libertà tutti contro tutti

Polonia, in libertà tutti contro tutti europa dell'est, la tentazione dell'oblio. A Varsavia omertà fra nomenklatura e nuovi politici Polonia, in libertà tutti contro tutti Scacco a Walesa, lotte di clan nell'ex «Solidarnosc» DVARSAVIA NA delle prime storie che ascolto a Varsavia è quella raccontata da Mariusz Szczigiel, nelle sue inchieste sulla provincia polacca pubblicate dalla rivista d'emigrazione Kultura. La storia narra di un paesetto sperduto, dove succedono - in piccolo - le stesse cose che tormentano Varsavia: la sfiducia della gente nelle istituzioni è la stessa, e simili sono le speranze così spesso frustrate di ricostruzione, e il senso che tutto sia cambiato perché tutto resti come prima. Anche qui c'è poi il vecchio comunista, che assolutamente non se ne vuole andare. E' il preside del liceo, tale Bogdan L., il cui passato è assai poco edificante e che ai tempi di Jaruzelski era chiamato «pidocchio» per le sue losche attività: per divertire i poliziotti antisommossa dello Zomo, il preside obbligava le studentesse a partecipare a equivoche serate di intrattenimento; e le puniva quando si rifiutavano. Già allora il comunismo non era altro che questo: un comportamento mafioso, che costruisce il proprio potere sulla paura che incute nella gente. Questo potere, e anche questa paura, non di rado esistono ancora nelle province delle ex Repubbliche popolari: solo si è fatto clandestino, meno visibile, e quasi sempre mascherato. Nonostante il riprovevole passato, il preside è restato al suo posto, e usando un trucco astuto è sfuggito alla piccola epurazione che il villaggio ha tentato inutilmente - un anno dopo l'ascesa al potere di Solidarnosc. Per imbonire il consiglio scolastico, Bogdan L. ha appeso alla porta della scuola una foto che 10 ritrae mentre riceve, nel suo ufficio, la prima comunione. La foto ha abolito tutte le sue colpe, 11 suo passato è divenuto con l'aiuto del parroco leggero come una piuma, insignificante. Forse non è neppure esistito, il passato comunista. Il signor Bogdan L. si è mascherato da cattolico ed è restato preside della scuola. Di casi simili ce ne sono tanti in Polonia, e non sono stupefacenti. Difficile creare dal nulla una nuova élite, dopo 40 anni e più di comunismo: anche dopo il fascismo c'erano presidi fascisti, anche dopo il nazismo c'erano funzionari che avevano servito il regime. «Ma almeno fascisti e nazisti si vergognavano - mi dicono a Varsavia -. Almeno ci sono stati i processi, le epurazioni e la rottura con il passato che sono state le Assemblee Costituenti. Qui da noi nulla di tutto questo, per ben tre anni assolutamente nulla tranne questo patto di non aggressione reciproca tra vecchia nomenklatura comunista e dirigenti dell'ex opposizione». Un patto stipulato per assicurare la pace civile, dicono i fautori dell'intesa: per non spezzare l'unità nazionale ed evitare che la gente, invece di rimboccarsi le maniche e ricostruire, si dilaniasse a vicenda. Un patto di oblio e di omertà, mi dice lo storico Jakub Karpinski, che «cancella nell'uomo quel che è dure¬ vole, cioè la storia che ha vissuto, e ripropone surrettiziamente l'idea del Mondo Nuovo, dell'uomo che è interamente confinato nell'istante, nel transitorio, e ogni giorno rinasce - come accade a tutti - ma senza ricordo del passato, né responsabilità per questo passato». Se non esiste più il passato comunista, non esiste più nulla, neppure la resistenza al comunismo. Non resta che il bagaglio di vizi accumulato sotto il regime, il «completo disfacimento morale» che per il presidente Havel caratterizza l'attuale fase di transizione, «lo scatenarsi dei peggiori istinti umani, non più contenuti, perché legalizzati, dall'ordine totalitario». In quest'atmosfera mette