ROSSELLINI, ULTIMO CIAK

ROSSELLINI, ULTIMO CIAK ROSSELLINI, ULTIMO CIAK Quindici anni fa l'improvviso addio del regista Da «Roma città aperta» al «Messia», una lunga leggenda UELLA domenica A Hft mattina di giugno ffl Si 1977, prima delle ; H| dieci, nello stanzone ; I pavimentato di marra mette e liberato da H ! Si quasi tutte le sedie B§ fB conferenziere della ww Casa della Cultura di ^JEjRoma, ci ritrovava^wmo in quattro. Tre donne e un uomo. Le donne non erano giovani, erano grasse e commosse: dietro gli occhiali neri da sole una piangeva senza ritegno. L'uomo ero io e neppure io ero giovane, quanto alla grassezza era meglio lasciar perdere. Dalla stanza accanto arrivavano voci (un dibattito?) di casigliani della cultura, dalla strada saliva il rombo ansimante degli autobus, dai drappi rossi mascheranti pareti e finestre filtrava una riga di sole. In quattro, in silenzio, senza i conforti della religione, guardavamo il lustro legno di noce che racchiudeva il corpo di Roberto Rossellini (Roma, 19061977) morto d'infarto al tocco di venerdì. Non c'era altro da fare: come un anno e mezzo prima, di novembre, quando allo stesso posto stava la bara di Pier Paolo Pasolini, in quello stanzone eletto cattedrale del lutto culturale di sinistra, la severità dei funerali laici consumava riti sconsolati. I libri delle firme erano aperti all'ingresso, con le biro a disposizione. Su corone, cuscini, trionfi di fiori già appassiti s'intrecciavano nastri vivi e brillanti. La corona più grande (nastro rosso-oro, garofani bianchi, garofani rossi) era del comitato centrale del pei. La più piccola (nastro nero, margherite) era dei figli diretti o indiretti di Roberto Rossellini: Robin, Renzo, Chantal, Gii, Raffaella, Ingrid. La più triste (nastro viola-oro, gladioli) era dell'Associazione nazionale autori cinematografici. La più toccante (margherite) recava scritto sul nastro nero: Marcellina, diminutivo coniugale mai dismesso, conservato insieme con la coniugale solidarietà, dalla prima moglie Marcella de Marchis. E c'erano anche fiori fittizi, tinti di colori innaturali: gladioli viola, garofani azzurri. Non c'era altro da fare né da dire: uno scatolone lustro di noce lo puoi fissare per l'eternità e sempre e solo una bara resta. Le tre donne avevano recuperato tre sedie conferenziere per un prolungarsi della veglia. Io ero dominato da un senso di stupore profondo. Ero molto rattristato, provavo un autentico dolore, ma come per la scomparsa di un parente, non di un personaggio famoso, Di solito la scomparsa di un personaggio famoso che si conosce per lavoro in comune o stagionata amicizia, provoca, ed è inevitabile che provochi, l'inverecondo esibizionismo del ricordo personale. L'ultima volta che l'ho visto mi ha detto... Si capiva benissimo quel che intendeva dire, e allora io gli ho detto... Io gli ho detto e lui mi ha detto che... Dovevamo vederci tra una settimana, tra un giorno, tra un'ora, discutevamo sempre, ma sapevo che, in fondo, lui mi dava ragione anche quando pareva darmi torto... Mi pento di non avere avuto il tempo di andare all'appuntamento che lui m'aveva chiesto l'altro giorno, l'altra settimana, l'altro anno: insomma, è un rimorso che mi porterò dietro per sempre, eccetera, eccetera, eccetera. Inverecondo esibizionismo inevitabile, ho detto e confermo. Inevitabile. Tranne in un caso. Il caso in cui non si conosca il personaggio famoso in questione. Ovvero il caso mio, non l'avevo mai conosciuto, incontrato, Roberto Rossellini. Eppure il mio dolore era addirittura viscerale. Quasi mi sentivo più orfano di quando era morto mio padre. Era questo, appunto, a provocare il mio stupore lì, in quello stanzone. Dopotutto, ero a Roma per lavorare, non per partecipare a funerali. Venerdì pomeriggio, e lui era appena morto, mi trovavo a casa di Cesare Zavattini con Mino Argentieri per questioni di lavoro (la cura dei saggi