radici il neocomunista del Centro Europa, figura inedita perché non più burattino dell'Urss. L'abolizione del passato sporca non tanto lui quanto l'ex opposizione: tanto più impunemente il neocomunista può costruire un suo potere parallelo, di mafia, e fingendo di non avere responsabilità alcuna nelle difficoltà post-comuniste, farsi portavoce delle molte frustrazioni popolari - tribali o nazionaliste, rancorosamente aggrappate a inesistenti identità che in epoca di transizione si moltiplicano. A Praga, un giovane democristiano, Tomas Svoboda, mi fa notare che il patto d'oblio non ha funzionato in Germania o Italia, ma in Austria: «La pace civile austriaca ha finito col produrre mostri. E' perché c'è stata solo amnistia, e nessuna epurazione, che l'Austria ha avuto Waldheim come Presidente, 40 anni dopo il nazismo». Nella Polonia che ho visto in questi giorni non c'è peraltro traccia alcuna di pace, né di riconciliazione nazionale. C'è il contrario: una sorta di guerra civile per bande, ai vertici dello Stato, e una classe politica sprofondata in un pantano di calunnie, di odii, di sospetti, con un Paese che guarda da lontano le zuffe politiche e raramente si raccapezza. Logica vorrebbe infatti che lo scontro avvenisse fra nomenklatura e nuovi dirigenti: cioè fra i due firmatari del patto d'oblio. Invece lo scontro è tutto dentro il gruppo che a suo tempo si chiamava Solidarnosc, cioè Solidarietà: è guerra fra il presidente Walesa e gli uomini di 01szewski, l'ex primo ministro silurato in poche ore per aver voluto iniziare un'epurazione simile alla tedesca o cecoslovacca. E' guerra tra uomini di Olszewski e la sinistra storica di Solidarnosc, incarnata da Michnik o Kuron. E' guerra di tutti contro tutti, feroce, ma che per miracolo non arriva mai a lambire la nomenklatura comunista: la quale osserva con olimpica serenità questo grande agitarsi terreno, e nei numerosi giornali che tuttora possiede trova il modo di descriverlo con penne acuminate, efficaci, pronte a ridicolizzare i nuovi dirigenti della Polonia, a farli apparire ancora più inesperti, politicamente, di quanto non lo siano già. Una trappola in cui questi ultimi cascano con faci¬ lità: «I comunisti non sono mai stati insultati come Walesa insulta oggi Olszewski, o il ministro degli Interni Macierewicz che ha tentato l'epurazione continua Jakub Karpinski -. Non sono mai stati definiti "grandi destabilizzatori, al servizio di potenze straniere"». Oggi i comunisti dell'Est agiscono attraverso nuovi canali, economici soprattutto. Con i mezzi finanziari che non hanno dovuto restituire sfruttano le difficoltà del periodo di transizione e arricchiscono il proprio clan. I posti-chiave dell'economia sono nelle loro mani, le dire- zioni delle principali banche, il commercio d'armi soprattutto, e le grandi industrie nazionali, che hanno riacquistato a prezzi stracciati dopo aver fissato loro stessi i prezzi di vendita. Sono presenti nei dicasteri-chiave della Difesa, degli Interni - salvo l'intervallo del governo Olszewski - e hanno un numero impressionante di giornali. Resta il mistero Walesa, che s'era battuto per la «decomunistizzazione» durante la campagna presidenziale, e aveva tanto criticato l'ex premier Mazowie¬ cki, quando questi aveva promesso di cancellare il passato, con «un gre *so tratto di penna». Oggi Walesa è ostile all'epurazione, e non solo perché il suo nome è apparso nella Usta dei sospetti, ma perché l'epurazione minaccia l'originario patto con i comunisti, che anche lui non si sente più di rompere. Me lo conferma senza troppe cerimonie - il suo consigliere giuridico, il ministro avvocato Lech Falandysz: «Quel che gli epuratori e le destre non vogliono capire è che il comunismo non è stato vinto. Non c'è stata né guerra, né rivoluzione, in nessun Paese dell'Est. Il comunismo non è stato abbattuto, ma ha rinunciato volontariamente al potere politico, negoziando il proprio ritiro nelle tavole rotonde dell'89. Le destre son convinte d'aver vinto il comunismo e di poterlo adesso punire. Ma sbagliano di grosso: la giustizia rivoluzionaria non ha senso visto che non c'è stata rivoluzione». Ma Walesa non era per l'epurazione? «Certo che lo era, e lo è ancora. Ma è convmto che la decomunistizzazione sia un processo lento, e complesso. Lo ripeto: se il comunismo fosse stato vinto con la forza, la questione del regolamento dei conti col passato sarebbe relativamente semplice. Ma se hai negoziato un accordo, e se in più hai lasciato passare tre anni, non puoi d'un tratto far giustizia, e colpire i resistenti che hanno avuto contatti con la polizia politica». Ma la gente chiede giustizia, la nomenklatura che si arricchisce senza servire il Paese è esecrata da molti. «Capisco le insofferenze, soprattutto delle vittime. Ma anche qui occorre esser chiari: neppure il capitalismo è stato introdotto a seguito di una rivoluzione. E' stato introdotto a seguito di un'intesa con i comunisti, e come agire in queste condizioni? Neppure Olszewski poteva farcela: contro la vera nomenklatura, i suoi giustizieri non possono nulla. Possono prendere i piccoli pesci, ma i veri colpevoli - Jaruzelski, l'ex ministro degli Interni Kiszcziak, l'ex premier Rakowski - continuano a vivere assai bene nella loro impunità». Possibile che occorra obbedire ancor oggi al generale Kiszcziak, al suo «pacta sunt servanda»? «Possibile, certo: non c'era altro modo che questo, per sbarazzarsi dei comunisti». C'era anche il modo tedesco di epurazione, o quello cecoslovacco di Havel, che voleva evitare la caccia alle streghe e però ha dato intera fiducia all'epuratore severo che è stato il ministro degli Interni Rumi. «Bel risultato hanno avuto, in Cecoslovacchia e Germania Est! La Cecoslovacchia si sta disintegrando, le destre sono oggi vincenti in Boemia e son pronte a esser divorate dalla Germania, che trasformerà la Boemia in un Land tedesco. E la Germania oggi è una colonia e nient'altro, della Repubblica Federale. E poi non ha senso paragonare la Polonia alla Cecoslovacchia, o alla Germania Est. Qui il comunismo non ha messo radici profonde. Qui la nazione ha resistito sempre, e la Chiesa non è mai stata piegata». Il che è come dire: il comunismo non è esistito, e nella misura in cui è esistito non ha fatto quel gran male che ha fatto altrove. Ha preservato almeno la Polonia dall'espansione tedesca, che resta la minaccia di sempre. E indirettamente la preserva ancora, manovrando una classe politica in larga parte corrotta e screditando i liberal-democratici che d'un tratto tornano a esser chiamati, spregiativamente, «forze di destra». Per questo poco si muove, in Polonia. Per questo «pacta sunt servanda»: ai comunisti il potere economico, all'ex opposizione il potere politico, «il patto non si rompe». Per questo i soldati dell'ex Urss non se ne sono andati, come se ne sono dovuti andare dalla Cecoslovacchia e dall'Ungheria. Perché restino in Polonia nessuno lo sa, vista la confusione che regna a Mosca, a Kiev, a Kaliriingrad. Ma il solo fatto che restino vuol dire che Varsavia, per il momento, non è ancora interamente passata a Occidente. Barbara Spinelli / vecchi dirigenti conservano il potere economico i soldati dell'ex Urss non hanno lasciato il Paese le . Sopra, operai di una fabbrica vicino a Varsavia. A destra, due giovani nella capitale polacca. A sinistra Ledi Walesa, e sotto l'ex premier Mazowiecki: aveva promesso di cancellare il passato A fianco, l'ex presidente polacco Jaruzelski. A sinistra, il presidente cecoslovacco Vaclav Havel: ha dato il via