sul neorealismo che il soggettista principe del cinema italiano s'era deciso a pubblicare con L'elog«Unndegnè stat Bompiani). Zavattini era al telefono, infervorato e accorato. «No, non me la sento di venirne a parlare in televisione», diceva. «Lo ripeto, sono costernato. L'Italia perde il suo genio del cinema, una perdita enorme...». L'interlocutore di Zavattini, evidentemente, insisteva con quella tenacia, quella molestia, quella indignazione che animano infimi funzionari e alti burocrati della televisione, quando qualcuno si rifiuta alla passerella del piccolo schermo. «No, no, lo ripeto. In questo momento non me la sento...», continuava a dire Zavattini, la voce gonfia di raffreddore del fieno. Aveva dovuto continuare a ripeterlo a lungo prima di poter riattaccare la cornetta. Alla fine ci era riuscito, ma almeno un poco si era dovuto sfogare. «Non si preoccupava della provenienza del denaro più di quanto se ne preoccupasse Cristoforo Colombo». «Come uomo, non voglio giudicarlo, eravamo diversi», aveva detto, «ma come regista è stato il più grande. Forse di più persino di Vittorio De Sica. Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, un modo nuovo di fare il cinema. Una volta avremmo dovuto lavorare insieme. E' stato quando Vittorio è andato a Hollywood e a me come comunista hanno negato il visto per gli Stati Uniti. Rossellini è venuto da me e mi ha proposto di fare una cosa insieme. Un film sull'Italia, una gioia straordinaria. Straordinario sarebbe stato Italia mia, Rossellini e Zavattini insieme, una coppia insolita. Mi ha accompagnato al mio paese, a Luzzara, ero felice. Poi, però, non se n'è fatto nulla...». L'umiltà non è mai stata un difetto di Zavattini, il tributo di ammirazione per Roberto Rossellini era sincero. Ammirazione e rimpianto. La stessa sincerità che avevo avvertito più tardi nella voce di Federico Fellini incontrato per caso quello stesso pomeriggio di venerdì, verso sera, nello studio dell'avvocatessa Giovanna Cau (ancora questioni di lavoro, un contratto da concludere per un libro di Ugo Pirro da pubblicare presso Bompiani). Fellini aveva appena avuto la notizia con qualche ritardo, non aveva avuto il tempo di preparare un omaggio ufficiale, e dava l'impressione di non controllare parole e sentimenti. Ammirazione e rimpianto. Rimpianto che raddoppiava l'ammirazione. Ammirazione che acuiva il rimpianto. «Se n'è andato con leggerezza», aveva detto Fellini, «la sua eterna leggerezza. Io l'ho sempre ammirato tanto. E non solo per la sua opera. Anche per la sua vita. Soprattutto per la sua vita. Quelli che l'hanno criticato come uomo non l'hanno capito. Cerca di non fraintendermi, mi hai sentito parlare troppe volte male del personaggio di Casanova. Ma ti dico una cosa: se avessi avuto Roberto come interprete, allora il mio Casanova sarebbe stato tutto diverso. L'unico, vero Giacomo Casanova degno della leggenda è stato lui...». La sincerità, la possibilità di abbandonarsi al riconoscimento delle doti di qualcuno, la dolcezza di non provare antagonismo né invidia né gelosia né rancore rendevano Fellini addirittura euforico. «Un autentico italiano. L'italiano. L'italiano capace di vivere, di superare ogni prova, di arrangiarsi per arrivare a godere con golosità, a esprimersi...». Una sincerità contagiosa. Ci pensavo quella mattina di giugno 1977 nello stanzone della Casa della Cultura di Roma, mentre quelle tre donne si erano sedute più comode e se ne stavano zitte, come comprese dell'irreparabilità della perdita o sopraffatte dall'avvento di una stanchezza irresistibile, dal peso dello stesso vuoto che s'era aperto nella loro vita. Improvvisamente, una di loro attaccò a russare. Le altre due mi guardarono con delle smorfie, degli inarcamenti di sopracciglia, degli scotimenti di testa, per indurmi a non scandalizzarmi, a perdonare, insomma per ricordarmi che la debolezza è cosa umana. E