all'epurazione Polonia, in libertà tutti contro tutti europa dell'est, la tentazione dell'oblio. A Varsavia omertà fra nomenklatura e nuovi politici Polonia, in libertà tutti contro tutti Scacco a Walesa, lotte di clan nell'ex «Solidarnosc» DVARSAVIA NA delle prime storie che ascolto a Varsavia è quella raccontata da Mariusz Szczigiel, nelle sue inchieste sulla provincia polacca pubblicate dalla rivista d'emigrazione Kultura. La storia narra di un paesetto sperduto, dove succedono - in piccolo - le stesse cose che tormentano Varsavia: la sfiducia della gente nelle istituzioni è la stessa, e simili sono le speranze così spesso frustrate di ricostruzione, e il senso che tutto sia cambiato perché tutto resti come prima. Anche qui c'è poi il vecchio comunista, che assolutamente non se ne vuole andare. E' il preside del liceo, tale Bogdan L., il cui passato è assai poco edificante e che ai tempi di Jaruzelski era chiamato «pidocchio» per le sue losche attività: per divertire i poliziotti antisommossa dello Zomo, il preside obbligava le studentesse a partecipare a equivoche serate di intrattenimento; e le puniva quando si rifiutavano. Già allora il comunismo non era altro che questo: un comportamento mafioso, che costruisce il proprio potere sulla paura che incute nella gente. Questo potere, e anche questa paura, non di rado esistono ancora nelle province delle ex Repubbliche popolari: solo si è fatto clandestino, meno visibile, e quasi sempre mascherato. Nonostante il riprovevole passato, il preside è restato al suo posto, e usando un trucco astuto è sfuggito alla piccola epurazione che il villaggio ha tentato inutilmente - un anno dopo l'ascesa al potere di Solidarnosc. Per imbonire il consiglio scolastico, Bogdan L. ha appeso alla porta della scuola una foto che 10 ritrae mentre riceve, nel suo ufficio, la prima comunione. La foto ha abolito tutte le sue colpe, 11 suo passato è divenuto con l'aiuto del parroco leggero come una piuma, insignificante. Forse non è neppure esistito, il passato comunista. Il signor Bogdan L. si è mascherato da cattolico ed è restato preside della scuola. Di casi simili ce ne sono tanti in Polonia, e non sono stupefacenti. Difficile creare dal nulla una nuova élite, dopo 40 anni e più di comunismo: anche dopo il fascismo c'erano presidi fascisti, anche dopo il nazismo c'erano funzionari che avevano servito il regime. «Ma almeno fascisti e nazisti si vergognavano - mi dicono a Varsavia -. Almeno ci sono stati i processi, le epurazioni e la rottura con il passato che sono state le Assemblee Costituenti. Qui da noi nulla di tutto questo, per ben tre anni assolutamente nulla tranne questo patto di non aggressione reciproca tra vecchia nomenklatura comunista e dirigenti dell'ex opposizione». Un patto stipulato per assicurare la pace civile, dicono i fautori dell'intesa: per non spezzare l'unità nazionale ed evitare che la gente, invece di rimboccarsi le maniche e ricostruire, si dilaniasse a vicenda. Un patto di oblio e di omertà, mi dice lo storico Jakub Karpinski, che «cancella nell'uomo quel che è dure¬ vole, cioè la storia che ha vissuto, e ripropone surrettiziamente l'idea del Mondo Nuovo, dell'uomo che è interamente confinato nell'istante, nel transitorio, e ogni giorno rinasce - come accade a tutti - ma senza ricordo del passato, né responsabilità per questo passato». Se non esiste più il passato comunista, non esiste più nulla, neppure la resistenza al comunismo. Non resta che il bagaglio di vizi accumulato sotto il regime, il «completo disfacimento morale» che per il presidente Havel caratterizza l'attuale fase di transizione, «lo scatenarsi dei peggiori istinti umani, non più contenuti, perché legalizzati, dall'ordine totalitario». In quest'atmosfera mette radici il neocomunista del Centro Europa, figura inedita perché non più burattino dell'Urss. L'abolizione del passato sporca non tanto lui quanto l'ex opposizione: tanto più impunemente il neocomunista può costruire un suo potere parallelo, di mafia, e fingendo di non avere responsabilità alcuna nelle difficoltà post-comuniste, farsi portavoce delle molte frustrazioni popolari - tribali o nazionaliste, rancorosamente aggrappate a inesistenti identità che in epoca di transizione si moltiplicano. A Praga, un giovane democristiano, Tomas Svoboda, mi fa notare che il patto d'oblio non ha funzionato in Germania o Italia, ma in Austria: «La pace civile austriaca ha finito col produrre mostri. E' perché c'è stata solo amnistia, e nessuna epurazione, che l'Austria ha avuto Waldheim come Presidente, 40 anni dopo il nazismo». Nella Polonia che ho visto in questi giorni non c'è peraltro traccia alcuna di pace, né di riconciliazione nazionale. C'è il contrario: una sorta di guerra civile per bande, ai vertici dello Stato, e una classe politica sprofondata in un pantano di calunnie, di odii, di sospetti, con un Paese che guarda da lontano le zuffe politiche e raramente si raccapezza. Logica vorrebbe infatti che lo scontro avvenisse fra nomenklatura e nuovi dirigenti: cioè fra i due firmatari del patto d'oblio. Invece lo scontro è tutto dentro il gruppo che a suo tempo si chiamava Solidarnosc, cioè Solidarietà: è guerra fra il presidente Walesa e gli uomini di 01szewski, l'ex primo ministro silurato in poche ore per aver voluto iniziare un'epurazione simile alla tedesca o cecoslovacca. E' guerra tra uomini di Olszewski e la sinistra storica di Solidarnosc, incarnata da Michnik o Kuron. E' guerra di tutti contro tutti, feroce, ma che per miracolo non arriva mai a lambire la nomenklatura comunista: la quale osserva con olimpica serenità questo grande agitarsi terreno, e nei numerosi giornali che tuttora possiede trova il modo di descriverlo con penne acuminate, efficaci, pronte a ridicolizzare i nuovi dirigenti della Polonia, a farli apparire ancora più inesperti, politicamente, di quanto non lo siano già. Una trappola in cui questi ultimi cascano con faci¬ lità: «I comunisti non sono mai stati insultati come Walesa insulta oggi Olszewski, o il ministro degli Interni Macierewicz che ha tentato l'epurazione continua Jakub Karpinski -. Non sono mai stati definiti "grandi destabilizzatori, al servizio di potenze straniere"». Oggi i comunisti dell'Est agiscono attraverso nuovi canali, economici soprattutto. Con i mezzi finanziari che non hanno dovuto restituire sfruttano le difficoltà del periodo di transizione e arricchiscono il proprio clan. I posti-chiave dell'economia sono nelle loro mani, le dire- zioni delle principali banche, il commercio d'armi soprattutto, e le grandi industrie nazionali, che hanno riacquistato a prezzi stracciati dopo aver fissato loro stessi i prezzi di vendita. Sono presenti nei dicasteri-chiave della Difesa, degli Interni - salvo l'intervallo del governo Olszewski - e hanno un numero impressionante di giornali. Resta il mistero Walesa, che s'era battuto per la «decomunistizzazione» durante la campagna presidenziale, e aveva tanto criticato l'ex premier Mazowie¬ cki, quando questi aveva promesso di cancellare il passato, con «un gre *so tratto di penna». Oggi Walesa è ostile all'epurazione, e non solo perché il suo nome è apparso nella Usta dei sospetti, ma perché l'epurazione minaccia l'originario patto con i comunisti, che anche lui non si sente più di rompere. Me lo conferma senza troppe cerimonie - il suo consigliere giuridico, il ministro avvocato Lech Falandysz: «Quel che gli epuratori e le destre non vogliono capire è che il comunismo non è stato vinto. Non c'è stata né guerra, né rivoluzione, in