poi mi fecero cenno di cercarmi una sedia, di mettermi a sedere anch'io. Da venerdì pomeriggio ne avevo sentiti tanti, di pareri su Roberto Rossellini, ma quello di Zavattini e quello di Fellini restavano essenziali. Chi aveva ragione? Era una competizione impari. Dicendo che non voleva giudicarlo come uomo, Zavattini aveva, in pratica, confessato la sua avversione per il disordine che intravedeva nella vita di Roberto Rossellini, non solo nella vita amorosa, ma anche in quella economica. Quella sua fatica nel mettere insieme di volta in volta il denaro necessario per le sue imprese cinematografiche e contemporaneamente quel suo non farsi un problema della provenienza di quel denaro indispensabile, quel non badare al padrone da cui l'otteneva. Nessun padrone, infatti, come nessuna donna poteva vincolare Roberto Rossellini. Quell'Italia mia che avrebbe potuto costituire l'eccezionale collaborazione, tra il regista e lo sceneggiatore principe, avrebbe dovuto cominciare, dato che Roberto Rossellini aveva trovato una sovvenzione di una decina di milioni, con una visione di cosiddette case Fanfani (chi tra i miei coetanei ricorda quella garrula e implacabile trattenuta rituale sullo stipendio per delle abitazioni chimera?) da magari dimenticare nel prosieguo del a> film. A Roberto Rossellini interessava il prosieguo, durante la navigazione del prosieguo, avrebbe sempre potuto scoprire un'altra America come già l'aveva scoperta in Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero. Fellini, invece, che aveva lavorato con Roberto Rossellini, che gli era stato accanto come sceneggiatore in Roma città aperta e poi non solo come sceneggiatore, ma anche come aiuto regista in Paisà (l'opera più alta e invincibile del cinema italiano che neppure il piccolo schermo della televisione riesce a tarpare), non si lasciava fuorviare da pregiudizi moralistici, conosceva davvero il segreto della magìa rosselliniana: «Io me lo ricordo come vita, non come cinema il periodo di Paisà. Venivo dalla sceneggiatura di film comici, ero un giovanotto disinvolto e svagato. Si parlava, Roberto e io, non parevano rapporti di lavoro. Ma al suo fianco capivo come fare cinema potesse essere una cosa assolutamente naturale. Lui non perdeva tempo dietro la macchina da presa a studiare inquadrature ardite, guardava, viveva un paesaggio, e io, poi, 10 rincontravo nella pellicola, ne riassaporavo pure i particolari dimenticati o, addirittura, scoprivo quelli non visti prima, le ombre, le luci, le sfumature, i miraggi. L'ultimo episodio di Paisà è il capolavoro della naturalezza. E anche nel Messia, tra tanto razionalizzare, ci sono momenti splendidi. Un brulicare di gente come formiche in uno spazio enorme, a esempio, un movimento come un vento. Effetti non razionalizzabili, non progettabili a tavolino, ma esclusivamente vivibili...». Non c'era competizione. Mi parve che un'altra delle donne avesse preso a russare. Forse aveva preso a russare anche la terza. Mi allontanai in punta di piedi per non turbare la loro veglia al padre della Patria, Cristoforo Colombo e Giacomo Casanova. L'ininterrotto pellegrinaggio di popolo commosso di cui la televisione avrebbe parlato quella sera e i giornali la mattina dopo, sarebbe magari cominciato dopo 11 ritorno dalle gite al mare. Per le scale incontrai solo un mio simile, ansimante per l'inerpicata, saliva a prendere il mio posto. In strada c'era molto sole, insperato dopo le ultime piogge torrenziali e già rovente. Da certi manifesti per le Nozze di Figaro un'operosa mano italica aveva grattato via con metòdico accanimento filologico la sillaba ro. Oreste del Buono L'elogio diFellini: «Unnico, vero Casanova degno Mia leggenda è stato lui Roberto» Zavattini: «Voleva girare con me un film sull'Italia, che gioia! Però non se ne fece nulla> Roberto Rossellini alla macchina da presa e (sotto) con la figlia Isabella