nessun Paese dell'Est. Il comunismo non è stato abbattuto, ma ha rinunciato volontariamente al potere politico, negoziando il proprio ritiro nelle tavole rotonde dell'89. Le destre son convinte d'aver vinto il comunismo e di poterlo adesso punire. Ma sbagliano di grosso: la giustizia rivoluzionaria non ha senso visto che non c'è stata rivoluzione». Ma Walesa non era per l'epurazione? «Certo che lo era, e lo è ancora. Ma è convmto che la decomunistizzazione sia un processo lento, e complesso. Lo ripeto: se il comunismo fosse stato vinto con la forza, la questione del regolamento dei conti col passato sarebbe relativamente semplice. Ma se hai negoziato un accordo, e se in più hai lasciato passare tre anni, non puoi d'un tratto far giustizia, e colpire i resistenti che hanno avuto contatti con la polizia politica». Ma la gente chiede giustizia, la nomenklatura che si arricchisce senza servire il Paese è esecrata da molti. «Capisco le insofferenze, soprattutto delle vittime. Ma anche qui occorre esser chiari: neppure il capitalismo è stato introdotto a seguito di una rivoluzione. E' stato introdotto a seguito di un'intesa con i comunisti, e come agire in queste condizioni? Neppure Olszewski poteva farcela: contro la vera nomenklatura, i suoi giustizieri non possono nulla. Possono prendere i piccoli pesci, ma i veri colpevoli - Jaruzelski, l'ex ministro degli Interni Kiszcziak, l'ex premier Rakowski - continuano a vivere assai bene nella loro impunità». Possibile che occorra obbedire ancor oggi al generale Kiszcziak, al suo «pacta sunt servanda»? «Possibile, certo: non c'era altro modo che questo, per sbarazzarsi dei comunisti». C'era anche il modo tedesco di epurazione, o quello cecoslovacco di Havel, che voleva evitare la caccia alle streghe e però ha dato intera fiducia all'epuratore severo che è stato il ministro degli Interni Rumi. «Bel risultato hanno avuto, in Cecoslovacchia e Germania Est! La Cecoslovacchia si sta disintegrando, le destre sono oggi vincenti in Boemia e son pronte a esser divorate dalla Germania, che trasformerà la Boemia in un Land tedesco. E la Germania oggi è una colonia e nient'altro, della Repubblica Federale. E poi non ha senso paragonare la Polonia alla Cecoslovacchia, o alla Germania Est. Qui il comunismo non ha messo radici profonde. Qui la nazione ha resistito sempre, e la Chiesa non è mai stata piegata». Il che è come dire: il comunismo non è esistito, e nella misura in cui è esistito non ha fatto quel gran male che ha fatto altrove. Ha preservato almeno la Polonia dall'espansione tedesca, che resta la minaccia di sempre. E indirettamente la preserva ancora, manovrando una classe politica in larga parte corrotta e screditando i liberal-democratici che d'un tratto tornano a esser chiamati, spregiativamente, «forze di destra». Per questo poco si muove, in Polonia. Per questo «pacta sunt servanda»: ai comunisti il potere economico, all'ex opposizione il potere politico, «il patto non si rompe». Per questo i soldati dell'ex Urss non se ne sono andati, come se ne sono dovuti andare dalla Cecoslovacchia e dall'Ungheria. Perché restino in Polonia nessuno lo sa, vista la confusione che regna a Mosca, a Kiev, a Kaliriingrad. Ma il solo fatto che restino vuol dire che Varsavia, per il momento, non è ancora interamente passata a Occidente. Barbara Spinelli / vecchi dirigenti conservano il potere economico i soldati dell'ex Urss non hanno lasciato il Paese le . Sopra, operai di una fabbrica vicino a Varsavia. A destra, due giovani nella capitale polacca. A sinistra Ledi Walesa, e sotto l'ex premier Mazowiecki: aveva promesso di cancellare il passato A fianco, l'ex presidente polacco Jaruzelski. A sinistra, il presidente cecoslovacco Vaclav Havel: ha dato il via all'epurazione